mercoledì 22 febbraio 2017

AGONIA DELL'IMMAGINARIO I: IL RIFLUSSO INEVITABILE DI "STRANGER THINGS

“Agonia dell’immaginario I: il riflusso inevitabile di Stranger Things”





Tutto tende a ripetersi, in genere col sovrappiù di una o diverse sfumature peggiorative. Già questo, in teoria, dovrebbe invitare alla cautela, se non alla resipiscenza. Ma tant’è. Il mondo, si dice, non funziona così. Figurarsi, comunque, una società intera e una Cultura (la nostra) che da tempo, più o meno consapevolmente, più o meno colpevolmente, affida alla propaganda e a poco altro l’auto-convincimento circa la propria indefettibile propensione al futuro continuando, d’altro canto, a mantenere mani, piedi e sguardi, ben dentro il passato, secondo un continuo e schizofrenico ribaltamento delle prospettive che oltre ad incorrere spesso nell’indulgente repertazione di uno ieri a portata di memoria mass-mediologica (quindi, all’incirca, relativo a qualche decennio addietro) svela, assieme all’ovvia strategia commerciale sottesa ad una scommessa operata su un prodotto relativamente sicuro perché agganciato alla solidità di un azzardo collaudato, la misura attuale raggiunta dal livello di stagnazione di un intero immaginario.


Il successo fulmineo quanto capillare riversatosi su una serie televisiva (visti i risultati, confermata  almeno per un’altra stagione) come Stranger Things - prodotto originale della galassia Netflix,  ad opera di Ross e Matt Duffer, quasi esordienti e poco più che trentenni, trasmesso di recente in un corpus unico di otto episodi con accortezza e indubbia abilità tenuti in tensione tra loro da millimetrici glissando e suggestivi rilanci - stupisce e, volendo, dà da pensare, proprio in virtù della sua ampiezza (notevole, pare, anche se Netflix nicchia ancora a dire la sua riguardo cifre e percentuali), collocando, invece, di fatto (e in tal senso è da considerarsi inevitabile il riflusso di un gesto come quello dei Duffer) la possibilità stessa della sua ideazione, in un territorio della reminiscenza oramai vasto e frequentato, luogo d’elezione a cui l’immaginario moderno non si stanca mai di tornare, ripercorrendo e riproponendo un intero campionario di coordinate geografiche (nel caso, Hawkins, località inventata dell’Indiana: la provincia americana, quindi), di riferimenti anagrafici (la pre-adolescenza e l’adolescenza), di percorsi narrativi (affini al racconto di formazione di stampo fantastico, arricchito da innesti fantascientifici, thriller, horror e sviluppati nei modi tipici della prassi investigativa scomparsa/ricerca), che ad ogni occasione riavvolge il nastro di precedenti visivi conosciuti, sedimentando e indurendo un senso di familiarità sovente confortevole, come pure non di rado consolatorio, al punto da risultare difficile da scalzare (probabilmente non è un caso, al netto di specifici pregi e difetti, il sostanziale fallimento del ritorno di un altro mondo - quello di X-files - nella sua versione attualizzata, ossia adeguata alla contemporaneità, priva cioè di parte di quei connotati i quali, una volta storicizzati dalla consuetudine, avevano contribuito a delimitarne uno spazio speciale nell’immaginario comune).




Si aggiunga a quanto detto che lo sforzo minuziosamente e amorevolmente cinefilo della coppia di autori in questione - il cui frullatore d’influenze ha contato, senza esagerazione, sull’apporto di decine d’ingredienti (dai rimaneggiamenti di un già geniale recuperatore come J.J.Abrams, alle atmosfere carpenteriane; dalle arditezze anatomiche di Giger, agli stupori spielberghiani e agli addii prematuri alla giovinezza di Reiner, passando per i volti vissuti di W.Ryder e M.Modine e per le note irreconciliate o melanconiche di Clash, Joy Division, Jefferson Airplane, Smiths, Echo and the Bunnymen, e solo per evidenziare i più macroscopici) - giunge ad insistere, sovrapponendocisi, su un contesto, l’odierno, in superficie disteso sul comodo sofà a nome eterno presente ma al di sotto, e anche per via della suddetta persistenza, intriso di un’inquietudine sorda, dai contorni ancora incerti quanto dalle epifanie poco rassicuranti. Diventa cioè intuibile il cortocircuito - e la conseguente sensazione di staticità del nostro immaginario - che si produce - tra proiezione sentimentale e immedesimazione emotiva; ineliminabile desiderio di rassicurazione e innegabile nostalgia: interessata manipolazione e ipotetico stallo da saturazione - tra, a questo punto, presunta attualità, dilatata nella percezione dei suoi estremi fino ad inglobare ampie porzioni di tempo trascorso, e un supposto passato che, tutto sommato e per così dire, non è mai stato messo nelle condizioni di risultare unicamente tale, non avendo mai smesso di intersecarsi col futuro ossia - il gioco di parole non inganni - col presente.




In altre parole: se da un lato resta innegabile la perizia con cui lavori come Stranger Things utilizzano e rielaborano cliché consolidati, luoghi, corpi, temi, oggetti, effetti speciali, et. (un piccolo centro ai margini di un bosco; la sparizione di un giovane: qui, il piccolo Will Byers; gli amici solidali e spavaldi subito impegnati nella sua ricerca; una madre complicata ma indomita; uno sceriffo solo in apparenza arrendevole; una base segreta dove si compiono strani esperimenti; una ragazzina dai prodigiosi poteri; la possibilità di accedere ad un universo parallelo abitato da una spaventosa creatura, et.), confidando, quasi, su un istintivo coinvolgimento e, di conseguenza, fornendo energia nuova al meccanismo di un intrattenimento assurto ai giorni nostri ad eccitante blando dell’emotività di massa, parimenti, l’innegabile coesistenza a viscosità zero dell’eterno presente con un passato che, come detto, non è mai del tutto alle spalle, cela con sempre minore agio il tentativo - e si tenga presente che la scala di riferimento di un fenomeno del genere, oggi come oggi, è planetaria - di arginare uno spiacevole stupore attonito conseguente alla latenza sotterranea eppure indiscutibile di un’angoscia collettiva identificabile con un sentore di catastrofe che aleggia stabilmente nel cuore della modernità, come se il sempre promesso futuro migliore, il domani-a-portata-di-mano delle narrazioni globali sulle sorti e progressive fosse legato (e, per certi versi, dipendesse) non ad un passato inteso come generica ed eventuale sommatoria virtuosa di esperienze e saperi di cui magari tener conto scaturiti da un mondo in ogni caso non più esperibile, ma ad un passato che mescolandosi e confondendosi naturalmente al presente nelle forme di un vaghissimo tempo fa, ne condiziona, altera e sfalsa nella valutazione il decorso al modo del riverbero fittizio della luce di una stella il cui bagliore in realtà non è che l’eco di un corpo inerte, finendo gradatamente per far sì che domani venga sempre più avvertito come minaccia che come risorsa e innescando, a mo’ di automatismo difensivo, il riflesso che spinge a volgersi indietro. 


Va da sé che un assunto arguto e provocatorio come “ogni epoca ha il futuro che si merita” trovi terreno fertile all’interno di una transizione storica complicata e violenta come quella che stiamo vivendo. In tal senso, ciò che stiamo meritando, assieme alle immagini che abbiamo scelto per esprimerlo, sembra essere un futuro avviato su un sentiero che tende a negare al tempo la liberazione d’invecchiare, ovvero di rendere materializzabili quelle premesse per cui ciò che ora non è, potrà essere, vale a dire il pieno dispiegarsi della libertà creatrice dell’avvenire. Disponiamoci, dunque, a consumare ulteriori dosi di quelle che Douglas Coupland ha definito mitologie pastorizzate, chiudendo bene entrambi gli occhi, però, dovessimo accorgerci, tra qualche tempo, struggendoci per gli anni ’90 e poi per i cosiddetti anni zero, che quelli e questi sono scaduti e che è troppo tardi, anche per rimpiangere altro.

TFK

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