Leatherface
di Alexandre Bustillo e Julien Mary
con Sam Strike, Stephen Dorf, Lily Taylor,
USA, 2017
genere. horror
durata,
È pressoché inutile ricordare al lettore l’importanza che ha avuto Non aprite quella porta nella storia del cinema horror, perché di questo si è parlato a lungo in occasione della recente scomparsa di Tobe Hooper, che al lungometraggio del 1974 deve la sua immortalità cinematografica. Più interessante, è invece ricordare come il film in questione rispondesse a uno dei principi ispiratori di alcune delle storie più spaventevoli del cinema americano (The Village ne è un esempio), rappresentato per l’appunto dalla paura verso il diverso, intesa come tratto (antropologico) dominante di una cultura abituata a temere ciò che si colloca al di fuori dei propri confini. Cavallo di ritorno di quel mito della nuova frontiera che, nell’epoca delle prime colonizzazioni, aveva fatto da sprone per la conquista dei nuovi territori, di tale sentimento rimane poco e niente in Leatherface diretto da Alexandre Bustillo e Julien Mary. Nel prequel realizzato dai registi francesi la dinamica appena descritta è sostituita da una autoreferenzialità tutta interna al mondo raccontato nel film. Se, infatti, nel prototipo la dialettica tra ciò che sta dentro e fuori dall’universo della dei Sawyer (il famoso confine) è innescato dal wrong turn dei cinque ragazzi che, non volendo, incrociano la loro strada con quella del famigerato sodalizio, in Leatherface le origini del più iconico degli assassini (seminale di villain come il Jason della saga di Venerdì 13, e del Michael Meyer di Halloween) vengono raccontate nell’ambito della medesima disfunzionalità.
Una patologia appartenente tanto ai giovani che insieme al futuro assassino si ritrovano a condividere – secondo la sceneggiatura, scritta da Seth M. Sherwood – il programma di assistenza per bambini a rischio istituito dal governo del Texas, quanto allo sceriffo – interpretato dal redivivo Stephen Dorf – impegnato a vendicare con la medesima, folle, brutalità l’uccisione della figlia da parte dei Sawyer. Non è un dunque un caso, che, a mancare in Leatherface sia proprio questo tipo di sostrato psicologico. Presente nell’originale, in cui serviva per dare coscienza all’orrore causato dalla visione del sangue, è invece assente nel film di Bustillo e Mary, il quale, anche per questo, risulta uno spettacolo godibile ma non respingente come avrebbe dovuto essere. Più interessanti in Leatherface sono le caratteristiche (scenografiche e relative alla fotografia) della messinscena, che, nonostante l’esiguità del budget, riescono a fare della Bulgaria una versione credibile della provincia americana di fine anni cinquanta.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
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