mercoledì 4 luglio 2018

IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO


Il sacrificio del cervo sacro
di Yorgos Lanthimos
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan
UK, 2017
genere: drammatico 
durata, 109’


Steven è un cardiologo, ha una bellissima moglie, Anna, e due figli, Kim e Bob. All'insaputa di costoro incontra frequentemente un ragazzo di nome Martin, come se tra i due ci fosse un legame, di natura ignota a chiunque altro. Quando Bob comincia a presentare strani sintomi psicosomatici, la verità su Steven e Martin viene a galla.
Come per la versione originaria di “2001 - Odissea nello spazio”, è un minuto di buio a introdurre “The Killing of a Sacred Deer”, sulle note dello Stabat Mater di Schubert. L'immagine immediatamente successiva è quella di un intervento a cuore aperto, inquadrato senza veli dalla macchina da presa.
Veniamo calati così, in maniera brusca e disturbante, in una vicenda tragica di espiazione e vendetta.
Già il titolo ce lo fa capire, con un riferimento esplicito alla tragedia di Euripide “Ifigenia in Aulide” in cui viene sacrificata una cerbiatta anziché la protagonista, e che, perciò, costituisce una delle pagine più crudeli della letteratura greca e occidentale. Al resto pensa la messa in scena di Yorgos Lanthimos, che nasconde in ogni frame un'insidia psicologica. Dapprima la sensazione costante che qualcosa di terribile stia per accadere, quindi la rappresentazione della tragedia in atto e del suo intensificarsi man mano che la storia procede. Due sono gli atti principali. Nel primo è forte, come mai prima d'ora, l'ascendente kubrickiano, sottolineato dal ricorso a musiche di Gyorgi Ligeti: inquadrature impeccabili e uniche nella loro insolita angolazione e nella disposizione dei personaggi nel campo visivo, gesti di automi che rispondono direttamente agli impulsi di un regista, alla rappresentazione di un concetto che si fa carne.


Una volta tradotta la sensazione di pericolo in un effettivo dramma, il sangue, la violenza e la crudeltà che si nascondono nell'animo umano hanno la meglio, alterando anche ritmo dello script e postura dei personaggi. Il riferimento mitologico-letterario, invece, muta dal testo ellenico a quello biblico, tra la scelta di Abramo e il giudizio di Salomone.
"Non c'è niente da risolvere per nessuno" pronuncia l'inquietante Martin nel dialogo di passaggio tra i due segmenti principali. Il razionalismo esasperato che guarda a Kubrick e vive nel personaggio di Steven, convinto di poter controllare ogni cosa a costo di mentire o alterare la realtà, lascia spazio all'irrazionalità estrema, inspiegabile e non spiegata, che ha in Martin il suo fulcro.


Se la rivelazione fatale toglie qualcosa in termini di sorpresa e radicalità, alterando l'equilibrio di accecante razionalismo della prima parte, subentra un’ironia macabra, man mano che Steven e Anna scendono a patti con l'assurdo scenario che li riguarda. Nell'indagine delle nostre fobie, Lanthimos va oltre la sindrome da home invasion su cui Haneke ha costruito una carriera, per entrare in un terreno che abolisce totalmente la causa scatenante, trasformandola in un puro espediente narrativo. La paura e il senso di colpa sono immanenti, inestirpabili e non possono che accompagnare la perfetta vita borghese di Steven e Anna. Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere su quel che accade è che non ci sono vie di uscita praticabili, che possano alterare l'oscuro percorso del fato. Tranne una, la più impossibile e dolorosa di tutte.
Quando il punto di vista sembra trasferirsi su Anna, che intende mettere ordine in quanto avvenuto e ristabilire un equilibrio pagando il prezzo necessario, ecco che la donna traduce in parole il pensiero peggiore e più crudele in una ipotesi di soluzione. Come in “The Lobster”, non ci sono buoni né innocenti nell'universo di Yorgos Lanthimos, qui alle prese con un passo ambizioso della propria carriera, nel tentativo di far sua l'eredità di Kubrick e Haneke e spingersi oltre. Finché l'operazione riesce, la sensazione è di un cinema lucidamente spietato. 
Riccardo Supino

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