mercoledì 31 ottobre 2018

IL VERDETTO


Il verdetto 
di Richard Eyre
con Emma Thompson, Stanley Tucci, Fionn Whitehead
Gran Bretagna, 2017
genere, drammatico
durata, 105'


Fiona Maye (Emma Thompson) è una brillante giudice di successo, donna impegnata ben introdotta nell’alta società londinese e stakanovista assidua del lavoro: una di quelle persone che antepongono la professione a qualsiasi cosa, anche a tutti i piaceri che la vita ed una buona posizione sociale possono donare.

Lady Maye è sposata con Jack (Stanley Tucci, l’estroverso presentatore Ceaser nella trilogia di “Hunger Games” ed il fedele collaboratore Nigel in “Il diavolo veste Prada”), professore universitario stanco di passare una vita di coppia solitaria vissuta all’ombra degli impegni lavorativi della moglie.
Il regista Eyre (lo stesso di “IRIS – Un amore vero”) decide di presentarceli nella loro semplicità esattamente così: come una bomba innescata pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Il loro è un rapporto tanto strano quanto sincero, fatto di reciproco rispetto ma anche di routine e di sacrifici: “Nei matrimoni lunghi si finisce per essere come fratelli” conferma Jack citando la moglie mentre annuncia a quest’ultima di aver bisogno di una amante mentre sorseggia scotch in soggiorno.

Il ticchettio dell’orologio si fa sempre più veloce ed è evidente che la detonazione arriverà da un momento all’altro. Affascinante allora come l’esplosione abbia il suono di un cellulare che squilla…quello del giudice, naturalmente.
Fiona ancora non lo sa, ma ad attenderla dall’altra parte della cornetta non c’è solo una persona, bensì il suo destino e quell’evento che le segnerà l’anima nel profondo. È l’apparente segnale di resa di Jack e l’inizio della vera storia di questo bellissimo ed intenso film.


Il racconto, tratto l’opera di Ian McEwan dal titolo “La ballata di Adam Henry”, parla del difficile caso del ragazzo britannico malato di leucemia che si rifiuta di sottoporsi alla trasfusione di sangue che può salvargli la vita. I genitori di Adam si rivolgono al giudice Maye per far rispettare la volontà del giovane contro quella dell’ospedale di procedere comunque con l’operazione, nonostante l’esplicito rifiuto del ragazzo – minorenne ancora per qualche mese – in ottemperanza alle sue credenze ed ai dogmi del culto dei “Testimoni di Geova”.

Soltanto alla fine appare chiaro allora come il film altro non sia che un percorso iniziato e finito con la prima e l’ultima scena: un sentiero imboccato dal giudice che attraverso il dubbio, la poesia ed il conflitto interiore la porterà a riscoprire il matrimonio e quel lato umano che aveva dimenticato di possedere.
Il crocevia definitivo in tal senso è senza dubbio l’emozionante monologo di Adam, interpretato magistralmente da Fionn Whitehead, fenomenale nel cullare lo spettatore in quel tsunami di angoscia e verità che il ragazzo riversa su lady Maye.
Un’opera tagliente e forte di cui si è parlato molto e di cui si parlerà ancora; un film carico di ottimi presupposti, confermati in toto dall’ottimo lavoro dello sceneggiatore (lo stesso autore dell’opera) fatto in fase di trasposizione dal libro alla pellicola.
Lorenzo Governatori

Video:The Blackout Club è un titolo di avventura co-op dalle tinte horror " Ps4,Pc,Xbox




Question, team di sviluppo formato da veterani dell’industria come il creative director e lead writer di Bioshock 2, il senior gameplay programmer di Dishonored e il lead effects artisti di Bioshock Infinite, ha annunciato lo sviluppo di The Blackout Club, un gioco cooperativo horror per PS4 e Xbox One in uscita nel 2019.
Ambientato in una piccola città con un mostruoso segreto, The Blackout Club segue un gruppo di adolescenti che si riuniscono dopo aver appreso che stanno tutti perdendo temporaneamente coscienza, svegliandosi in luoghi strani senza alcun ricordo di ciò che hanno fatto. Di recente, uno dei loro amici più cari è svanito del tutto. Quando nessuno dei genitori, degli insegnanti o della polizia è disposto a credergli, gli amici iniziano un’indagine. Insieme scopriranno un labirinto di tunnel – un inferno ostile pieno di musica ipnotica e popolato da un gruppo clandestino di adulti – tutti sotto i loro quartieri apparentemente idilliaci.
Per salvare la loro comunità e se stessi, i ragazzi dovranno scattare delle foto sulla cospirazione con la macchina fotografica e dimostrare la sua esistenza al mondo. Fino a quattro giocatori usciranno di soppiatto dalle loro case e svolgeranno missioni di sorveglianza piene di elementi generati proceduralmente tra cui obiettivi variabili, incontri con i nemici, loot e altro ancora. Ogni notte sarà un’avventura diversa in quanto la squadra cercherà ulteriori indizi ed esplorerà nuove parti del loro quartiere e il suo infausto lato oscuro. Il club non deve fidarsi di nessuno mentre si avvicinano a scoprire cosa è successo al loro amico scomparso – e la causa dei loro incontrollabili blackout.
Sopravvivere ai pericoli della notte richiederà intelligenza, improvvisazione e abilità. Gli adulti sonnambuli che potrebbero essere i loro vicini o parenti ora cercano di trascinarli sottoterra. I giocatori devono quindi coordinarsi e usare diverse tattiche per fuggire dai nemici. L’ultimo giocatore rimasto in piedi deve evitare di attirare l’attenzione di un’entità ancora più pericolosa – una che insegue senza sosta la sua preda – una che non può essere vista con gli occhi aperti…
I giocatori potranno personalizzare il proprio personaggio con poteri e diversi equipaggiamenti. Ogni membro del gruppo giocherà un ruolo distinto e utilizzerà dispositivi come droni o trappole per superare in astuzia i loro nemici e raccogliere prove dei loro crimini. Quando la missione è completa, i giocatori torneranno al nascondiglio, dove potranno salire di livello e acquisire nuove abilità da usare nelle prossime uscite.




martedì 30 ottobre 2018

7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE


7 sconosciuti a El Royale 
di Andrew Goddard
con Chris Hemsworth, Dakota Johnson, Jeff Bridges
USA, 2018
genere, thriller
durata, 141'




Presentato in concorso al Festival del cinema di Roma, “7 sconosciuti a El Royale” è il recente lavoro cinematografico del regista Drew Goddard, noto ai più per aver scritto la sceneggiatura di “Sopravvissuto – The Martian”.

Il suo ultimo film è un’opera corale con alcuni riferimenti e omaggi a Tarantino.

El Royale è un hotel che si trova sulla linea di confine tra Nevada e California, le cui camere sono distribuite in maniera perfettamente simmetrica tra i due stati. La prima scena è emblematica perché rappresenterà il filo conduttore dell’intero film: un uomo decide di soggiornare in questo albergo e, sotto le assi del pavimento della propria camera, nasconde una valigia. Qualche istante dopo aver sistemato tutto alla perfezione viene, però, ucciso. La storia fa, poi, un lungo salto temporale per arrivare a dieci anni dopo tale evento. Siamo negli anni Settanta e nello stesso posto decidono di soggiornare alcuni personaggi i quali, apparentemente, sembrano persone comuni, ma che, in realtà nascondono fin troppi segreti. Procedendo con la narrazione (suddivisa in capitoli, inizialmente sulla base delle camere e dei rispettivi ospiti, successivamente in base alle storie passate di tali personaggi) veniamo a conoscenza dei rapporti che si instaurano, più o meno volontariamente, tra le varie persone.

Goddard riesce a far rimanere lo spettatore con il fiato sospeso per quasi tutta la durata del film con colpi di scena ben gestiti. Ma è sicuramente la musica il punto centrale della narrazione e anche dello sviluppo dei personaggi. E’ grazie al personaggio di Darlene Sweet, una cantante, star dei musical, interpretata da Cynthia Erivo, che entra in moto tutta la narrazione di “7 sconosciuti a El Royale”. Una sorta di thriller che riesce a tenere desta l’attenzione del pubblico, nonostante i personaggi rimangano sostanzialmente in superficie. Di ognuno di loro viene accennato e mostrato il passato, o meglio una parte di esso, senza però andare a scavare troppo in profondità, mantenendo tutti, più o meno, sulla stessa linea, chi per un motivo e chi per un altro.

Al di là della struttura della narrazione, che procede senza intoppi, e fa rimanere lo spettatore incollato allo schermo sempre in guardia da qualche eventuale effetto sorpresa, un altro elemento importante sotto questo punto di vista, che rende la trama sempre più avvincente è il numero dei personaggi: non il fatto che, essendo un film corale, essi siano tanti, quanto piuttosto il continuo richiamo al titolo, nel quale riecheggia il numero 7. Lo spettatore, per tutta la durata del lungometraggio, si ritrova a contare i personaggi e a domandarsi costantemente quando arrivi il personaggio successivo (perché non tutti e sette ci vengono presentati fin dall’inizio). Goddard è, quindi, molto abile anche nel creare una suspense meno “violenta” e più “impostata” che accompagna il pubblico fino alla fine.

Aspetto non trascurabile è, inoltre, il riferimento doveroso all’epoca storica nella quale il film è ambientato. Ci troviamo nel 1970 (data che si può evincere dal celebre discorso del presidente Nixon in tv) e quello che il regista vuole mostrare non è in realtà l’intreccio che si viene a creare tra i sette protagonisti della vicenda, ma una vera e propria critica alla società dell’epoca, sotto tutti i punti di vista, tanto da arrivare a lasciarci, alla fine, con un quesito irrisolto, aperto a varie interpretazioni, nel bene o nel male.
Veronica Ranocchi

lunedì 29 ottobre 2018

Sekiro: Shadows Die Twice un Gioco Molto Punitivo, Sara un Gioco di Nicchia per i patiti del genere SoulsSlike







Un’intervista ad Hidetaka Miyazaki apparsa su PlayStation Blog riporta le rassicurazioni del direttore di From Software a coloro che temono che la meccanica della resurrezione sia stata introdotta su Sekiro: Shadows Die Twice per rendere il gioco più semplice e meno punitivo: anzi, questo sistema sarebbe stato impiegato per rendere il tutto più difficile.

L’idea di fondo è che i ninja, al contrario dei guerrieri che controlliamo in Dark Souls, sono esseri fragili. Un solo errore significa morte certa. “Un cavaliere ha armatura e tutto il resto. [I ninja invece] corrono un grosso rischio, sono molto vulnerabili durante il combattimento. […] L’idea dietro alla resurrezione è che aiuta il gioco a mantenere un flusso. Si, partecipi a questa battaglia, ma non serve tornare indietro ad un falò ogni volta che si muore, e questo ci aiuta a bilanciare il tutto [il fatto che si muoia più spesso, ndr.] e permette di impiegare un gameplay più da “filo del rasoio”.




Acquista qui il Gioco 





Sekiro: Shadows Die Twice promette di essere un titolo impegnativo quanto le opere passate di From Software, e Miyazaki sembrava essere pronto a ricevere una domanda che mettesse sul piatto le legittime preoccupazioni dei fan per un’eventuale apertura al pubblico meno “hardcore”“C’è una cosa in particolare che non voglio sia fraintesa: il sistema di resurrezione non è stato introdotto per rendere il gioco più semplice. Anzi, in realtà potrebbe rendere il gioco più difficile perché ci permette di superare i limiti di rischio nel combattimento e far sì che il giocatore possa morire in qualsiasi momento”.
Il direttore ha anche speso qualche parola per divulgare la sua idea di narrazione che Sekiroimpiegherà: “Sono un fan delle storie che richiedono un briciolo d’immaginazione per capire il tutto”. Come traspare anche da una breve dichiarazione di questo tipo, possiamo dire con una buona dose di certezza che la narrazione frammentaria di Dark Souls farà il suo ritorno: niente mappe, niente cursori che ci dirigeranno al nostro prossimo obiettivo, niente cinematiche sopra le righe a narrare un’epopea che sarà meglio vivere in silenzio e meraviglia. From Software è tornata.





Nuovo Video spot con tante scene inedite " Ralph Spacca Internet "







Ricordiamo che il mitico Fabio Rovazzi interpreterà tre Stormtrooper presenti nel film (a loro volta tratti dalla celebre saga di Star Wars).
Avete già visto anche il trailer finale del film, apparso online alcune settimane fa?
Ralph Spacca Internet è diretto da Rich Moore e Phil Johnston, co-sceneggiatore insieme a Pamela Ribbon. John C. Reilly e Sarah Silverman presteranno la voce al protagonista e Vanellope von Schweetz, oltre a Jack McBrayer (Felix Aggiustatutto) e Jane Lynch (Tamora Jean Calhoun).







Sony Ps4 ha iniziato a invitare utenti alla beta del firmware 6.10, con cambio di nome su PSN






In questo periodo Sony sta lavorando all'aggiornamento 6.10 e a quanto pare ha iniziato a inviare gli inviti alla beta per gli utenti selezionati.




In questo caso, l'update apporterà almeno un cambiamento di grande interesse, ovvero la famosa possibilità di cambiare il nome utente nell'ID online del PSN. Si tratta di una caratteristica attesa da anni, che finalmente dovrebbe diventare realtà con l'aggiornamento in questione. Questo almeno in base ai primi screenshot emersi online la settimana scorsa, dove risulta visibile proprio l'opzione "Online ID" con sotto la spiegazione "Cambia il tuo profilo ID online".

Questa Sera Ore 20:30 in Diretta Live sul Gioco Horror " Call of Cthulhu "



Call of Cthulhu Gioco Horror Ps4

In parte investigativo ed in parte GDR, Call of Cthulhu si pone come obbiettivo una dettagliata emulazione dei racconti di H.P. Lovecraft. Durante la nostra prova con mano (una demo guidata della durata di 20 minuti) di fronte a noi si sono parati: mostri senza occhi, dipinti adibiti a porte per altre dimensioni, scene del crimine in cui le vittime erano dei bambini e palazzi decrepiti che non avrebbero di certo sfigurato in Resident Evil o in un film di Dracula.
L'ispirazione per le meccaniche del gioco partono dal board game ufficiale che porta lo stesso nome, un GdR carta e penna stile D&D ideato nel 1981. Il risultato è un videogioco che privilegia nella maniera più assoluta la lettura e l'osservazione degli indizi.
Vestiremo i panni del detective Edward Pierce, incaricato di indagare sulla morte di un famoso artista e della sua famiglia avvenuta su un isola, che fungerà anche da ambientazione durante l'avventura. Si tratta di un territorio roccioso perennemente battuto dal vento e avvolto da una notte che sembra non finire mai. Solo alcune lanterne riescono timidamente a tagliare il buio, mentre corvi e cornacchie proiettano le loro sagome in cielo, mettendoti addosso la brutta sensazione di esser sempre osservato. Visivamente Call of Cthulhu possiede una forte identità Lovecraftiana che lo pervade in ogni angolo.
Probabilmente una delle cose più interessanti del gioco è il suo continuare a mettere in dubbio la sanità mentale di Pierce. Non appena si proseguirà con la storia e le vicende si faranno più complesse attorno al mistero che si cela dietro a delle morti inspiegabili, il protagonista ed il videogiocatore stesso cominceranno a chiedersi se quello che stanno vedendo sia effettivamente reale.

IN VIAGGIO CON ADELE


In viaggio con Adele 
di Alessandro Capitani
con Alessandro Haber, Sara Seraiocco, Isabella Ferrari 
Italia, 2018
genere, drammatico
durata, 83’


Adele è una ragazza speciale. Libera da freni e inibizioni, indossa solo un pigiama rosa con le orecchie da coniglio, non si separa mai da un gatto immaginario e colora il suo mondo di post-it su cui scrive i nomi di ciò che la circonda. Cinico e ipocondriaco, Aldo è un attore di teatro che, appoggiato da Carla, sua agente, amica e occasionale compagna di letto, si trova alla vigilia della sua ultima grande opportunità nel mondo del cinema. L'improvvisa morte della mamma di Adele sconvolge i piani di Aldo che scopre solo ora di essere il papà della ragazza. Con il compito di dirle la verità e l'intento di liberarsene, Aldo parte con Adele, risalendo dalla Puglia su una vecchia cabrio per affrontare un viaggio dalla meta incerta.

In letteratura la scoperta dell’identità di un personaggio che prima non era nota a chi sta agendo si chiama agnizione. Nel teatro questo espediente è presente sin dalla classicità greca e anche il cinema ce l’ha proposto in più occasioni nel corso della sua storia.
Alessandro Capitani, alla sua prima prova nel cinema di finzione, ha trovato la soluzione per non apparire banale: bisogna avere due attori non solo bravi ognuno per la sua parte ma anche capaci di entrare in sintonia. È quanto accade con Alessandro Haber e Sara Serraiocco. 

Il primo non si limita a interpretare l’ennesimo personaggio della sua lunga ed apprezzata carriera cinematografica e teatrale. Gli inietta dosi sostanziose di se stesso, di un’apparente scontrosità e di un sentimento simile alla rabbia nei confronti della vita che sono scudi sottili dietro i quali si cela un senso profondo di umanità e un bisogno di relazionarsi con chi gli sta intorno. Aldo è così. È un attore in attesa di un provino importante.
Haber trasferisce la sua sensibilità in un personaggio che è l’amante occasionale della propria agente che ha quella quadratura caratteriale e quell’ordine che a lui mancano ed è in più, senza averlo mai saputo, padre. Ma non di una ragazza qualunque. È il padre di Adele a cui Sara Serraiocco sa offrire una molteplicità di sfumature che vanno dalla spudoratezza al dolore più intimo che si trasforma in invenzioni e desideri sempre a rischio di delusione. 
Per questo marca tutto ciò che la circonda con post-it in cui dà un nome a ogni cosa e persona, forse per l’inconscia necessità di fermarne e stabilirne una volta per tutte la presenza nella sua vita. Il loro on the road è irto di disavventure, ognuna delle quali rischia di allontanarli l’uno dall’altra e invece, impercettibilmente, permette loro di conoscersi per quello che veramente sono.
Riccardo Supino

13 FESTA DEL CINEMA DI ROMA: SE LA STRADA POTESSE PARLARE


Se la strada potesse parlare
di Barry Jenkins
con KyKy Lane, Stephane James, Regina King, Dave Franco
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 117'



Anche se uno non è americano e non frequenta l'industria hollywoodiana può comunque immaginare cosa voglia dire per un regista di quelle parti sbucare dal nulla e aggiudicarsi l'Oscar di miglior film dell'anno, tra le varie categorie forse la più prestigiosa, di certo la più ambita dai Mogul delle grandi case di produzione. Come in molti ricorderanno tale scenario si è concretizzato nel 2016 quando Barry Jenkins, si è visto consegnare la statuetta in questione al termine di una premiazione a dir poco rocambolesca in cui per un errore degli organizzatori il premio in un primo momento era andato al favoritissimo "La La Land". A parte l'aneddoto, certamente singolare, tutto questo è importante per non dimenticare la particolarità del contesto in cui nasce "Se le strade potessero parlare", come sempre capita in questi casi, chiamato a onorare il prestigioso riconoscimento con un'opera all'altezza del nuovo lignaggio e d'altro canto responsabile di riportare con i piedi a terra ma senza grossi traumi il sorprendente vincitore.

Per nulla intimidito Jenkins in un certo senso alza il tiro delle proprie ambizioni portando per la prima volta sul grande schermo un romanzo di James Baldwin, figura di riferimento della letteratura americana celebrata da Raoul Peck nel doc "I'm not Your Negro" e distintasi, a partire dagli anni settanta, per l'impegno speso nel denunciare i soprusi e l'intolleranza di cui furono oggetto i membri della comunità afro americana. A partire da questa scelta "Se le strada potesse parlare" si costruisce un'identità autonoma rispetto al lavoro precedente, pur presentando soluzioni formali abbastanza simili. Anche in questo caso infatti l'universalità della storia non è solo un fatto di contenuto: la predilezione per un numero limitato di figure umane presenti all'interno dell'inquadratura, la volontà di circoscrivere gli avvenimenti in una spazio fisico ristretto e le mancate aperture della mdp sul paesaggio circostante danno corso a una rappresentazione più ideale che reale dell'esistenza,. In tale direzione, va letta ad esempio la presenza di un personaggio archetipo qual è il poliziotto che incastra Fonny per un delitto mai commesso, manifestazione del male del tutto svincolata da riferimenti tangibili che non sia l'urgenza di rappresentare il mood di un'epoca di ingiustizie e persecuzioni.


Ma come si diceva qualche riga fa le peculiarità di "Se la strada potesse parlare" stanno altrove e per esempio nell'autoreferenzialità alla storia della comunità afro-americana delle cui sorti Tish e Fonny (protagonisti della vicenda insieme a Sharon e Joseph, genitori di lei,) giovani e innamorati costituiscono per la drammatica svolta della loro relazione il campione sul quale misurare la negazione di un riscatto che diventa metafora di quello negato al consesso a cui i due appartengono. Così, se in "Moonlight" la lotta per la "causa" e la militanza dei "fratelli" erano assenti mentre le iniquità del sistema e la segregazione sociale incrociavano i destini dei personaggi in maniera indiretta, più che altro nel degrado materiale e spirituale del paesaggio e degli uomini, alla stessa maniera la Harlem degli anni settanta nulla ha a che fare con la Miami dei nostri giorni così come il senso di famiglia e l'amore per l'arte che si respira nel quartiere nero dove vivono Tish e Fonny dista anni luce dal senso di alienazione e dalla cultura gangsta rap del ghetto in cui si barcamenano Kevin e Chiron. D'altronde, mentre questi ultimi sono figli dell'America proletaria e diseredata, Tish e Fanny insieme alle loro famiglie sono parte integrante di un universo proto borghese che nonostante tutto gli permette di coltivare (fino al momento della drammatica svolta) progetti e amore senza la rabbia e la violenza che invece faceva da sottofondo alle esistenze dei primi due.

Ed è forse questo punto più di altri a determinare la continuità poetica del cinema di Jenkins che pone al centro della questione il superamento delle barriere morali, fisiche, sociali che separano gli individui dal raggiungimento dell'amore e della felicità, qui sintetizzate dalle sbarre della cella dove Fonny aspetta il giorno in cui tornerà libero. Jenkins la rappresenta con una messinscena sofisticata e complessa che utilizza il tempo sia come elemento narrativo, nel tentativo di creare una drammaturgia del ricordi attraverso i continui scarti tra passato e presente, sia come flusso interiore, capace di dare conto delle emozioni dei personaggi visualizzandole nel ricorso a sistematiche dilatazioni temporali che hanno il compito di sottolineare stati d'animo e sentimenti. In questa dimensione tutta interna della storia vanno letti i contrasti di luce impiegati per dare conto del tormento e della precarietà affettiva dei due innamorati, frutto della fotografia di James Laxton, così come i colori caldi e materici utilizzati dal regista per esaltare le passione che attraversa il film. Ma non basta perché "Se le strada potesse parlare" è soprattutto un film di attori e di corpi, tutti bravi (ma con una menzione speciale per l'esordiente Kim Layne nella parte di Tish e della "madre" Regina King) e fotogenici a cui Jenkins si rivolge con una devozione forse eccessiva che lo porta a soffermarsi oltre il dovuto sulla bellezza dei volti e sulla levigatezza delle figure. Girato sul crinale che divide l'attenzione maniacale da un esteriorità che in qualche passaggio rischia di prendere il sopravvento sull'urgenza dei temi, "Se le strada potesse parlare" è meno riuscito del suo predecessore ma ancora più coraggioso per la fiducia che assegna al cinema di fare breccia nei cuori delle persone.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

HOME VIDEO: JURASSIC WORLD

JURASSIC WORLD:
IL REGNO DISTRUTTO

DISPONIBILE  IN 4K ULTRA HD, BLU-RAYTM3D, BLU-RAYTM, DVD E IN DIGITAL HD CON UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA



Jurassic World: il regno distrutto
di Juan Antonio Bayona
con Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Ted Levine
USA, 2018
genere: fantasy
durata, 128’

A tre anni di distanza dai fatti di Jurassic World, Isla Nublar sta per essere sommersa da lava vulcanica. Il governo deve decidere se salvare i dinosauri superstiti che la popolano o se lasciare che la natura faccia il suo corso. Eli Mills propone a Claire di coinvolgere Owen per una missione di salvataggio, che recuperi anche il Raptor super-intelligente Blue. 
“Jurassic World: Il regno distrutto”, nel terzo e conclusivo atto della storia, punta tutto sulla suspense. Dalla catastrofe naturale del vulcano in eruzione su Isla Nublar alle tematiche animalistiche, passando per il sempre caro scontro tra filosofia morale e avidità congenita, il film diligentemente prepara il cliché che ben conosciamo. C'è più consapevolezza su cosa trattare in modo superficiale (la storia) e su cosa insistere affinché anche il pubblico affondi gli artigli nei braccioli delle poltrone (la suspense, appunto). Chi davvero lascia una traccia del suo passaggio, oltre ai rettili giganti, è il regista spagnolo Juan Antonio Bayona.

Egli realizza il suo film più impersonale, per ovvie ragioni. La rivitalizzata saga creata da Steven Spielberg nel 1993 ha riacceso tre anni fa la fiamma della passione per le creature estinte. Jurassic World è, ad oggi, il quinto miglior incasso di sempre al box office mondiale. I protagonisti sono gli eroi del Giurassico e non si bada a spese nel ricrearli al computer o dal vero a dimensioni naturali, con gli artigiani degli effetti speciali di una volta. Il regista di turno deve assecondare qualcosa di molto più grande di lui, come ha fatto Colin Trevorrow nel primo film, ma Bayona lascia una scia. Lo spagnolo è ossessionato dai riflessi: specchi e vetrate raddoppiano tensione e paura, e con le ombre disegna sui muri quei contorni propri del terrore infantile. Prende ispirazione da se stesso, attingendo a piene mani ai chiaroscuri dal fantasy “The Orphanage”, suo film d'esordio, e con il suo intervento rende più digeribile una sceneggiatura un po’ forzata sugli snodi narrativi, per mandare avanti la storia nel film successivo.


Scritto sempre da Trevorrow e Derek Connelly, “Jurassic World: Il regno distrutto” raddrizza il tiro, scorre veloce lasciando spesso il primo piano all'azione e delinea meglio i personaggi rispetto al precedente film. La presenza femminile, intanto, fa un bel passo avanti in quantità e qualità. La Claire di Bryce Dallas Howard è operativa e decisiva più di quanto non sia Owen, sempre Chris Pratt. Quest'ultimo ha la commedia nel sangue: bastano tre momenti di brevi espressioni facciali per ricordarlo e una sequenza memorabile tra il magma rovente in cui recita solo con il corpo. La dottoressa latino-americana che ha il volto di Daniella Pineda è tosta quanto basta per salvare un dinosauro e zittire in più occasioni i mercenari senza scrupoli, primo su tutti il loro boss interpretato da quel gran caratterista che è Ted Levine. Ogni volta che entra in scena la bambina Maisie, l'esordiente Isabella Sermon, Bayona gioca in casa. È su di lei che il film, anzi la saga, investe cospicuamente. 

A fronte della pericolosa primordialità dei dinosauri, “Jurassic World: Il regno distrutto” ribadisce quanto l'uomo sia l'unico vero animale da temere per il futuro della sua stessa specie e di tutte le altre. Il messaggio passa attraverso le parole pronunciate dal dottor Malcolm, una presenza che segna il ritorno, seppur per poco più di un cameo, del carismatico Jeff Goldblum.
Riccardo Supino

 

Ciao a Tutti - Voglio Ricordarvi che il 31/10/2018 ore mezzanotte si va in Diretta Live su " #OpenbetaFallout76 " Video








Ciao a Tutti - Voglio Ricordarvi che il 31/10/2018 ore mezzanotte si va in Diretta Live su " #OpenbetaFallout76 " Video qui trovate il Link del Mio canale Twitch https://www.twitch.tv/gameplays1973channel






Leggete il Commento sotto per Favore 





Ps: Salve a Tutti -- Finalmente tutti i miei impegni sono finiti adesso Posso dedicarmi alle pubblicazioni dei Post sul Mondo dei Videogiochi H 24 da domani si Riprende a tutta forza con le Pubblicazione!! vi chiedo ancora scusa ragazzi 







giovedì 25 ottobre 2018

13 FESTA DEL CINEMA DI ROMA: FLAVIOH - TRIBUTO A FLAVIO BUCCI


FlavioH -Tributo a Flavio Bucci
di Riccardo ZInna
con Flavio Bucci, Alessandro Haber, Giuliano Montaldo
Italia, 2018
durata, 80'



Nella carriera di un attore ci sono personaggi che funzionano come un'arma a doppio taglio, perché se da un lato l'eccezionalità dell'interpretazione consente all'interessato di lasciare un ricordo indelebile nell'immaginario dello spettatore, dall'altro la persistenza del riferimento finisce per fagocitane il talento, al punto da non permettergli altra scelta che non sia quella di reiterare il modello o scomparire. In questo senso, il caso di Flavio Bucci è paradigmatico, poiché a fronte di un talento artistico che lo ha visto primeggiare nel cinema e nel teatro, non c'è dubbio che a farcelo ricordare sia soprattutto il ruolo del pittore Antonio Ligabue nell'omonimo sceneggiato televisivo diretto da Salvatore Nocita. Così, pur immaginando quali e quante siano state le ragioni che hanno spinto Riccardo Zinna a dedicare il suo progetto all'attore piemontese, facendone non solo il centro d'interesse del film ma riuscendo a riportarlo dopo anni di assenza davanti alla mdp assegnandogli la parte di sé stesso e quello di guida spirituale della narrazione, certo è che "FLAVIOH - Tributo a Flavio Bucci", seppur in linea con il carattere del personaggio e quindi poco incline a una ricostruzione filologica e istituzionale della biografia artistica del protagonista, ben si presta - per la sua forma documentaria - a una rivalutazione critica del nostro atta a testimoniarne la poliedrica genialità sulla base di trascorsi che lo hanno visto giovanissimo partecipare ad alcuni dei film italiani più importanti dello scorso secolo: da "La classe operaia va in paradiso", in cui condivise il set con Gian Maria Volontè, mentore che ne favorì l'ascesa nel cinema più impegnato e militante di quegli anni, a "La proprietà non è più un furto", diretto, come il primo, dal grande Elio Petri, ai lavori con Montaldo sullo schermo e in televisione, anch'essa frequentata con profitto. Senza dimenticare le sue qualità di doppiatore, prestando la voce a star del calibro di John Travolta, Gérard Depardieu e Sylvester Stallone, e di produttore ("Ecce bombo" di Nanni Moretti).


I meriti del film, però, non finiscono qui, poiché "Flavioh" oltre a riportare alla memoria fatti dimenticati ma comunque conosciuti, arriva a fare quello a cui molti biopic non riescono nemmeno ad avvicinarsi e cioè a ricostruire - portandoli sullo schermo con l'aiuto del protagonista - i lati oscuri e le contraddizioni di una personalità genuina ma complessa, costretta a convivere con i fantasmi di un estro che, come spesso capita ai grandi, è fonte di gioie nel lavoro e di dolore nel privato. Da questo punto di vista Zinna non risparmia niente al suo personaggio, raccontandone pregi e difetti con una partecipazione che travalica il rapporto tra regista e attore e sconfina in una complicità fatta di risate e malinconia, il tutto all'insegna di un "umano troppo umano" ben sintetizzato dalla sequenza d'apertura, in cui un Bucci a dir poco contrariato rischia di mandare tutto all'aria (il film e il suo regista), facendo fuochi e fulmini contro chi non si è curato di assicurargli il giusto relax tra un ciak e l'altro.

Con stile franco e colloquiale Zinna (prematuramente scomparso lo scorso settembre) non si limita a riproporre il documentario più classico, quello in cui il protagonista e gli altri interlocutori parlano di sé e degli altri rivolgendosi direttamente alla telecamera, ma, in conformità al personaggio, ne rappresenta l'irrequietezza costringendo a un viaggio itinerante in cui le diverse tappe del tragitto - a Torino, dove tutto è iniziato, a Roma in cui abitano la madre e il fratello, e anche all'estero per salutare il figlio e la compagna - offrono l'occasione per mettere insieme un amarcord pubblico e privato in cui chi lo ha conosciuto da vicino contribuisce a farsi un'idea di chi è stato e di chi è oggi Flavio Bucci, omaggiato alla sua maniera da Zinna che, senza nasconderne le complicazioni di salute, lo riprende claudicante e affaticato come un Re Lear in esilio dal suo regno. Favorito dal passo simile a quello di un diario di viaggio (regista attori e troupe si spostano da un punto all'altro a bordo di un camper molto vintage), "Flavioh" più che un documentario è un blues on the road destinato a diventare un luogo dell'anima. Quella di Bucci, nonostante le molte vicissitudini, ancora pronta a dare battaglia a chi, ancora oggi, ne vorrebbe fare un attore come gli altri. Zinna che del film è anche sceneggiatore, direttore della fotografia e musicista dimostra di essere cineasta a tutto campo. Ci mancherà!
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

FAHRENHEIT 11/9


Fahrenheit 11/9
di Michael Moore
USA, 2018
genere, documentario
durata, 128'



Allora non potevamo saperlo perché all'epoca di "Fahrenheit 9/11", il film che ne aveva decretato la fama, permettendogli addirittura di essere il primo documentarista ad aggiudicarsi (nel 2004) la Palma d'oro del festival di Cannes, la filmografia del nostro era ancora troppo esile per mostrarne le prove. Dopo di quello c'erano stati altri film, quattro per l'esattezza, in cui però il regista pur continuando a tirare fuori scheletri dall'armadio non era più riuscito a ritrovare l'antica verve. Al termine di "Fahrenheit 11/9", presentato in anteprima italiana alla Festa del cinema di Roma, appare chiaro che quella di Moore era una disaffezione dovuta alla mancanza di un nemico reale. Troppo astratti per essere tali erano stati a suo tempo i fantasmi del sistema sanitario ("Sicko") e di quello capitalistico finanziario ("Capitalism: A Love Story"), ambedue lontani dalla maschera grottesca e dall'umorismo involontario di un repubblicano che diventa Presidente. A ridestare l'ispirazione è, non a caso, un personaggio politico come Donald Trump, carica istituzionale capace di modellare le prerogative della sua leadership su un immaginario presidenziale di stampo populista, la cui retorica si è perfezionata nei trascorsi imprenditoriali e soprattutto televisivi, quelli che ancora oggi gli permettono di reclamizzare gli slogan del suo pensiero.



Consapevole di non poter stilare un giudizio definitivo sul nuovo eletto, avendo quest'ultimo ricoperto solo un segmento del suo mandato - iniziato come dice il titolo il 9 novembre 2016 - il film allarga la sua analisi a un arco temporale più ampio, che, rivolgendosi all'America pre-trumpiana, tira in ballo nientemeno che il premio Nobel Barak Obama, accusato senza mezzi termini di aver tradito la fiducia dei votanti e, cosa più grave, dello strato più debole della popolazione, abbandonata a se stessa quando si trattava di aiutarla a salvarsi da rapacità e disuguaglianza. A questo proposito a tenere banco è il caso della crisi idrica della città di Flint nel Michigan, in cui lo stesso Moore è nato e dove migliaia di cittadini sono rimasti sotto lo scacco del governatore repubblicano, disposto a tutto, anche ad avvelenare - di nascosto - uomini donne e bambini pur di sponsorizzare l'appalto di un nuovo quanto inutile acquedotto. Un misfatto avallato persino da Obama, che, accolto a Flint come il salvatore, è tornato a casa portandosi dietro la delusione e la rabbia di quanti lo hanno visto sposare la causa dei cattivi con una pantomima, quella di far finta di bere un bicchiere di acqua contaminata, che era solo il modo per avallare l'operato del presunto responsabile.


Quando Moore arringa lo spettatore facendo risalire il declino del partito democratico all'episodio in questione, sa bene che il disamore delle classi disagiate è la risultante di concause ben più complesse di un singolo episodio. D'altro canto è altrettanto vero che gli avvenimenti di Flint altro non sono che il paradigma di una situazione estendibile al resto del paese. Ed è qui la genialità del regista, il quale, come nei momenti migliori, diverte e si diverte a fare a pezzi la storia ufficiale per rimontarla secondo una ricostruzione che, oltre a una prospettiva del potere visto dietro le quinte, può contare su un umorismo dissacrante e provocatorio dal quale è difficile non farsi contagiare. 

Quando questo si verifica con la convinzione con cui lo fa Moore in "Fahrenheit 11/9", poco conta sapere il grado di verità delle notizie apprese o se, per esempio, ciò che vediamo sia in parte il frutto di forzature operate sulla logica del racconto. Moore conosce il senso dello spettacolo e sa prendere il pubblico laddove è più sensibile, ossia mettendolo nella condizione di prendersi la rivincita sul potere, messo alla berlina per interposta persona, attraverso gli sberleffi e le provocazioni del simpatico "ciccione". Guai, dunque, a sottovalutarne l'arte, anche perché, oltre all'affabulazione, "Fahrenheit 11/9" è bravo a colpire con la potenza delle immagini: ce ne sono molte che varrebbe la pena citare ma quella in cui vediamo Hitler doppiato con la voce di Trump e, ancora, l'intera sequenza volta ad ipotizzare la casualità della sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti sono opera di un cineasta che sa il fatto suo. Dopodiché, come nota a margine, fa piacere apprendere che l'Italia non arriva sempre a ruota dell'America. Chi andrà a vedere il film si accorgerà che quanto gli è stato raccontato, con i germogli di una nuova classe politica formata da comuni cittadini pronti a insidiare lo scranno dei soliti noti, sembra la ripetizione di ciò che è accaduto all'interno dei nostri confini con l'ascesa del movimento 5 Stelle.
In uscita come evento speciale, "Fahrenheit 11/9" è un film da vedere e di cui discutere.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

mercoledì 24 ottobre 2018

Provato Fallout 76 - Recensione " Il Mio Parere Personale Meglio Giocato in Single Player "






Fallout 76 è croce e delizia di un pubblico che, a volte, arriva a sfiorare l'integralismo politico e religioso di fronte alle proprie serie preferite. Ogni tentativo di apportare qualche modifica interessante ad una meccanica ormai rigirata su se stessa arriva a scontrarsi con l'odio imperituro verso qualsiasi forma di implementazione online. La realtà è che questa nuova iterazione del brand parte dalle solite e solide basi che ben conosciamo, modificando alcuni aspetti necessari all'esperienza (come l'eliminazione degli NPC) ma non per questo distruggendo ciò che di buono era stato creato negli anni in termini di narrazione. Il combat system è quello di sempre, nonostante uno S.P.A.V. rivoluzionato, e anche la crescita è rimasta la stessa, con la particolare aggiunta delle carte come perk. Ciò su cui dovremmo davvero soffermarci sono i contenuti e la loro capacità di intrattenere per i mesi e gli anni a venire, ed è qui che si giocherà buona parte dei giudizi relativi a Fallout 76.





Certezze:


  • È sempre Fallout, così come lo conoscete
  • Le carte ed i perk sono molto interessanti
  • Gli eventi pubblici potrebbero valere il tempo trascorso nell'Appalachia
  • La narrazione c'è...



Dubbi:


  • ...sebbene diversa e priva di NPC veri e propri
  • Tecnicamente arretratissimo