Steve Jobs
di Danny Boyle
con Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen
Usa, 2015
genere, drammatico, biografico
durata, 133'
Quando, a margine della scorsa edizione della Festa di Roma, avevamo avuto l'opportunità di incontrare Alex Gibney ("Armstrong Lie", "Going Clear - Scientology e la prigione della fede") che del nuovo documentario è uno dei massimi esponenti, non c'era parso vero di approfondire con lui il rapporto tra cinema e realtà e di chiedergli, in particolare, un parere sul fatto che proprio il suo lavoro e quello della collega Laura Poitras ("Citizenfour"), grazie alla forza drammaturgica e alle innovazioni ontologiche presenti nei loro lungometraggi, avessero aperto in maniera ufficiale la crisi di un genere, il biopic, che, paradossalmente, proprio in quel momento circolava con massima diffusione e popolarità grazie a film come "La teoria del tutto" e "The Imitation Game" che, a nostro parere, denunciavano i propri limiti nella struttura stessa della loro messa in scena, accurata quanto si vuole ma proprio per questo incapace di centrare la personalità dei loro personaggi.
Al di là delle considerazioni emerse nel corso della chiaccherata, espresse con la cautela che di solito accompagna il giudizio sul lavoro altrui, appariva chiara la curiosità di Gibney nei confronti di "Steve Jobs", il nuovo film del regista di " Trainspotting" e di "The Millionaire" che, come il suo, avrebbe portato sullo schermo la vita e le opere di uno degli uomini più importanti del nostro secolo. Oggi, avendo usufruito della possibilità di valutare il film di Danny Boyle dopo aver apprezzato quello del regista americano, ancora inedito nelle nostre sale e significativamente intitolato "Steve Jobs: the Man in the Machine", siamo pronti a sostituire i diretti interessati nel tentare di rispondere alla questione a cui abbiamo appena accennato, e cioè di capire attraverso l'analisi del film di Boyle, se la forma del biopic , così come viene intesa nel mainstream contemporaneo, disponga ancora degli strumenti necessari a raccontare i talenti e le contraddizioni degli uomini che hanno fatto la storia.
La risposta (affermativa), ricavata dall'analisi di "Steve Jobs", non può prescindere dalla constatazione della qualità assoluta delle singole componenti, di molto superiore a quelle messe in campo in questo tipo di operazioni. A parte Boyle, qui si poteva contare sulla solidità degli interpreti chiamati a recitare le parti di primo piano, e in special misura, sull'apporto in sede di sceneggiatura di quell'Aaron Sorkin, titolare di alcune degli script più sorprendenti degli ultimi tempi. Non è dunque una coincidenza che anche in quest'occasione sia proprio la scrittura a fare la differenza in ragione di un copione che trasforma i dialoghi nello spazio in cui tutto si compie, e che affida alle parole il compito di restituire il mondo dei personaggi, di fatto - come già capitava in "Codice d'onore" e ne "L'arte di vincere" dove la guerra e ilbaseball rimangono sempre fuori campo - sottratto ai luoghi della loro normale rappresentazione. Come qui succede, nel momento in cui il curriculum vitae del protagonista s'inserisce all'interno di una cornice che, nei tre atti in cui il film si divide, riesce a isolare altrettante cesure esistenziali - ognuna delle quali scandite da una tappa fondamentale nell'ascesa professionale di Jobs - dove le cose (i computer dellaApple nelle loro diverse evoluzioni), i fatti e le persone appaiono, nella sostanziale mancanza di riferimenti con cui vengono introdotti allo spettatore, come il riflesso del conflitto interiore del protagonista, letteralmente scisso tra la visionarietà del genio e la miopia di un uomo isolato e irrisolto.
Boyle, da par suo, ha l'intelligenza di mettersi al servizio del testo, costruendo un impianto visivo che, alla maniera dell'Inarritu di "Birdman", astrae il personaggio dagli imperativi della propria immagine e dal contesto ambientale che l'ha formata per collocarlo in una zona neutra, fatta di non luoghi (le stanze, i corridoi e le hall degli alberghi in cui Jobs presenta alla comunità i suoi gioielli ) e di movimento ipercinetico - quello di Jobs che si sposta da un'habitat all'altro - che sembrano individuare i percorsi mentali del suo pensiero. Un sentore che diventa conferma con la scelta di mostrarci il protagonista nel backstage del cerimoniale e mai sul palco, a suggerire che quello che stiamo guardando è ciò che sta dietro al personaggio e dentro la sua mente. Così come di fornire a Michael Fassbender, ancora una volta (dopo "Macbeth") alle prese con un ruolo titanico e insieme teatrale ("sono come Giulio Cesare circondato dai nemici" farà dire al suo personaggio) ed a Kate Winslet, chiamata a impersonare il braccio destro del capo, Johanna Hoffman, gli strumenti per inserirsi nello spazio che separa il corpo divistico, proprio delle star mediatiche, da quello sociale, di cui invece si nutre il film di Gibney attraverso il materiale d'archivio che permette a Jobs di resuscitare dall'oblio.
Detto che, in sede di assegnazione degli Oscar ognuno di questi meriterebbe di monopolizzare l'attenzione dei votanti, quello che a noi interessa è l'anomalia di un film che aderendo alle incertezze della materia narrata ha il coraggio di mettere in scena i propri limiti che sono quelli di un genere costretto a confrontarsi con gli abissi dello spirito. Sarà forse per questa ragione che tra le tante cine biografie le sole che ci rimangono in mente sono quelle che si perdono all'interno dei loro personaggi finendo per raccontarne l'inafferrabilità. Era capitato così con il Mark Zuckerberg di "The Social Network" (anch'esso scritto da Aaron Sorkin) capita così con lo Steve Jobs firmato da un Danny Boyle, il quale dopo un lungo periodo d'involuzione si attesta su livelli di eccellenza mai raggiunti prima d'ora, realizzando la sua opera più matura.
(pubblicato su ondacinema.it)
di Danny Boyle
con Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen
Usa, 2015
genere, drammatico, biografico
durata, 133'
Quando, a margine della scorsa edizione della Festa di Roma, avevamo avuto l'opportunità di incontrare Alex Gibney ("Armstrong Lie", "Going Clear - Scientology e la prigione della fede") che del nuovo documentario è uno dei massimi esponenti, non c'era parso vero di approfondire con lui il rapporto tra cinema e realtà e di chiedergli, in particolare, un parere sul fatto che proprio il suo lavoro e quello della collega Laura Poitras ("Citizenfour"), grazie alla forza drammaturgica e alle innovazioni ontologiche presenti nei loro lungometraggi, avessero aperto in maniera ufficiale la crisi di un genere, il biopic, che, paradossalmente, proprio in quel momento circolava con massima diffusione e popolarità grazie a film come "La teoria del tutto" e "The Imitation Game" che, a nostro parere, denunciavano i propri limiti nella struttura stessa della loro messa in scena, accurata quanto si vuole ma proprio per questo incapace di centrare la personalità dei loro personaggi.
Al di là delle considerazioni emerse nel corso della chiaccherata, espresse con la cautela che di solito accompagna il giudizio sul lavoro altrui, appariva chiara la curiosità di Gibney nei confronti di "Steve Jobs", il nuovo film del regista di " Trainspotting" e di "The Millionaire" che, come il suo, avrebbe portato sullo schermo la vita e le opere di uno degli uomini più importanti del nostro secolo. Oggi, avendo usufruito della possibilità di valutare il film di Danny Boyle dopo aver apprezzato quello del regista americano, ancora inedito nelle nostre sale e significativamente intitolato "Steve Jobs: the Man in the Machine", siamo pronti a sostituire i diretti interessati nel tentare di rispondere alla questione a cui abbiamo appena accennato, e cioè di capire attraverso l'analisi del film di Boyle, se la forma del biopic , così come viene intesa nel mainstream contemporaneo, disponga ancora degli strumenti necessari a raccontare i talenti e le contraddizioni degli uomini che hanno fatto la storia.
La risposta (affermativa), ricavata dall'analisi di "Steve Jobs", non può prescindere dalla constatazione della qualità assoluta delle singole componenti, di molto superiore a quelle messe in campo in questo tipo di operazioni. A parte Boyle, qui si poteva contare sulla solidità degli interpreti chiamati a recitare le parti di primo piano, e in special misura, sull'apporto in sede di sceneggiatura di quell'Aaron Sorkin, titolare di alcune degli script più sorprendenti degli ultimi tempi. Non è dunque una coincidenza che anche in quest'occasione sia proprio la scrittura a fare la differenza in ragione di un copione che trasforma i dialoghi nello spazio in cui tutto si compie, e che affida alle parole il compito di restituire il mondo dei personaggi, di fatto - come già capitava in "Codice d'onore" e ne "L'arte di vincere" dove la guerra e ilbaseball rimangono sempre fuori campo - sottratto ai luoghi della loro normale rappresentazione. Come qui succede, nel momento in cui il curriculum vitae del protagonista s'inserisce all'interno di una cornice che, nei tre atti in cui il film si divide, riesce a isolare altrettante cesure esistenziali - ognuna delle quali scandite da una tappa fondamentale nell'ascesa professionale di Jobs - dove le cose (i computer dellaApple nelle loro diverse evoluzioni), i fatti e le persone appaiono, nella sostanziale mancanza di riferimenti con cui vengono introdotti allo spettatore, come il riflesso del conflitto interiore del protagonista, letteralmente scisso tra la visionarietà del genio e la miopia di un uomo isolato e irrisolto.
Boyle, da par suo, ha l'intelligenza di mettersi al servizio del testo, costruendo un impianto visivo che, alla maniera dell'Inarritu di "Birdman", astrae il personaggio dagli imperativi della propria immagine e dal contesto ambientale che l'ha formata per collocarlo in una zona neutra, fatta di non luoghi (le stanze, i corridoi e le hall degli alberghi in cui Jobs presenta alla comunità i suoi gioielli ) e di movimento ipercinetico - quello di Jobs che si sposta da un'habitat all'altro - che sembrano individuare i percorsi mentali del suo pensiero. Un sentore che diventa conferma con la scelta di mostrarci il protagonista nel backstage del cerimoniale e mai sul palco, a suggerire che quello che stiamo guardando è ciò che sta dietro al personaggio e dentro la sua mente. Così come di fornire a Michael Fassbender, ancora una volta (dopo "Macbeth") alle prese con un ruolo titanico e insieme teatrale ("sono come Giulio Cesare circondato dai nemici" farà dire al suo personaggio) ed a Kate Winslet, chiamata a impersonare il braccio destro del capo, Johanna Hoffman, gli strumenti per inserirsi nello spazio che separa il corpo divistico, proprio delle star mediatiche, da quello sociale, di cui invece si nutre il film di Gibney attraverso il materiale d'archivio che permette a Jobs di resuscitare dall'oblio.
Detto che, in sede di assegnazione degli Oscar ognuno di questi meriterebbe di monopolizzare l'attenzione dei votanti, quello che a noi interessa è l'anomalia di un film che aderendo alle incertezze della materia narrata ha il coraggio di mettere in scena i propri limiti che sono quelli di un genere costretto a confrontarsi con gli abissi dello spirito. Sarà forse per questa ragione che tra le tante cine biografie le sole che ci rimangono in mente sono quelle che si perdono all'interno dei loro personaggi finendo per raccontarne l'inafferrabilità. Era capitato così con il Mark Zuckerberg di "The Social Network" (anch'esso scritto da Aaron Sorkin) capita così con lo Steve Jobs firmato da un Danny Boyle, il quale dopo un lungo periodo d'involuzione si attesta su livelli di eccellenza mai raggiunti prima d'ora, realizzando la sua opera più matura.
(pubblicato su ondacinema.it)
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