Braguino
di, Clément Cogitore
genere, documentario
Francia 2017
durata, 47’
If it keeps on rainin', levee's goin' to break
If it keeps on rainin', levee's goin' to break
When the levee breaks I'll have no place to stay
- Led Zeppelin -
Magari l’avvenire e la sorte si incaricheranno di pronunciare una parola definitiva - felix culpa - circa la possibilità di immaginare un sistema di vita alternativo a quello basato sullo sviluppo e l’accumulazione recuperando, quantomeno e prima che sia troppo tardi (prima, mettiamo, della nostra riduzione a mere macchine biologiche o a destinatari del Voigt-Kampff) un rapporto stretto con l’ambiente e i suoi cicli, ossia, alla fine, vanificando davvero, del predetto sistema, asprezze, limbi vegetativi e liquami. Nel frattempo, frammenti sparsi di una sorta di istintiva resistenza provano a farsi largo punteggiando il pianeta di focolai di appartata ma coriacea opposizione. Una di queste anacronistiche sacche avulse dalla rincorsa verso l’ammasso mentale d’Occidente è di certo quella individuata da Cogitore in un angolo di taiga siberiana (per i romantici e i curiosi: ci troviamo a Lat. 062 51.04 Nord e Long. 082 01.14 Est) e costituito in via esclusiva da due clan familiari - i Braguine, posti in evidenza poiché è dal loro punto di vista che conosciamo i ritmi e i riti di una manciata di esistenze così lontane da ogni parametro abitudinario, e i Kiline - di per sé già poco espansivi e per sovrappiù anche rivali, tanto da avere eretto una staccionata di legno a separare con nettezza le rispettive proprietà. Nel caso le condizioni di sussistenza non fossero abbastanza estreme, visti gli imperativi irriducibili a cui devono soggiacere - il clima, l’isolamento, la penuria di cibo (proveniente per lo più dai frutti di stente coltivazioni e dalla caccia: l’uccisione di un orso, per dire, un vecchio esemplare, non prevede sprechi di sorta. Persino le sue zampe posteriori vengono utilizzate come base per un paio di scarpe pesanti. In più, non si mancherà di allestire una cerimonia durante la quale, attraverso preghiere, canti e danze, si darà commiato alla sua anima) - ecco che il paradosso, compagno quintessenziale dell’avventura umana, con dispettosa lungimiranza prende a brigare in modo da provare a unire ciò che la consuetudine alimentata dalla diffidenza e dal pregiudizio separa: là, su un isolotto sabbioso emerso in corrispondenza dell’ampia ansa di un fiume - il Sin - dove i bambini di entrambe le comunità hanno deciso di stabilire il palcoscenico dei loro giochi. Parliamo di nuove generazioni in genere biondissime e dall’incarnato latteo, comprese in un’età che va dalla fine dell’infanzia all’adolescenza, i volti di quando in quando attraversati da mezzi sorrisi di precoce ma insopprimibile mestizia eppure, nonostante l’egestà prevalente, curiosi e stupiti come i colori dei giorni - al mattino tenui e sfumati, al crepuscolo lividi - di un’incantata estate sub-artica, correlativo oggettivo di quell’impulso che, in barba a ogni divieto, sembra spingerli irresistibilmente gli uni verso gli altri.
La breve esplorazione del regista francese, in forma di diario etnografico integrato dai segni contati di una elementare messinscena, all’interno di un singolare e spontaneo esperimento sociale en plein air a corroborare di notazioni ulteriori l’utopia delle cosiddette piccole patrie, può tornare tra l’altro utile al momento di soffermarsi sulla distanza (oramai incolmabile ?) che ci separa - noi moderni - prima di tutto intellettualmente, cioè culturalmente, dalla prospettiva di ritenere parte del bagaglio umano sistemi sociali altri (in realtà antichissimi e di patrimonio comune ma di fatto rimossi da una cecità collettiva che assegna solo al futuro il ruolo di figura guida), al fine di una autentica riappropriazione del tempo individuale in risposta al tritatutto della produzione e del consumo. Tra le maglie fitte tessute dalla rete di sguardi su cui il film fonda il suo fascino immediato e il suo specifico linguistico (in opposto contrappasso al precedente “Ni le Ciel, ni la Terre”, in cui i militari protagonisti sullo scacchiere afghano sono impossibilitati a vedere ciò che innanzitutto sono incapaci di comprendere), sguardi ora meravigliati ora guardinghi che scrutano l’imprevedibile e sconfinata astrattezza del paesaggio siberiano, soppesano e ricalibrano un giorno via l’altro la rilevanza di vecchi rancori e inedite, teoriche tregue (e che non risparmiano la stessa troupe giunta al seguito di un grosso elicottero da trasporto e guatata con l’animo sospeso di chi sta decidendo se ciò che ha davanti agli occhi è uno strano portento o solo un altro, pericoloso importuno), si coglie, così, in trasparenza, la misura esatta di un equilibrio primigenio esposto a un rischio enorme, vale a dire la tante volte ribadita fragilità del legame che assicura il nostro destino alla terra, ora ridotto a puntiglio da emarginati o, velenosa tristezza, a patetica scimmiottatura. Il passo stesso del lavoro di Cogitore, del resto, indugia tra la curiosità meditabonda di chi annota gesti e parole desueti quantunque prossimi (i Braguine al completo riuniti per i pasti alla luce di sparute candele riflettono ad alta voce, crucciati e schivi, sul loro destino incerto) e chi trattiene a stento la premura febbrile di documentare, a futura memoria, i prodromi di una ennesima estinzione (“Nella taiga la cosa più pericolosa è l’uomo. Io non mi fido più di nessuno”, osserva il capo famiglia all’indirizzo dell’anziano padre arrivato ai tempi in quelle lande remote “per sfuggire alla civilizzazione” e negli anni passato attraverso le incomprensioni con i Kiline, gli appetiti dei bracconieri e le periodiche rivendicazioni di diritti di possesso da parte delle autorità statali: “Io ho i documenti di questa terra. Ho i documenti !”, gli sentiamo ripetere dopo l’ultima ingiunzione a scendere a più miti consigli).
“Il cielo grida… ora. Grandi cose stanno per accadere”.
[Dobbiamo limitare anche il potere delle grandi aziende che causano dipendenze patologiche, che siano oppioidi o fast food, bevande zuccherate ma pure i social media - tipo Facebook - che concorrono a diffondere frustrazione e depressione. Soprattutto dobbiamo proteggere il nostro ambiente, per la nostra salvezza, il nostro benessere e la nostra pace mentale - Jeffrey Sachs, economista. Docente di Sviluppo sostenibile, Politica e Gestione della Salute, nonché Direttore dell’Earth Institute, presso la Columbia University -].
TFK
0 commenti:
Posta un commento