Saint Amour
di Benoit Delephine e Gustave de Kervern
con Gerard Depardieu, Benoit Polevoorde, Vincente Lacoste,
Francia, 2016
genere, commedia
durata, 102'
Ci sono dei film che assomigliano a bolle di sapone; divertenti da fare, belli da vedere e però evanescenti quando dopo esserne stati ingolositi si cerca di verificarne la consistenza. “Saint Amour” dei registi Benoit Delephine e Gustave de Kervern rientra nella fattispecie per eccesso d’abbondanza. E qui non stiamo parlando della scelta degli autori di mettere insieme nella parte dei protagonisti la coppia formata da Gerard Depardieu e Benoit Poelvoorde che nell’arte della finzione non conosce mezze misure ne quando si tratta di entrare nella parte dal punto di vista fisico (e qui ci riferiamo esclusivamente alla taglia extra large del sempre più espanso attore francese) che di quello inerente alla sfera emotiva, con quest’ultima a prevalere per più di una spanna su tecnica e psicologismi. Perché “Saint Amour” compromette un pezzo della sua riuscita quando nella seconda parte della storia non si accontenta di dare briglia sciolta alla libertà anarchica, malinconica e un pò slabbrata che contraddistingue i caratteri di Jean e Bruno, picareschi quanto basta per alimentare con i loro strampalati incontri il road movie etilico che in tappe diverse attraversa la campagna francese. I registi, infatti, rispondendo alla richiesta esistenziale dei personaggi, tutti, nessuno escluso, afflitti da una senso di incompletezza derivato dalla mancanza d’amore (filiale, genitoriale, coniugale, sessuale) a sua volta ratificata dall’occasionalità dei rapporti umani, si rifugiano in una visione utopistica e consolatoria; con la cornice finale in cui le aspirazioni dei singoli (non solo di Jean e Bruno ma anche del taxista che li porta in giro e della ragazza in dolce attesa) risultano soddisfatte, neanche a farlo apposta, da una versione riveduta e corretta dell’istituzione famigliare.
Anticipata dalla riconciliazione tra padre (Jean) e figlio (Bruno) e da alcuni brevi passaggi dedicati alla presa di coscienza di Mike e Venus rispetto ai propri bisogni e a quelli degli altri, l’idealismo post sessantottino impresso alla vicenda dalle ultime sequenze arriva fuori tempo massimo e a conclusione di una storia non certo originale (“Sideways” e “Nebraska” sono solo due riferimenti possibili) ma non dimeno capace di ovviare con spudorata leggerezza ai difetti di una trama che procede a scatti e che si sfilaccia accumulando situazioni senza costrutto delle quali “Saint Amour” si fa carico non come un difetto proprio ma in qualità di riflesso istintivo e fenomenologico (segnalato da uno stile da cinema del reale) del mood dei protagonisti e più in generale del carattere ondivago dell’umanità con cui questi entrano in contatto. Dopo aver aperto gli occhi sugli abissi della loro infelicità e aver dato sfogo ai fantasmi della propria depressione la ritrovata felicità di Jean e Bruno appare più una forzatura narrativa che la naturale conseguenza di ciò che abbiamo visto.
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