Color out of space
di, Richard Stanley
con: Nicolas Cage, Joely Richardson, Madeleine Arthur, Brendan Meyer, Julian Hilliard, Elliot Knight, Tommy Chong
genere, fantascienza, horror
USA 2019
durata, 110’
Fear the light
Fear the breath
Fear the others for eternity
- Tool -
Il tempo è incostante. Ma se il tempo prende, prima o poi, in qualche modo, restituisce. Nel nostro caso succede che, alla fine, abbia riconsegnato agli amanti del cinema fantastico e dell’horror un autore come Richard Stanley (“Hardware”, 1990; “Dust devil”, 1992), separato dal lungometraggio di finzione per quasi un trentennio durante il quale, ad esempio, ha assistito al naufragio del progetto relativo a una personale versione di uno dei più celebri romanzi di Wells, L’isola del dr. Moreau, poi realizzato da Frankenheimer e dal titolo “L’isola perduta”, 1996 - addirittura diventato materia prima per una testimonianza a cura di David Gregory, “Lost soul: the doomed journey of Richard Stanley’s Island of dr. Moreau” - Indi si è dedicato alla sceneggiatura, al documentario, a varie collaborazioni, riuscendo anche a dirigere nel 2011 un episodio per l’antologia The theatre bizarre a nome “The mother of toads”, per tornare - e siamo al 2019 - a cimentarsi con un film vero e proprio, vale a dire di un qual rango produttivo (all’opera troviamo la XYZ e la SpectreVision di Elijah Wood, tra l’altro medesimi partner di Cosmatos per il suo “Mandy” [vd.], col quale il ritorno di Stanley allinea più sostanziali divergenze che immediate affinità) ma soprattutto latore di una coraggiosa sfida narrativa, essendo questo “Color out of space” un tentativo di adattamento del quasi omonimo racconto (The colour out of space, 1927) di H.P.Lovecraft.
L’annoso interrogativo circa il modo migliore per trasfondere l’ingegno, la sensibilità e il gusto di una visione, nel caso, letteraria, in quella delle immagini cinematografiche ha trovato da altrettanto tempo e in particolare in Lovecraft una figura tra le più restie a fornire risposte superficiali o accomodanti. A dire che la prosa del genio di Providence - intendendo con essa il suo incedere tanto elegante quanto sottilmente ambiguo, la tendenza alla rappresentazione di singolari stati d’animo sorretti senza attrito da un granitico rigore logico - mal si presta alla ricostruzione, mettiamo, sic et simpliciter realistica, come al mero accumulo di effetti vistosi e/o disturbanti. In altre parole, il punto risiede nel fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, quando il Cinema si è trovato faccia a faccia con un corpus artistico inconsueto ma al suo interno audace e coerente, tipo quello per sommi capi accennato, ha finito per rovistarne la cassetta degli attrezzi maneggiando un po’ a caso e con imperizia accontentandosi di riprodurre con parte di essi - ed è una risoluzione magari efficace ma di sicuro sbrigativa - ciò che siamo stati abituati poi a definire col termine lovecraftiano (una creatura oltremodo bizzarra; un paesaggio rigoglioso ma di fondo inospitale; il profilarsi di un’oscurità crudele dal pozzo senza fondo dei millenni, et.), qualcosa che comunque con l’intenzione, lo spirito e gli intendimenti dello scrittore americano ha poco a che fare. Circostanza, la predetta - e sempre compatibilmente alle esigenze dei rispettivi linguaggi - da cui si tiene a riparo l’esperimento di Stanley, allorquando affronta le inquietanti vicende che vedono coinvolta la famiglia Gardner (qui composta da una coppia, Nathan/Cage, mite e premuroso imprenditore convinto che un allevamento di alpaca in pieno New England possa rappresentare un profittevole investimento; Theresa/Richardson, analista finanziaria sulla via della guarigione dopo la lotta contro un tumore al seno; gli adolescenti Benny/Meyer e Lavinia/Arthur, e il piccolo Jack/Hilliard), tornata a contatto con la natura selvaggia nella dimora avita prontamente riarredata con la speranza di inaugurare un nuovo corso lontano dai dolori recenti e dalle chimere della civilizzazione. Già in apertura, infatti, è possibile notare la diversità di approccio con cui il regista sudafricano decide di introdurre la sua rielaborazione della storia, ossia la volontà di privilegiare un punto di vista eccentrico (rispetto a quello impetuoso e magniloquente del citato Cosmatos) nella circostanza di addentrarsi nei meandri di una foresta primordiale scrutandone dal basso e con circospezione la silenziosa ma come occhieggiante solennità e circoscrivere il clima vigile e sospeso del momento per mezzo di una voce narrante, la stessa - attualizzato il contesto generale - posta sulla ribalta da Lovecraft per introdurre uno dei suoi insinuanti referti: A occidente di Arkham le colline si innalzano all’improvviso, tra valli e boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure: vi sono macchie strette e buie dove gli alberi si inerpicano in maniera fantastica e ruscelli che non hanno visto la luce del sole… Quando mi inoltrai tra valli e colline per un sopralluogo della zona, in vista del nuovo bacino (idrografico, ndr), mi dissero che la regione era maledetta. Me lo dissero ad Arkham, e perché è un’antica città ricca di leggende di stregoneria, pensai che il male a cui alludevano fosse uno degli spauracchi con cui le nonne avevano atterrito i bambini per secoli… Poi vidi coi miei occhi quell’oscuro groviglio di macchie e pendii che si stende verso occidente e smisi di farmi domande, tranne che sull’antico mistero del luogo. Queste parole, recitate fuori campo dall’idrologo Ward Phillips/Knight - fin troppo facile ma eloquente il rimando all’(Ho)ward Phillips del patronimico di Lovecraft - giunto per i rilievi del caso nella proprietà dei Gardner, allo stesso tempo e di fatto distanziano il tono medio della narrazione ponendolo in una dimensione differita, quasi congetturale, aprendola di rimando a quel regno dell’esemplarità inaudita collocata al centro di una cornice ordinaria così cara ad HPL il quale, in una lettera del Marzo del ‘27 inviata al poeta e amico Clark Ashton Smith, a proposito del racconto non a caso parla di “studio d’atmosfera”.
Ed è proprio l’atmosfera - falsamente idilliaca, resa presaga da piccoli dettagli fuori sesto, da leggere insistenze allusive, da impalpabili stranezze [Nathan - interpretato da un Cage stavolta centrato su misure espressive atte a evidenziare una dolcezza stranita al posto delle reiterate (vedi, appunto, “Mandy”) catatonie e derive furiose - indulge spesso in un ottimismo didascalico e affettato; Theresa sembra d’altro canto sopraffatta/protetta da un insano torpore; Lavinia, lettrice del Necronomicon - altro appiglio lovecraftiano - intabarrata in un lungo mantello di fronte alle sponde appartate di un laghetto evoca a modo suo forze che riescano a “portarmi via da qui”; Jack, ragazzino solitario, si muove assorto come intuisse qualcosa sempre sul punto di manifestarsi; Benny, meno tormentato, galleggia, almeno all’inizio, tra spensieratezza e indifferenza] - che contribuisce a spostare il baricentro del film dal punto di caduta disperato e sanguinolento del lavoro di Cosmatos - parimenti ambientato nella wilderness, similmente caratterizzato da un progressivo precipitare di eventi che stravolgono l’equilibrio materiale e interiore dei protagonisti e ugualmente emissario della materializzazione allucinatoria di angoscianti pianeti perduti - allo spazio poco battuto favorevole a una maggiore accortezza da spendere nell’istante di modulare i toni, di dilatare le attese prima di un colpo di scena, di non cedere alla tentazione di mostrare-tutto-e-subito, prediligendo, di una follia incipiente, sollecitare i paradossi, i risvolti sovente più grotteschi che truculenti, gli scarti destinati a rimanere incomprensibili, andandosi cioè a sistemare a un passo dal sogno-a-occhi-aperti innescato nelle pieghe dell’intreccio dalla caduta di un meteorite dagli strani bagliori rosa-violacei. La stessa apoteosi finale in cui prende il sopravvento in via definitiva il diverso nella forma di una imprevedibile entità aliena al solito ben disposta a trascendere l’indolenza della biologia umana assumendo mutevoli sembianze e alterando la percezione della realtà da parte delle sue vittime/ospiti, è orchestrata da Stanley come un accorto crescendo in cui a una carnalità esplicita, figlia di suggestioni che rimontano al periodo d’oro dell’horror più analogico, più fisico - Cronenberg, Carpenter, Barker, Yuzna, Tsukamoto, et. - in ogni istante si sottende, quasi come un insostituibile nutrimento, il senso di uno stupore ancestrale, dell’attonita aspettazione per un abnorme sconcertante epperò verosimile. L’insieme in felice continuità con le intuizioni via via dettagliate da Lovecraft quando stravaganza e terrore non erano ancora un’industria ma ombre incerte sul volto degli uomini (quello di Ward davanti a un orizzonte tornato quieto solo in superficie, per dire), ai quali non restava che contemplare perplessi le mutevolezze di un mondo meraviglioso e insensato.
TFK
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