sabato 26 novembre 2016

YO-YO MA E I MUSICISTI DELLA VIA DELLA SETA

Yo-Yo Ma e i musicisti della via della seta
di Morgan Neville
con Yo-Yo Ma, Kinan Azmeh, Kayhan Kalhor
USA, 2015 
genere: documentario
durata: 95' 



Figlio di un musicologo violinista e di una cantante lirica di Hong Kong, nato a Parigi nel 1955 e cresciuto a New York, il celebre violoncellista Yo-Yo Ma conosce bene, anche se non direttamente, l'oppressione dei regimi rispetto alla libera espressione artistica. Così anche diversi componenti della Silk Road Ensemble, collettivo internazionale di circa cinquanta musicisti da lui riunito nel 2000. L'ex bambino prodigio, che a 7 anni ha suonato alla Casa Bianca davanti a JFK e Jackie Kennedy, noto per le sue interpretazioni dei classici, da Bach a Beethoven, da Schumann a Dvorak, ma anche per il suo eclettismo, è riluttante a restare ingabbiato nel repertorio. Prima ha portato la musica fuori dalle accademie e dagli auditoria, a beneficio di chi più difficilmente ne godrebbe, poi fondato quel progetto dietro il quale sta l'idea di ricreare quel tessuto connettivo, ovvero di scambio non solo commerciale ma anche creativo, che caratterizzava la via della seta, antichissimo collegamento tra Cina e Mediterraneo. In poco più di 15 anni la formazione ha realizzato sette album, suonando in trentatré diversi Paesi. Per rappresentare cinematograficamente questa sua idea Ma si affida a Morgan Neville, già produttore di diversi documentari musicali, nonché premio Oscar 2014 per il documentario 20 Feet From Stardom, inedito in Italia, sul ruolo di quei cantanti di seconda fila che rispetto ai divi per cui lavorano stanno "a venti passi dalla fama". Invece di riposare sugli allori di un successo acclarato, Ma desidera uscire dal divismo della classica e interrogarsi sul compito dell'artista, che può andare molto oltre la perfezione dell'esecuzione in sé. Ovvero la ricerca di sé, citando Leonard Bernstein. In una delle prime sequenze lo si vede infatti dietro le quinte di un teatro minimizzare e canzonare l'ampollosa presentazione che precede il suo ingresso. L'incontro tra Ma e Neville dà luogo a un film che si prefigge di celebrare il potere unificante e universale della musica, la sua straordinaria capacità di connessione tra esseri umani oltre ogni diversità etnica e religiosa. 


Nel farlo, non si sofferma tanto sul suo protagonista, sugli aspetti della creazione musicale o sulle performance concertistiche, quanto sulle esperienze di quattro di loro: Wu Man, campionessa di liuto cinese, che ricorda i limiti della Rivoluzione culturale e ci fa scoprire l'ultima generazione degli Zhang, suonatori e artisti di teatro di figura; il siriano Kinan Azmeh, clarinettista, che nonostante la devastazione del suo paese vede nella musica un futuro; Cristina Pato, virtuosa della gaita, la cornamusa galiziana, e fiera conservatrice delle isolate tradizioni locali; l'esiliato Kayan Kalhor, maestro di kamancheh, antico strumento a corde iraniano, sopravvissuto a traversie causate da repressioni e conflitti. Tra le loro testimonianze passano in rapida successione immagini naturali e paesaggistiche, anche vere e proprie esplosioni cromatiche, a tratti estetizzanti, con il preciso compito di interrompere con una prorompente bellezza racconti individuali spesso drammatici. Il film è produttivamente complesso, con tantissime le location, da Istanbul a Boston, da Teheran alla Spagna, anche difficili, come il capo profughi siriano o la Cina. Più che documentario strettamente musicale, il film è saggio umanista sull'importanza di preservare musica, lingua, cultura, per scambiarle e continuamente arricchirle nell'incontro con l'Altro: un inno alla simpatia, nel senso più originale di condivisione e connessione, di corde che vibrano insieme, di atto politico e gioioso di contrasto a qualsiasi tentativo di divisione. Un film teso a tal punto all'utopia che, per l'intensità con cui la mostra, in chiusura quasi rischia l'enfasi. La portata dell'esperienza resta trascinante, come la musica della Silk Road Ensemble; i movimenti di macchina volanti nella prima performance en plein air, così come nelle altre, danno l'illusione che un altro mondo sia veramente possibile.
Riccardo Supino

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