martedì 19 febbraio 2019

OGNUNO HA DIRITTO AD AMARE - TOUCH ME NOT


Ognuno ha diritto ad amare: touch me not
di Adina Pintille
con Laura Benson, Tómas Lemarquis, Christian Bayerlein
Romania, 2018
genere, drammatico
durata, 125’


Laura non sopporta di essere toccata. Prova anche con un giovane che si prostituisce: non riesce comunque a superare il suo problema. Christian soffre di una disabilità grave e parla con grande sincerità dei propri desideri in campo sessuale e dell'amore per la sua compagna. I due partecipano a un workshop in cui sono presenti persone di età diverse e a cui partecipa anche Tudor, che appare molto vulnerabile ma accetterà di condividere le proprie sensazioni.
Fin dal titolo intuiamo la volontà di provocare dell’esordiente, che gioca costantemente, anche nelle sue dichiarazioni, su quanto il film sia un documentario, quindi realtà, ma anche messa in scena. “Dimmi come hai amato, così che possa capire come amare”, dice all’inizio del film una voce, quando ci viene svelata una donna cinquantenne alle prese con un suo percorso di recupero del piacere, mentre una regista sfonda la quarta parete e si rivolge allo spettatore mentre prepara una macchina da presa.
L’intimità, per definizione “la sfera dei sentimenti e degli affetti più gelosamente custodita contro la curiosità e l’indiscrezione altrui”, qui viene violata dalla presenza costantemente ribadita di un terzo sguardo, quello della messa in scena stessa, che fa perdere senso e immedesimazione, con cinica freddezza, alla serie di tentativi della donna in questione, e poi di altri personaggi, di provare un piacere di cui, però, hanno anche molta paura. Il tutto, ci ricorda la regista, “per violare meccanismi di difesa e tabù, per essere finalmente liberi”.
Non si capisce quale sarebbe questa libertà mancata, né il senso del percorso che la Pintilie costringe lo spettatore a subire, come un’installazione modaiola di video arte, fra esibizione di nudità, utilizzo ambiguo e morboso di deformità fisiche, sotto la bandiera dello spinta sempre all’eccesso e del cambiamento del nostro concetto di bellezza. La malizia sembra così palese, in una banalizzazione della bellezza, ridotta a un catalogo estetizzante tanto e quanto nelle omologazioni che vorrebbe denunciare.
Una specie di work in progress, a cui la regista lavora da oltre dieci anni, un esperimento con cavie umane, ingrandite come insetti al microscopio da una camera che si muove in un laboratorio bianco vivido, sempre ambiguo e ridondante, che minaccia di dare un seguito a queste due ore già sufficientemente sgradevoli, colonna sonora cacofonica inclusa.
Riccardo Supino


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