Joker
di Todd Philips
con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beats
USA, 2019
genere, drammatico, thriller
durata, 123'
Nei dibattiti relativi allo stato di salute della Settima arte capita sempre più spesso di leggere articoli in cui le parti in causa tirano in ballo i supereroi e il filone cinematografico ad essi dedicato come segno della perdita di interesse da parte dei mogul hollywoodiani nei confronti della complessità del reale. Predisposti al raggiungimento della massima performance economica e perciò cablati sulla capacità di raggiungere il maggior numero di persone attraverso il livellamento di qualsivoglia diversità, i lungometraggi in questione sono stati messi all’indice dalle frange più ortodosse per aver tolto (indirettamente) spazio al cinema delle idee. Detto che l’ultimo a esprimersi in tal senso è stato nientemeno che David Cronenberg, giunto al Lido per la presentazione della versione restaurata di “Crash” e pronto a lanciare la bomba profetizzando l'occupazione assoluta delle sale da parte di Marvel e DC Comics e la migrazione degli "altri" nelle sempre più in voga piattaforme, c’è da chiedersi in che modo l’uscita di "Joker" riuscirà a spostare i giudizi delle parti in causa.
Certo è che Barbera, anticipando i tempi secondo chi scrive, vedendo ancora una volta lungo, la sua risposta l’ha data, piazzando il lungometraggio di Todd Phillips al fianco dei vari Larrain e Polanski, nella speranza di ripetere lo scalpore mediatico e i titoloni sui giornali suscitati dalla vittoria del Leone d’oro da parte del "reprobo" Guillermo del Toro e del suo "La forma dell’acqua". "Joker", infatti, è quanto di più lontano si possa immaginare dal tipico film di supereroi, perché a mancare è la materia stessa del contendere, ovvero gli effetti speciali, esclusi o quasi in ragione del venire meno - e qui è l’altra novità - di quei super-poteri ai quali la CG dà la possibilità di potersi manifestare sul grande schermo.
Prima di acquisire la sua nuova identità e anche dopo, Arthur Fleck è e rimane un uomo vittima della propria schizofrenia, per caso - almeno secondo la versione che ne dà Todd Phillipps - eletto a emblema della rivolta sociale scoppiata sul finire del film lungo le strade di Gotham City, quando, perso qualsiasi contatto con la realtà e macchiatosi di un omicidio diventato virale per essere stato ripreso in diretta televisiva, il nostro diventa il simbolo della protesta. Una casualità che nulla toglie al fatto che mai prima di "Joker" la componente eversiva nei confronti dell’ordine costituito era stata teorizzata e si era poi espressa con la precisione di intenti e soprattutto con la rabbia esternata dal film di Phillips, la cui caccia all’untore vede nell’eliminazione delle classi più ricche (urlata per le strade dalla popolazione insorta) il primo gradino della rinnovata palingenesi.
Sul piano della forma, il regista fa della rappresentazione del mondo il riflesso della personalità schizofrenica del suo antieroe, e quindi delle componenti drammatiche e grottesche insite da una parte, nelle conseguenze psicologiche degli abusi familiari subìti dal protagonista e riversati sui malcapitati di turno dall’altra, nella frustrazione di cui si nutre il sogno del protagonista di diventare un stand-up comedian di successo, infranto in diretta nazionale nel corso del talk-show presentato da un Robert De Niro qui nella parte opposta a quella che gli era toccata in "Re per una notte". Che poi, a ben vedere, quella di Gotham City sia la quintessenza della società dello spettacolo ce lo dice la scrittura del film, ancora una volta imperniata dal narcisismo esibizionistico di Joker, sempre intento a pensare in grande, immaginandosi una star televisiva, oppure lesto a trasformare strade e scalinate nel palcoscenico su cui ballare le note degli adorati musical (genere al quale di certo "Joker" guarda e si rifà).
Ma il film è soprattutto il one man show di Joaquin Phoenix, incontenibile, versatile e strabiliante con o senza la maschera grottesca che gli incornicia il viso in un ghigno di crudele follia. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un campione di una compagine sportiva lasciato libero di esprimersi a suo piacere a patto che porti a casa il risultato anche per gli altri. Joaquin di certo lo fa, perché accanto a lui a fare un figurone sono il regista e gli altri attori, davvero di contorno (anche Robert De Niro) rispetto agli assoli di Phoenix.
Comunque la si pensi, siamo di fronte a un modello di recitazione degna del miglior Actor's Studio, dunque a quell’immersione totale nel personaggio che ha come contropartita gli eccessi legati al surplus di enfasi dovuto al fatto di recitare a briglie sciolte. In realtà, considerata la natura a dir poco sopra le righe del protagonista, certi surplus di ego ci possono pure stare. Certo, siamo lontani dalla rigorosa sobrietà di Jean Dujiardin (anche lui candidato a vincere un premio come migliore attore) e non c’è dubbio che quando si muove a passo di danza, oppure mentre si rivolge all’interlocutore con dei primi piani degni del Perkins di "Psyco", la performance del nostro diventa davvero irresistibile.
A parte Phoenix, Phillips ci mette anche del suo firmando la sceneggiatura e poi inventandosi una specie di Kammerspiel in cui dolby e panoramiche sono quasi sempre esclusi nell’intenzione di enfatizzare la dimensione psichica della rappresentazione. Il risultato è un falso blockbuster (non solo dal punto di vista estetico ma anche in termini produttivi) sempre in bilico tra realtà e allucinazione. In attesa di sapere gli esiti del palmarès veneziano in cui "Joker" è dato (non da noi) tra i favoriti per la vittoria finale, aspettiamo di vedere l’accoglienza del film da parte del pubblico pagante per aggiungere ulteriori considerazioni. In ogni caso promozione a pieni voti per Phoenix e soci.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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