lunedì 16 marzo 2020

INVISIBILI: THE NIGHT IS SHORT. WALK ON, GIRL

The night is short. Walk on, girl
di, Yuasa Masaaki
genere, animazione
Giappone, 2017 
durata, 93’



I embrace my desire to
I embrace my desire to…
- Tool -


L’amore e la fantasia, tra le possibili, hanno di certo una duplice e ben relata caratteristica in comune: quella di essere imprevedibili nonché dotati di un singolare senso dell’umorismo. Assegnare a queste prerogative una consona forma di espressione è stato da sempre, per l’Arte, uno dei grattacapi più tenaci. Basterebbe riflettere sulle componenti estetiche, emotive e contenutistiche da contemplare e bilanciare in una eventuale rappresentazione, per rendersi conto del cimento che tale intenzione implica. Come che sia, talvolta capita - e non poche di queste (rare) volte chiamano in causa il regno dell’animazione - che la chimica dei sopraddetti elementi produca qualcosa di, allo stesso tempo, difficilmente catalogabile e piacevolmente sorprendente. Tipo questo “The night is short. Walk on, girl” di Yuasa - anno 2017 - sollecitato dallo spunto di coniugare nel modo più vitale possibile un determinato aspetto del repertorio amoroso (ossia la declinazione idealista-rètro di una liaison nascente ma contrastata all’interno dell’universo giovanile) e l’apparato fantastico (a dire: le trovate, l’intreccio dei codici e delle forme visuali, i grimaldelli narrativi e psicologici) scelto per conferirgli credibilità, spessore e capacità di coinvolgimento.

Il cuore del film pulsa in sincrono alla suggestione tante volte rinnovata dal Cinema di condensare gli attimi dirimenti di un’esistenza, i suoi incanti irripetibili, le sue scoperte inattese, entro l’arco temporale di una notte, quando le promesse mortificate dall’inesorabile determinismo del giorno sembrano irrorarsi dell’opzione ulteriore offerta dall’ambiguità consustanziale del buio - le silhouette incerte dei corpi, le proporzioni sfuggenti degli oggetti, il sapore diverso delle situazioni, et. - Al passo di siffatto intendimento ben presto si allinea la giovane protagonista, chiamata solo la ragazza dai capelli corvini (chissà Houellebecq…), gentile e determinata, appassionata e curiosa, in bilico caratteriale tra l’impertinenza accorta dell’Alice di Carroll e la dolcezza stupita della Kiki miyazakiana, più di tutto persuasa a godersi appieno l’interludio (che per lei addirittura dilata i suoi limiti abituali: “La tua presenza sembra aver allungato la notte, in qualche modo”, le viene detto a mo’ della constatazione di un’ovvietà), anzi decisa a - letteralmente - berselo, passando da un cocktail a un calice di vino, da un assaggio fortuito a una libazione esclusiva, da un gotto al volo a un boccale di birra, spensierata eppure vigile, all’inseguimento di una pienezza di cui la progressione alcolica e il moto perpetuo - walk on, girl - non sono che le più esplicite epitomi. Contraltare e ipotetico complemento è l’universitario denominato semplicemente col termine generico e consuetudinario, per l’intercalare nipponico, di Senpai, occhialuto, magro e dinoccolato Romeo, sempre sul ciglio del baratro di un crollo nervoso perché incapace di dichiararsi e quindi perfetto per non trovare di meglio che piazzarsi sovente tra i piedi della teorica Giulietta millantando le imperscrutabili alchimie del caso votate, a suo dire, a propiziare i loro incontri.

Riassunta in questo modo e per sommi capi, la vicenda non si discosta molto dalla lunghissima tradizione che assegna alla ronde sotto le stelle fatta di ripetuti intralci, intersezioni mancate di un soffio, piccoli e grandi equivoci, falsi movimenti, dettagli significativi di cui però al momento non si coglie la valenza, fisiologiche goffaggini e ritrosie, una delle chiavi di accesso al forziere di Eros. Il tenore cambia, portandosi dietro i mille andirivieni della storia - tra cui sodali ironici inclini al dandysmo, prepuberi divinità dispettose, circoli di arzilli vecchietti, studentesche rappresentazioni teatrali all’aperto e despoti matusalemme induriti dalla solitudine forzata - se si pone l’accento sulle inesauste varianze e fratture di stile imposte da Yuasa all’opera. Ciò a cui ci è dato di assistere, infatti è, né più né meno, che un caleidoscopio lisergico accompagnato/sostenuto da altrettanti numeri musicali e da dialoghi a tambur battente entro il quale il circolare perdersi/ritrovarsi dei due potenziali innamorati diviene quasi sfondo pronto in ogni istante a lasciare spazio alla materializzazione cangiante e vorticosa di ciò che il loro slancio ancora rattrappito nell’aleatorietà e nella diversione mette via via in moto a contatto con un mondo che, calato il sole, non intende più nascondere quel lato di sé che interroga l’immaginazione e il desiderio. Lo schermo si trasforma così e per davvero in un luogo senza confini vieppiù alleggerito da un tono in prevalenza divertito e possibilista, dove poco o nulla contano gli schematismi della logica, i rigori esatti della fisica, la crudeltà dello scorrere del tempo, gli steccati culturali e gli imbonimenti morali. L’autore giapponese, magari con meno irruenza oltranzista di un altro suo riuscitissimo scherzo - “Mind game” - 2004 - ma con simile se non maggiore libertà espressiva e genuina grazia, tanto nello svolgimento del tema principale che nell’impostazione degli intrecci secondari (entrambi accomunati da una frizzante e contagiosa inerzia - di per sé merce rara in un oggi dominato dal buon senso cinico e dal raziocinio retrogrado - in grado di lasciar trasparire qua e là bagliori di sincera fiducia e financo un cauto ottimismo nei confronti delle sorti dell’avventura umana), punta comunque a disfare il tessuto logoro delle convenzioni e delle aspettative - figurative, intime, dottrinali - tipiche di tanta animazione contemporanea, tentando la via della composizione di un arabesco-per-immagini che sotto l’egida del sentimento e della fantasia emette vibrazioni tali da far risuonare nella realtà (in chi guarda) l’eco di sensazioni perdute e/o dimenticate.

In tale dimensione appaiono congrue e naturali, allora, scelte artistiche e di procedura di primo acchito stravaganti ma, al contrario e per certi aspetti, sul serio più affini alle peripezie formali di certe avanguardie (gli accostamenti cromatici non ortodossi; le posture strambe o esagerate; un certo gusto per la solidità espansa dell’acquerello o per la stilizzazione assertiva dell’affiche, et.) che ai canoni consueti di buona parte, nel caso, degli anime. Dunque: perentori stacchi di tinta, improvvisi cambi di prospettiva, rapporti di grandezza sfalsati di un ètte eppure in equilibrio, contorsioni impossibili che scimmiottano maliziosamente le mimiche parossistiche delle creature di Avery. Ed esplosioni sonore, languidi momenti morti (parentesi durante le quali forse si coglie nella sua quintessenza la sorridente ribalderia del romanticismo-contro-tutto del regista), circonvoluzioni di linee che ammiccano ai calligrammi e ai reticoli di parole di Apollinaire (“Des lacs versicolores/dans les glaciers solaires”), precipizi grafici, contrappunti, dilatazioni e ritorni degni dei ricami percussivi di Danny Carey. E slogature, incompletezze, frammentazioni, zampilli e dispettose emulsioni di colore, impazienze di tratteggio, sgargianti approssimazioni. Quelli e questi armonizzati da una fenomenale attitudine compositiva utile a temperarne le rispettive asprezze. In altre parole, non resta margine per l’intentato. E, a pensarci, non può che essere così, se ciò che conta è che la ragazza dai capelli corvini e il suo Senpai scoprano insieme cosa c’è dopo la notte.
TFK

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