Introduzione a Michael Bay: un’apologia
“Bisogna essere assolutamente moderni”
- A.Rimbaud -
Qualora l’alieno impersonato da Bowie per Roeg si ritrovasse una seconda volta a cadere sulla Terra (“The man who fell the Earth”, 1976) e di nuovo rimanesse incuriosito dalla pervasività delle immagini - nel frattempo divenuta tragicamente ossessiva - in particolare fosse irretito da quella loro frenesia accumulativo-combinatoria a ciclo infinito che caratterizza la cosiddetta tarda modernità, sarebbe difficile che la sua attenzione non venisse catturata da qualche cascata di fotogrammi a firma Michael Bay. Questo, in linea generale, per dire che, se la perizia di un autore, intesa nello specifico come aderenza ai propri tempi e ulteriore inclinazione a forzare lo sguardo oltre l’orizzonte degli stessi, si misura non secondariamente a partire dalla di lui capacità d’intuire ciò che non c’è ancora trasfigurandolo con l’immaginazione in quello che potrebbe essere, ebbene Bay, in sincronia con un parossismo che, come detto, non appartiene in primis al suo Cinema, va inserito nella medesima cabina di pilotaggio dell’ipotetica astronave lanciata alla ricerca di scenari fisici e interiori inesplorati, come di mondi latamente altri, assieme ai vecchi Scott, Cronenberg, Cameron, Zemeckis, Besson, Glazer, Abrams, (solo per citarne alcuni); ai giovani Edwards, Jones, Garland, Shyamalan, Joon-ho, Villeneuve, le Wachowski (citandone altri): magari non (ancora) con le mani sui comandi ma sempre meno agilmente confinabile nel ruolo esornativo di fenomeno talentoso-ma-impulsivo preso a tracciare rotte strambe magari in combutta con un altro bislacco irregolare, il coetaneo Whedon.
Innegabilmente, l’accelerazione a cui le nostre vite sono state (e sono tuttora) sottoposte ha originato ripercussioni rilevanti pure in quegli ambiti di non immediata evidenza o nei confronti dei quali la sensibilità, il gusto, una qual interessata cautela, nicchia ad accettarne l’eventuale violazione: parliamo di strutture narrative consolidate; di semplificazioni progressive nel tratteggio delle psicologie dei personaggi fino alla più accessibile esemplarità; d’incerta verosimiglianza d’ambientazione; di labili nessi spazio-temporali; di torsione inaspettata di emozioni, sentimenti: di rinegoziazione sistematica dei rapporti. Ciò significa, in via preliminare, che qualunque atteggiamento si voglia assumere riguardo a Bay e al suo rutilante armeggiare con gli strumenti della Settima Arte, non si può prescindere dalla duplice e consequenziale ammissione per cui le predette ripercussioni si sono via via concretizzate in trasformazioni radicali e che Bay, da par suo, se n’è fatto interprete. E’ di tutta evidenza, infatti, come la peculiarità più vistosa di questo Cinema adrenalinico e d’immediata fruizione - d’epidermide smagliante ma qua e là percorso da schegge di presaga irrequietezza - a dire il suo slancio iper-cinetico e di norma convulso, proceda di pari passo con l’accelerazione inesausta (e relativa usura) non tanto e non solo del prodotto/merce immagine, quanto della scansione del ritmo in irresistibile crescendo con cui oggigiorno ciascuno tenta di rincorrere il flusso della propria vita individuale, tanto da ridurre a rango di frase ritrita il comune intercalare secondo cui non c’è mai tempo. Ne “La religione dei consumi” George Ritzer riflettendo sul lavoro di David Harvey (geografo, sociologo e politologo britannico) nota che quest’ultimo ritiene che la compressione del tempo e dello spazio, caratteristica della modernità, abbia subito un’accelerazione nell’età post-moderna che ha portato a una palese accentuazione del fenomeno. Più o meno l’ambiente in cui Bay si muove per orchestrare le sue estremizzazioni - in specie nella saga dei Transformers (dal 2007) - e al quale imprime un ennesimo rimescolamento/avvitamento in direzione d’una frenesia visiva capace, nelle sequenze più esasperate, di ridisegnare le modalità della percezione spostandone i limiti, ovvero disgregandone le consuetudini in una sorta d’intensificazione sensoriale ancora tutta da indagare, in cui l’erosione delle barriere tra spazio e tempo (non trascurando la materia udibilein cui tale alterazione si attua, ovvero la funzione pregnante svolta dal suono nelle operazioni d’intrattenimento di massa) oscilla talmente tra meraviglia e sovrabbondanza della stessa da travalicare l’affermazione proprio di Ritzer per cuil’implosione delle barriere temporali è di per sé stessa uno spettacolo; rovesciare quella celebre di Debord che recita lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine, andando infine a lambire, non sappiamo ancora con quali esiti, una possibile variante dell’ammonimento di Baudrillard circa l’inferno dell’uguale. Come che sia Bay - il suo Cinema - di fatto s’affianca - e come pochi altri risponde sopravanzandole sovente - alle tensioni che pulsano nel corpo mutante d’una società in esausta transizione tra i vicoli ciechi del materialismo terminale e gli intermittenti vagiti d’insperate nuove consapevolezze; tra cupi presentimenti di un tramonto definitivo della Storia in foggia di conflitti non più sanabili o di onnipervasive tirannie plutocratico-scientifiche e ancora indistinte rinascite, a mo’ di fusione calda tra apparati tecnologici propriamente detti e gli organismi lato sensu naturali, nella prospettiva ben delineata da R.Eugeni ne “La condizione postmediale”, con riferimento alla quale, e in sintesi, la disseminazione polverizzante della tecnologia nelle vite e nell’esperienza dei soggetti possiede un effetto determinante: essa implica la vaporizzazione dell’opposizione tra naturale e artificiale quale strumento culturale pertinente nell’interpretazione dell’esperienza.
Guardando, poi, un po’ più da vicino e soffermandosi sulla ricorsività di alcune tematiche palesi o sottese nei singoli film, risulta interessante sottolineare la tendenza a proporre, per quanto schematicamente in una prassi narrativa orientata da sempre più all’efficacia che all’approfondimento, un modello di convivenza che privilegia il rapporto paritario dell’amicizia (scanzonato e ridanciano nei due “Bad boys”; tormentato e competitivo in “Pearl Harbor”; dagli esiti tragico-paradossali in “Pain and gain”; leale e solidale in “13 hours/The secret soldiers of Benghazi”) o quello centrato su gruppi parentali allargati (il segmento recente dell’epopea Transformers vede costituirsene via via uno fondato sul sodalizio umani & metallici con al centro M.Wahlberg/C.Yeager), al legame tradizionale familiare, rigidamente statuito, spesso conflittuale, di fondo difettoso, spia in sedicesimo - quest’ultimo - e su un piano metaforico d’una fascinazione equivoca per un reazionarismo più o meno guerrafondaio, chissà quanto sudditanza strisciante a una tentazione di supremazia manifesta a stelle-e-strisce e quanto invece sintomo più subdolo ed elaborato d’una ambivalente ricognizione attorno al concetto sempre più inviso oltreché sminuito di autorità, nel senso della sua sostanziale assenza/carenza (assenza/carenza dei padri, innanzitutto - e in filigrana dello Stato/Patria - ossia di figure/istituzioni credibili in grado di rappresentare esempi da seguire nell’inarrestabile svuotamento di senso di valori peraltro già da tempo ridotti a poco più che simulacri propagandistici: integrità, rispetto, lealtà, coraggio, altruismo… - si pensi al cameratismo stanco e all’inerzia disillusa dei militari impiegati in una difesa semi-suicida nel già menzionato “13 hours…” o all’enfasi che la latitanza dei predetti valori riveste nel ciclo Transformers -), preda facile di una nostalgia risentita, pronta, in mancanza di controparti convincenti, a declinarla nella sua più comoda ma di fatto ineluttabile accezione conservatrice/edificante o a rigettarla tout court scommettendo su una ridefinizione radicale ancora da compiersi.
Discorso analogo può essere costruito attorno al legame devozionale stretto da Bay con la Tecnologia intesa come strumento per costruire mirabilia (Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è affine alla magia, sollecita A.C.Clark) e come oggetto di riflessione estetica candidato ad assumere su di sé il fardello di alternativa inedita ma logica al costante e mesto arretramento dell’umano. Concentrando l’attenzione sul gruppo di lavori aventi per protagonisti i colossi Hasbro, giunto oggi al suo quinto capitolo, e ridimensionando la sua portata di veicolo di sincretismi e analogie disparate (da ovvi echi messianici a rimembranze letterarie e cinematografiche sparse, compresse e alla bisogna omogeneizzate, derivate perlopiù dal canone mitico Occidentale - quelli e queste di preferenza maneggiati come mere impalcature affabulatorie -), il tratto rivelatore che emerge - e che, per taluni aspetti, risponde a quell’assenza non solo materiale di cui s’è parlato - evoca ripetutamente, sebbene a volte approssimativamente, un domani non così lontano in cui la componente artificialedel corpo, in un contesto di modernità avanzata, ossia d’incipiente deprivazione sensoriale (Wahlberg/Yeager, indipendentemente dalla sua peculiarità di eletto, in realtà per complessione e quotidiana dimestichezza d’inventore e aggiustatore provetto, già mostra segni evidenti di compatibilità fisiologica ed emotiva con l’elemento meccanico), potrebbe essere vissuta (invocata ? Ricordiamo l’insistente sottolineatura sul sentire/imparare a sentire/sentire di nuovo sottesa a un’opera come “Ex machina” del succitato Garland) al pari di una mossa estrema ma ineludibile dell’evoluzione e non come blasfema ibridazione. Del resto, la sensualità eccessiva e policroma dei Transformers, con i loro volumi geometricamente asimmetrici e le loro linee irregolari ma stilizzate (in specie quelle dell’impavido Optimus Prime), seppur non priva di reminiscenze antropomorfe, sembra incarnare, a confronto con una limitatezza sapiens oramai più inutilizzabile che importuna, più sfinita che arrogante (La produzione di rifiuti umani o, più precisamente, di esseri umani scartati, è un risultato inevitabile della modernizzazione e una compagna inseparabile della modernità. E’ un ineludibile effetto della costruzione di ordine e del progresso economico - Z.Bauman, "Vite di scarto" -) la versione migliorata (o, se vogliamo, fatale, date certe premesse) di un modello fragile e sorpassato (in Transformers IV si adombra addirittura la metamorfosi metallica di tutte le specie viventi come causa autentica dell’estinzione di massa del Cretaceo), in ogni modo non più al vertice della piramide degli enti perché dimostratosi incapace di adattarsi alle istanze d’una nuova realtà materiale (quindi percettiva) e psicologica, eventualità che Bay prefigura e rimodella film dopo film nel maelström del suo stile concitato e irriflessivo, mutaforme e nevrotico, simile per molti aspetti a uno dei ritratti sbozzato da Carrère sulle già sfuggenti sembianze di Dick: Non era fastidiosamente monomaniacale, come i classici paranoici… Era camaleontico come un bravo attore capace di sentire il polso del pubblico, di indovinarne le aspettative, e se a volte vaneggiava dipendeva dal fatto che si dava troppo da fare per soddisfarle - E.Carrère, "Io sono vivo, voi siete morti" - Per l’appunto: Bay, alla luce delle sue scelte espressive, è di certo uno che si dà da fare per soddisfare le aspettative del pubblico, e che, al di là dei successi e dei buchi nell’acqua, non lesina mezzi e non s’arrovella troppo sulle implicazioni che non siamo spettacolari o proprie di un senso dell’umorismo spiccio, facilmente assimilabile a quello del buddy movie (in Transformers V si oscilla tra cazzeggio e sarcasmo riportando, per dirne una, sulla fiancata di un Decepticon/Auto della Polizia la scritta to punish and enslave al posto della canonica to protect and to serve, o mettendo in bocca a Yaeger battute del tipo: “Ehi, questa non è una start-up. Non lo faccio per il denaro ma per la causa”). Pur, come visto, in forza soprattutto d’una corrispondenza serrata - ma si potrebbe dire brutale - con la contemporaneità, tale a volte da anticiparla originando, per prossimità, per sovrapposizione, per contrasto, interrogativi che di quella contemporaneità sempre più simile a un’industria della felicità in agonia costituiscono il parzialmente rimosso o scampoli di zona d’ombra, e in relazione ai quali i frequenti appunti, ad esempio, circa un catastrofismo cervellotico e puerile - nemmeno vivessimo in chissà quale idillio consapevole e maturo - finiscono per infrangersi sullo strato più esterno della corazza di un Cinema che riesce ogni volta a rilanciare sulla propriamodernità grazie a una baldanza/spregiudicatezza superficiale (il che non vuol dire ottusa ma letteralmente di superficie, in dialogo serrato cioè con un mondo, il nostro, oggi come oggi quasi unanimemente votato alla superficie) e a suo modo vitalistica.
Per altre vie, meno intuitive ma più curiose, diviene persino intrigante, allora, leggere le cornici iperboliche e le scorribande apocalittiche del cineasta californiano, quel loro costante tendere a una sorta di cedimento/oltrepassamento percettivo. Per esempio, nell’inquietante affinità riscontrabile tra certi estri distruttivi resi possibili dalle meraviglie digitali e le non meno devastanti - viste le proporzioni e le conseguenze reali - esplosioni cicliche di bolle speculative del mercato finanziario globale. Entrambi i fenomeni, invero, esaminati dal versante della mera sensazione, alla lunga lasciano pressoché inerte colui che vi assiste/li subisce, avvolgendolo nella medesima membrana d’impotente ineluttabilità. Anche per tale motivo, in definitiva, (il Cinema di) Bay andrebbe messo in conto e visto più come specchio deformante/deformato dell’attualità - del suo neo-infantilismo indotto dall’invadenza tecnologica; del sapore sovente stantio delle sue narrazioni; della placida assuefazione al denaro e alla violenza come spettacolo o dal montare sordo ma persistente d’istanze liberticide, et. - che liquidato e/o brandito tipo parafulmine per contraddizioni forse non più componibili - un diffuso senso d’estraneità; un profondo disgusto esistenziale; rabbie e rancori senza oggetto; noia, angoscia e frustrazione come inseparabili compagni di viaggio, et. - Ne guadagnerebbe, per quanto piccolo possa essere il contributo, il senso critico necessario a dipanare quest’intreccio sempre più contorto che è l’attuale quotidiano, risparmiandoci per una volta lo sguardo sconcertato, rapace o sprezzante di qualcuno caduto sulla Terra.
TFK
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