La Fondazione Cineteca Italiana programma una rassegna completa dei dieci lungometraggi del cineasta del Montana presso il cinema Oberdan di Milano dal 22 agosto al 7 settembre 2016.
Nato nel 1946, David Lynch oltre a essere uno dei più affermati e geniali registi e sceneggiatori della Settima arte è anche un pittore, scrittore e artista completo. Durante la sua giovinezza frequenta diversi corsi di arte e musica, dedicandosi a sperimentazioni e pittura materica e astratta (la Triennale di Milano gli dedicò una personale completa nel 2008, con il corredo di un bel catalogo), che hanno (avuto) una notevole influenza anche sulla sua concezione dell’immagine e delle opere cinematografiche e sperimentali da lui create. Dopo i corti a passo uno, composti da disegni e oggetti animati, Lynch passa alla realizzazione del suo primo lungometraggio Eraserhead – La mente che cancella (Eraserhead, 1977) che inizia nel 1971, con un budget di appena diecimila dollari, mentre frequenta i corsi del conservatorio dell'American Film Institute a Los Angeles. La lavorazione dura, tra diverse interruzioni per i più disparati motivi, fino al 1977, anno dell’uscita dell’opera, portando a periodi di estrema povertà che lo costrinsero a vivere per lunghi periodi sul set che aveva a disposizione per girare il film. Eraserhead è un’opera sperimentale sulla vita di una giovane coppia in una periferia industriale di una grande anonima città e di un concepimento di un bambino che si rivela un piccolo mostro. Metafora della difficile vita familiare che stava attraversando Lynch in quel periodo, il film rivela fin da subito il genio artistico del regista americano: tra allucinazioni psichedeliche, l’uso dell’immagine in modo straniante, la messa in scena statica e piena, l’inserto di intermezzi onirici e fantastici (come la piccola famiglia di mostri che vive nel termosifone della piccola stanza dei giovani sposi), Lynch racconta tutta l’anomia contemporanea della sua generazione, con uno sguardo pittorico e un uso della colonna musicale con suoni industriali o musiche contemporanee che si’innestano nel tessuto filmico, dando un respiro alle immagini che scorrono sullo schermo. Il viaggio di un marziano sulla terra, la visione stroboscopica di una mente senza confini pur relegandola a spazi fisici circoscritti ben delineati, ma senza limiti immaginativi né figurativi.
Proprio la visione del film convince Mel Brooks a produrre il successivo film e a farlo dirigere al nostro. The Elephant Man (1980) è ispirato alla vera storia di John Merrik, un uomo vissuto all’epoca Vittoriana, affetto da gravi malformazioni fisiche. Girato in un bianco e nero denso e materico (così come il film precedente), supportato da un’interpretazione inarrivabile di John Hurt, che sotto la maschera dell’uomo elefante ci regala una delle prove migliori della sua carriera, e da un misurato e controllatissimo Anthony Hopkins, nel ruolo del dottor Frederick Treves che prende in cura il povero malato, Lynch mette in scena un melodramma anomalo, pieno di umanità per la diversità, rendendo fisica la sensibilità di un animo nobile e d’artista in una società bigotta e reazionaria, dove lo status sociale era tutto. Il film ebbe un grande successo di pubblico regalando otto candidature ai premi Oscar di quell’anno, ma troppo ardito e anomalo per i membri dell’Academy per premiarlo all’alba degli anni 80 edonisti e dove impera la reaganomics, il concetto del massimo liberismo economico con la ricchezza diventata segno distintivo sociale e culturale.
Il successo lo porta dietro la macchina da presa a dirigere il suo unico film di fantascienza Dune (1984), tratto dalla serie i romanzi di Frank Herbert, con al centro le vicende intergalattiche di un pianeta coperto di sabbia. Forti contrasti con il produttore Dino De Laurentis producono un’opera non del tutto riuscita, ma comunque di grande fascino visivo, con lo scontro per il controllo della spezia, una droga che permette il viaggio interstellare, tra due potenti casate dell’impero galattico: i buoni Atreides e i cattivi Harkonnen. Lynch riesce a introdurre inserti visionari e illusori, gioca con immagini esteticamente poetiche, dove l’acqua, il fuoco, il dolore, la vendetta, l’amore sono alla base della narrazione visiva. Il mondo industriale degli Harkonnen e il contrasto tra tecnologia, magia, e scenografie dal gusto barocco e medioevale, danno all’opera un senso di unicità e originalità per un film di genere.
Non soddisfatto del film, Lynch ritorna a una produzione indipendente e dirige uno dei suoi capolavori, Velluto Blu (Blue Velvet, 1986), dove si ritrova Kyle MacLachlan, già protagonista di Dune, e appare per la prima volta Laura Dern (che diventerà una delle sue attrici predilette). Ma soprattutto si avvale della performance memorabile di Isabella Rossellini (all’epoca anche compagna di vita del regista) nella parte di una femme fatale, donna del boss Dennis Hopper. Lynch lavora su due livelli. Da un lato, rielabora i topoi del noir, utilizzando i colori con forti contrasti e tonalità e le icone del genere, tipizzando e realizzando una delle prime opere definibili “post-noir”(di cui un altro maestro è Quentin Tarantino); dall’altro, Velluto Blu compie una progettualità sinestetica, divenendo un’opera che coinvolge i cinque sensi: la vista (i colori, la ricerca di MacLachalan dietro le porte chiuse attraverso i fori); l’udito (il film inizia con il ritrovamento di un orecchio mozzato e con la macchina da presa che s’infila al suo interno); l’olfatto (Hopper deve respirare da una bombola di elio per eccitarsi e l’odore diviene un senso erotico-conoscitivo); il gusto (gli incontri nei locali tra MacLachlan e Dern davanti a coppe di gelato, i pranzi in famiglia); il tatto (in funzione sensoriale e sessuale con gli accoppiamenti tra MacLachlan e la Rossellini). I cinque sensi sono dunque i protagonisti, così come i dettagli, ciò che si nasconde sotto terra, sotto il velo felice della provincia americana (i bellissimi fiori e poi le formiche che lavorano alacremente intorno all’orecchio mozzato immerso nell’erba tagliata di fresco). Insomma, una rivoluzione di genere per un’opera che lo travalica e lo rifonda fin dalle sue radici, con un gusto dell’orrifico che si nasconde nei dettagli e negli improvvisi detour narrativi, con una messa in scena che cambia da idilliaca a funesta nel giro della stessa sequenza.
Nel 1990 Lynch lancia in televisione la seria Twin Peaks, creando un evento dall’impatto mondiale che lo rendono noto in tutto il mondo, ma è anche l’anno di Cuore selvaggio (Wild At Heart) che vince la Palma d’oro al Festival di Cannes. Tratto da un romando di Barry Gifford (che collaborerà alla sceneggiatura di Strade perdute), con protagonista ancora una volta Laura Dern e un Nicolas Cage molto in parte, la vicenda d’amore contrastato tra Sailor e Lula diventa un calembour visivo tra giallo, film giovanilistico on the road e fantastico con espliciti richiami alla favola del “Mago di Oz”, dove la strega cattiva è la madre di Lula, Marietta (una crudelissima Diane Ladd, vera madre di Laura Dern, in un cortocircuito metacinematografico). Cuore Selvaggio è opera che in nuce ha i temi visivi e psicologici che Lynch svilupperà al meglio nelle sue opere successive, con improvvisi scoppi di violenza, in un doppiogioco con lo spettatore, sia a livello visivo che narrativo, e inserti diegetici che creano mistero e non sempre hanno un collegamento diretto con lo sviluppo della fabula, ma donano una profondità trascendentale alla visione filmica.
Subito dopo, nel 1992, Lynch sente il bisogno di allargare e mettere in scena tutta una serie di materiale narrativo che completa la vicenda di Twin Peaks. Ecco allora che dirige Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk With Me), diviso in due parti sostanziali: il primo terzo del film ci sono agenti del FBI che indagano su uno strano omicidio di una ragazza e di scomparse di agenti, sezione fantastica e onirica, piena di scene enigmatiche; i secondi due terzi del film sono il prequel della vita di Laura Palmer con tutta una serie di spiegazioni degli eventi che portano alla serie televisiva, dove ancora una volta viene messa in scena il marcio che alligna nella profonda provincia americana. Il film finisce con la morte di Laura, lì dove inizia la serie televisiva. Opera un po’ caduca e disequilibrata, Lynch però la trasforma in un film tipicamente all’interno dei suoi stilemi: il sogno che diventa realtà e viceversa, il Male che si nasconde all’interno dell’uomo, le figure umane e animali che si trasformano in sineddoche metafisiche ed estetiche, l’utilizzo del colore con contrasti tra buio e luce, così come aveva già fatto in Velluto Blu e così come farà in Strade perdute, Mulholland Drive e Inland Empire.
Il successivo è un altro post-noir, quel Strade perdute (Lost Higway, 1997) appena citato, dove il detour psichico è completo: l’uomo che uccide la moglie e si trasforma in un giovane per compiere la vendetta completa, immerso in una vicenda con inversioni diegetiche e narrative che si ricollegano come un nastro di Moebius nel finale, con un’altra femme fatale notevole come Patricia Arquette e un Bill Pullman in una delle sue migliori interpretazioni. L’assassinio e la violenza diventano solo strumenti narrativi per mettere in scena un’opera psichedelica, notturna, dove il nastro dell’asfalto della strada diventa iconico dell’infinitezza della vicenda che si perpetua all’infinito su se stessa.
Ma l’apice Lynch lo trova con Mulholland Drive (2001), dove il detour è completo e le tematiche accennate o messe in scena nelle opere precedenti trovano la loro maturità espressiva in una visione trascendentale in quest’opera metacinematografica di amori saffici nel mondo del Cinema hollywoodiano, tra sogni infranti e suicidi artistici. Vincitore del premio alla regia al Festival di Cannes, Mulholland Drive è la summa del post-noir trascendentale lynchiano, insuperato e insuperabile, opera geniale e di forte impatto visivo, con un controllo della messa in scena totale e una sceneggiatura scritta in modo che i tasselli del puzzle possano essere ricomposti nella mente dello spettatore che diviene protagonista della visione, dove tutto è finzione, dove tutto è registrato e dove tutto non è quello che sembra a una prima visione (come nella vita).
Tra questi due film, Lynch gira Una storia vera (The Straight Story, 1999) che solo in apparenza può apparire un’opera al di fuori del corpus lynchiano, ma nella realtà pienamente all’interno degli stilemi del suo cinema.
La storia dell’anziano Alvin Straigth, che con un trattorino tosaerba compie un viaggio di quattrocento chilometri per rivedere il fratello malato, rientra in quella concezione del viaggio esistenziale e onirico tipico di David Lynch. Girato in ordine di montaggio, è un’opera lineare, dritta come un fuso, che fa da contrappunto agli altri film frattali del regista americano. “Un film che va visto come un’unica esperienza” afferma lo stesso Lynch. Un’ode all’amore fraterno, familiare, al ricordo, alla vecchiaia (il fantastico Richard Farnsworth, stuntman e caratterista, si suicida poco dopo all’età di ottant’anni, affetto da un grave tumore alle ossa). Infine, abbiamo Inland Empire (2006) opera monstre di Lynch, la sua ultima, che racchiude tutto il cinema del regista americano, in questa messa in scena di un film maledetto, con protagonista di nuovo Laura Dern, metacinematografia allo stato puro (forse un po’ troppo lungo nel minutaggio), dove riprende temi che aveva sviluppato al meglio e con più equilibrio in Mulholland Drive. In questi anni, Lynch si è dedicato alla pittura, alla tv, alla musica e soprattutto alla filosofia trascendentale (attua la meditazione due volte al giorno da trentadue anni), girando il mondo e tenendo conferenze, avendo di fatto abbandonato il cinema (speriamo però in un suo ritorno). Nel frattempo rimaniamo in attesa della nuova serie di Twin Peaks che Lynch lancerà in televisione il prossimo anno.
Antonio Pettierre
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