Hannah
di Andrea Pallaoro
con Charlotte Rampling, Jean Michel Balthazat
Italia, Belgio, Francia, 2017
durata, 95'
Girato in lingua francese da un regista italiano che vive a Los Angeles "Hannah" è un film che vive sul paradosso costituito dall'internazionalità della propria confezione. Se, accanto al titolo del film, non ci fosse il nome del regista a rimarcarne con precisione la provenienza, l'opera di Andrea Pallaoro potrebbe essere scambiata senza alcun problema per un lungometraggio realizzato da una produzione straniera. Ambientato in una città senza nome e interpretato nel ruolo principale da un'attrice cosmopolita come Charlotte Rampling, la vicenda di "Hannah" si segnala per la coerenza estrema con cui il regista mette in scena il ritratto esistenziale del personaggio che da il titolo al film. "Hannah" è infatti la storia di un congedo dalla vita, messo in scena attraverso il graduale distacco della protagonista dalle persone e dalle abitudini che l'hanno accompagnata fino a quel momento. Senza alcuna introduzione che permetta allo spettatore di capire il contesto che ha causato questa decisione, Pallaoro decide di affidare alle immagini il compito di comunicare a chi guarda cosa accade nella testa e soprattutto nell'animo della donna, cercando attraverso queste, di stabilire una connessione tra la condizione della protagonista e le azioni che le vediamo compiere nel susseguirsi delle scene.
Volendo mettere in scena la progressiva perdita di rapporti con il mondo esterno da parte della donna, il regista non solo riduce le occasioni che sono motivo di dialogo - facendo di "Hannah" una film da epoca del muto, - ma, soprattutto, rappresenta il disgregamento psichico della protagonista con una tipologia di montaggio che allarga le maglie della narrazione, collegando le sequenze in maniera che sia il sentimento di perdita e lo straniamento di Hannah ad assicurare la continuità, altrimenti minata dalla mancanza di raccordi logici, e quindi di informazioni, capaci di far emergere le ragioni ultime dei comportamenti della donna. Ma c'è di più, poiché, se dapprima la saltuaria presenza di indizi relativi al passato della donna lascia presupporre la graduale ricomposizione di un quadro d'insieme che permetta di fare luce su ciò che inizialmente non sappiamo, con il passare dei minuti, appare chiaro che al regista non interessino spiegazioni o chiarimenti. Se qualcosa emerge, come per esempio il ritrovamento di fotografie che giustificherebbero l'arresto del marito di Hannah, Pallaoro non fa nulla per confermare le ipotesi o dirimere i dubbi che ne conseguono. E qui si compie il paradosso che cui parlavamo all'inizio, poiché, se bisogna riconoscere l'ambizione e la pervicacia con cui Pallaoro persegue i propri obiettivi, è altrettanto vero che il modo in cui lo fa, ripropone uno dei difetti del nostro cinema d'autore, il quale, spesso e volentieri - e a differenza di quello che succede in altre cinematografie - sembra chiudersi a riccio nei confronti del proprio pubblico, non fa alcuno sforzo per rompere l'incomunicabilità esistente da molti anni a questa parte tra i cineasti e coloro che pagano il biglietto.
Così, in "Hannah", appaiono le reticenze a cui abbiamo appena fatto cenno; cosi sono certi passaggi, contrassegnati dal solito corto circuito tra arte e vita, in cui le battute pronunciate dalla protagonista durante le prove del corso di recitazione diventano quelle che la donna non aveva potuto pronunciare per mancanza di interlocutori. E ancora, sempre per restare nel campo del connubio con altre discipline artistiche, a scene come quella ambientata nel vagone della metro, dove la solitudine di Hannah viene interrotta dall'improvvisazione di un ballerino che si muove assecondando le note di una musica che non c'è. Da qui la sensazione di un'autoreferenzialità che impedisce a chi guarda di partecipare al dramma della protagonista, e di andare oltre al semplice apprezzamento dell'allestimento scenico offerto dal regista. D'altro canto, non stupisce l'adesione al progetto da parte della Rampling, alla quale Pallaoro offre su un piatto d'argento la possibilità di ribadire uno status iconografico che superati i settanta non accenna a diminuire. La scena in cui la vediamo, nuda, nella doccia della piscina, sono la testimonianza di un viaggio che è ancora lungi dall'essere terminato.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
di Andrea Pallaoro
con Charlotte Rampling, Jean Michel Balthazat
Italia, Belgio, Francia, 2017
durata, 95'
Girato in lingua francese da un regista italiano che vive a Los Angeles "Hannah" è un film che vive sul paradosso costituito dall'internazionalità della propria confezione. Se, accanto al titolo del film, non ci fosse il nome del regista a rimarcarne con precisione la provenienza, l'opera di Andrea Pallaoro potrebbe essere scambiata senza alcun problema per un lungometraggio realizzato da una produzione straniera. Ambientato in una città senza nome e interpretato nel ruolo principale da un'attrice cosmopolita come Charlotte Rampling, la vicenda di "Hannah" si segnala per la coerenza estrema con cui il regista mette in scena il ritratto esistenziale del personaggio che da il titolo al film. "Hannah" è infatti la storia di un congedo dalla vita, messo in scena attraverso il graduale distacco della protagonista dalle persone e dalle abitudini che l'hanno accompagnata fino a quel momento. Senza alcuna introduzione che permetta allo spettatore di capire il contesto che ha causato questa decisione, Pallaoro decide di affidare alle immagini il compito di comunicare a chi guarda cosa accade nella testa e soprattutto nell'animo della donna, cercando attraverso queste, di stabilire una connessione tra la condizione della protagonista e le azioni che le vediamo compiere nel susseguirsi delle scene.
Volendo mettere in scena la progressiva perdita di rapporti con il mondo esterno da parte della donna, il regista non solo riduce le occasioni che sono motivo di dialogo - facendo di "Hannah" una film da epoca del muto, - ma, soprattutto, rappresenta il disgregamento psichico della protagonista con una tipologia di montaggio che allarga le maglie della narrazione, collegando le sequenze in maniera che sia il sentimento di perdita e lo straniamento di Hannah ad assicurare la continuità, altrimenti minata dalla mancanza di raccordi logici, e quindi di informazioni, capaci di far emergere le ragioni ultime dei comportamenti della donna. Ma c'è di più, poiché, se dapprima la saltuaria presenza di indizi relativi al passato della donna lascia presupporre la graduale ricomposizione di un quadro d'insieme che permetta di fare luce su ciò che inizialmente non sappiamo, con il passare dei minuti, appare chiaro che al regista non interessino spiegazioni o chiarimenti. Se qualcosa emerge, come per esempio il ritrovamento di fotografie che giustificherebbero l'arresto del marito di Hannah, Pallaoro non fa nulla per confermare le ipotesi o dirimere i dubbi che ne conseguono. E qui si compie il paradosso che cui parlavamo all'inizio, poiché, se bisogna riconoscere l'ambizione e la pervicacia con cui Pallaoro persegue i propri obiettivi, è altrettanto vero che il modo in cui lo fa, ripropone uno dei difetti del nostro cinema d'autore, il quale, spesso e volentieri - e a differenza di quello che succede in altre cinematografie - sembra chiudersi a riccio nei confronti del proprio pubblico, non fa alcuno sforzo per rompere l'incomunicabilità esistente da molti anni a questa parte tra i cineasti e coloro che pagano il biglietto.
Così, in "Hannah", appaiono le reticenze a cui abbiamo appena fatto cenno; cosi sono certi passaggi, contrassegnati dal solito corto circuito tra arte e vita, in cui le battute pronunciate dalla protagonista durante le prove del corso di recitazione diventano quelle che la donna non aveva potuto pronunciare per mancanza di interlocutori. E ancora, sempre per restare nel campo del connubio con altre discipline artistiche, a scene come quella ambientata nel vagone della metro, dove la solitudine di Hannah viene interrotta dall'improvvisazione di un ballerino che si muove assecondando le note di una musica che non c'è. Da qui la sensazione di un'autoreferenzialità che impedisce a chi guarda di partecipare al dramma della protagonista, e di andare oltre al semplice apprezzamento dell'allestimento scenico offerto dal regista. D'altro canto, non stupisce l'adesione al progetto da parte della Rampling, alla quale Pallaoro offre su un piatto d'argento la possibilità di ribadire uno status iconografico che superati i settanta non accenna a diminuire. La scena in cui la vediamo, nuda, nella doccia della piscina, sono la testimonianza di un viaggio che è ancora lungi dall'essere terminato.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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