sabato 13 febbraio 2016

REVENANT : TRA CINEMA E LETTERATURA




Il Paese era giovane e non è un modo di dire. Thomas Jefferson aveva spedito Meriwether Lewis e William Clark a redigere mappe di un Ovest ancora perlopiù sconosciuto e selvaggio (e proprio a partire dal corso dell'alto Missouri - tra l'altro - teatro a sua volta anche delle peripezie illustrate dal film di A.G.Iñarritu), catalogare specie animali e vegetali, osservare usi e costumi delle popolazioni locali, nemmeno un ventennio prima della rocambolesca odissea occorsa a Hugh Glass - figura tanto storica quanto leggendaria, cacciatore di pelli ed esploratore - tra la tarda estate del 1823 e metà primavera del 1824. Il regista messicano s'è dunque ispirato in parte (come lealmente riportato dai titoli di testa) al volume scritto da Michael Punke, The revenant. A novel of revenge (tradotto da noi per i tipi Einaudi col titolo Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta), per confezionare un'opera in complicato equilibrio tra meraviglia visiva, prontuario di sopravvivenza, percorso di riscatto, dimostrazione di saldezza interiore, ad ampliare lo spettro delle suggestioni riconducibili al cosiddetto revenge movie e malgrado la dubbia aderenza al physique du role richiesto della star Di Caprio. Ammissioni preliminari a parte, è già interessante notare come l'esistenza di un leggero ma significativo slittamento semantico allorquando spostiamo l'attenzione dal resoconto di Punke - denominato da subito, con tipica schiettezza anglosassone, novel, ossia costruzione di finzione - a quello nostrano che rimarca l'offerta all'ipotetico lettore di una storia vera, vada a ripercuotersi pure sull'introduttiva indicazione di massima cinematografica, nonché, di conseguenza e per li rami, sul taglio impresso al carattere principale che si muove sullo schermo e quindi al respiro che tale scelta imprime alla storia nella sua interezza. Nel senso: è proprio a partire da quest'ambiguità in apparenza esile che la curiosità può mettersi all'opera soppesando, da un lato, l'affermazione di Punke secondo cui "Revenant è un'opera di finzione. Detto questo, per quanto concerne gli accadimenti principali, ho cercato di mantenermi fedele ai fatti storici"; dall'altro, l'idea di Iñarritu di sgrossare Glass a partire da Punke, per poi rifinirlo (e farlo agire) in ragione di direttrici psicologiche (e comportamentali) più o meno autonome. Ciò è curioso perché tale scarto concorre, privilegiato un punto di vista o l'altro, a ridefinire il cuore stesso dell'intera vicenda.


In linea del tutto generale - e tralasciando qui le argomentazioni teoriche circa la specificità dei singoli linguaggi - è indubbio che l'abbraccio tra Letteratura e Cinema, in ogni caso antico e costantemente rinnovato, è di quelli che ci si scambia con trattenuto trasporto, se non, per aspetti incidentali, con malcelata diffidenza. Allo stesso tempo - e per provare a restare in tema - come può tornare utile fra trappers in aperta competizione nello skin trade scambiarsi informazioni vitali per la sopravvivenza in lande ostili, così Letteratura e Cinema si ritrovano sovente, seppur, volendo, a volte loro malgrado, impegnati in una sorta d'involontario mutuo soccorso. Non si contano, infatti, gli scritti che sembrano fatti apposta per assumere con facilità le fattezze di sceneggiature: allo stesso modo - previa opportuna rotazione di centottanta gradi - la processione che anima il tragitto dallo schermo al pozzo letterario da cui attingere spunti, continua ad attrarre sempre nuovi questuanti, in un fitto andirivieni di richiami, di riflessi, che si svelano, al fine, al modo della paziente centratura di un'anamorfosi. Tutto questo per dire che, al di là delle secche di una troppo insistita presunzione di verosimiglianza (che Letteratura e Cinema dirimono o compongono con strumenti e scopi autonomi: nel caso, in Punke la prossimità, laddove possibile, alle cronache documentate, riduce l'incidenza di eventuali infondatezze; in Iñarritu, il suo maggiore  o minore far capolino, resta almeno funzionale o non osta al dettato revanscista della trama che s'intende sviluppare), ciò che a conti fatti sdoppia davvero il Glass personaggio letterario dal Glass (anti)eroe di celluloide è la resa delle ragioni profonde della sua anabasi (nel senso letterale di spedizione): pervicacemente attaccata all'intima matrice corporea, nel libro di Punke; virata anche su tonalità spiritual/metafisiche nel film di Iñarritu.


Se l'incontrovertibilità dell'assunto per cui lo scampolo della vita di Glass di cui ci occupiamo (vita che si protrasse dopo la missione all'Ovest neanche per un decennio e si chiuse per mano di coloro che avevano contribuito ad inaugurarla, un gruppo di guerrieri Arikara) spicca dalla sua inerzia abituale per un forzoso ritorno allo stato di natura (e tale premessa costituisce anche il calco estrinseco del film), è addirittura pacifica, ciò implica - per semplice inferenza - la sostanziale prevalenza nel tessuto stesso dei fatti che ne compongono la fisionomia, degli elementi base di quella che possiamo chiamare avventura materiale, intendendo con questa espressione l'insieme delle reazioni e dei comportamenti relativi ad una serie costante e reiterata di sollecitazioni fisiche generate dal contatto/attrito con l'ambiente naturale (a configurare e testimoniare quella di Glass, per dire, basterebbero, sic et simpliciter, le centinaia di miglia percorse a piedi - buona parte d'inverno - nella wilderness americana, a cavallo dell'alto corso del Missouri, a margine dei bastioni centrali delle Rocky Mountains, quindi lungo i fiumi Powder e Platte, e facendo comunque scientemente finta di tralasciare l'evento terribile e più plateale dell'aggressione di un grizzly nella boscaglia presso le acque del Grand, tappe di un angosciante calvario annesse). Affinché l'avventura materiale si dispieghi pienamente, al punto, nelle congiunzioni più felici, di porre le premesse di una narrazione epica, è necessaria la concentrazione attorno a pochi (ma esigenti) riferimenti in grado di caratterizzarla a prescindere dalle epoche e dagli specifici ambiti antropologici e culturali: una feroce aderenza al dato sensibile, in primis (il corpo, il cibo, l'autoconservazione); la frizione che tale dimensione genera spesso a contatto con l'umano, nella sua doppia accezione antagonistica/ribelle o panica/immersiva: non ultima, la modificazione psicologica/emotiva che la vicinanza carnale del vissuto come esperienza materiale arreca nell'individuo e rilancia di continuo verso l'avvenire. Del resto, avventura, nel suo etimo primo di "cose che accadranno" e nel suo significato corrente di "vicenda singolare e straordinaria", contempla e racchiude al proprio interno, come stazione di un itinerario tanto fuori-dal-comune quanto rigoroso, proprio quella relazione arcaica ma ineludibile che, nel primato della materia - nella constatazione dei suoi limiti, nell'opposizione alle sue deficienze, nell'accettazione della sua caducità - individua il nucleo del rapporto dell'Uomo col Mondo (e, in trasparenza, quello con la sua rappresentazione interiore); richiama (e rinnova) la necessità di comprendere la misura e lo stato dell'"estensione del dominio della lotta"; reclama lo sforzo di reperimento di un senso legato a principi netti e inderogabili: sollecita l'avvento di un orizzonte mentale che di quel Mondo è specchio e trascendimento, proprio perché alla sua evidenza fisica esso si affida partecipandovi ("Il sole calante portava con sé l'asprezza della pianura. I venti ululanti si placavano, rimpiazzati da un'assoluta immobilità che sembrava impossibile in un paesaggio così smisurato. Anche i colori si trasformavano... Era un momento adatto alla riflessione, in quello spazio così vasto che poteva solo essere divino. E se Glass credeva in un dio, per lui abitava in quell'immensa distesa occidentale" - M.Punke, op. cit. -

Esattamente all'altezza di questo crinale, il libro di Punke e il film di Iñarritu prendono sentieri differenti, causando altrettanto differenti ripercussioni sulla struttura dei rispettivi lavori. Se nella trattazione di Punke, ad esempio, al momento d'imbattersi negli ovvi spazi bianchi lasciati da Glass nella propria biografia, si operano inevitabili glissando, s'inventano o si drammatizzano (ammettendolo) taluni episodi o tipi umani, si cuciono le frange incompatibili con opportuni rammendi temporali, lasciando nell'essenza inalterato lo scheletro dell'avventura materiale; al contrario, Iñarritu inserisce la rimembranza simbolica di una famiglia distrutta dalla violenza come episodico intercalare onirico che, da un lato, dovrebbe conferire all'avventura un ulteriore passo - del tipo mistico/sapienziale - dall'altro avrebbe lo scopo di confortare e rinvigorire lo spirito irato dell'inesauribile trapper. Siffatte visuali, reciprocamente alternative nei confronti del protagonista (e della sua condizione), calate, come detto, in un quadro di estrema concretezza, sortiscono esiti allo stesso tempo intriganti e controversi. L'affabulazione di Punke, assai lineare, pur nella sua modulata alternanza di situazioni [tra la brutale guerra privata di Glass con foreste, neve, fiumi, animali e Indiani e il proposito di vendetta che via via sfuma in un atteggiamento in cui finiscono per prevalere più stanchezza e disillusione che bramosia di sangue; le peripezie del Cap. Andrew Henry, impegnato col resto della spedizione in un faticoso slalom per evitare gl'inconvenienti di un territorio insidioso; gli occasionali intermezzi dedicati a Jim Bridger e John Fitzgerald, rei di aver abbandonato un Glass malconcio al suo destino (motori primi, quindi, dell'odio livoroso del revenant); le parentesi storiche che c'introducono ad un Glass giovane uomo, impegnato prima nella marineria commerciale per un decennio - al soldo della Rawsthorne and Sons - e "costretto" poi "con la forza a dare il suo contributo all'avventura criminale di Jean Lafitte" - M.Punke, op. cit. -, il pirata], non si discosta mai da una rilettura di fondo impressionista della materia - vieppiù impreziosita, qua e là, da attente quanto sobrie digressioni di carattere naturalistico, nonché affatto restia, all'occorrenza, ad includere dettagli crudi o aspetti discutibili delle personalità dei singoli - che se può risultare a tratti anodina o persino sbrigativa, sottolinea comunque con chiara coerenza i confini materiali di un'avventura unica nel suo genere, restituendoli nella pienezza di un senso circoscritto ma definito. D'altra parte, l'interpolazione, nel lungometraggio di Iñarritu, di sporadiche proiezioni di matrice allusivo/metaforica [peraltro di per sé in farraginosa continuità con un incedere già abbondantemente ieratico/contemplativo - e di notevole impatto, almeno per il primo terzo del film - di ascendenza malickiana, laddove taluni dettagli, non esclusivamente riconducibili all'estro cromatico di Lubezki, pensiamo, per dire, al movimento parallelo inverso della mdp allo scorrere delle acque del fiume ad introdurre il personaggio di Glass, in apertura, o alla prospettiva basso/alto utilizzata per esaltare la magnificenza avvolgente/incombente degli alberi, avvicinano, da un canto, il prologo di "Revenant" all'epifania di un mondo, quello di "The new world" (scontro con i locali compreso); dall'altro, inaugurano quel processo di diluizione dell'avventura materiale che nello svolgimento della narrazione si farà via via più vistoso, fin quasi a venare l'atto estremo di Glass di valenze vagamente risarcitorie e di ricomposizione di un ipotetico equilibrio-morale-delle-cose, del tutto assente, ad esempio, proprio nella figura e nella concatenazione degli eventi sbozzati da Punke], nel tentativo di contraddistinguere il destino di Glass anche come esempio di avventura spirituale, oltre a produrre una sensazione di sovraccarico che, poi, a conti fatti, non incide sul percorso primo dell'uomo-in-viaggio (anche indipendentemente dal fatto che Glass pare non abbia mai formato una famiglia - né bianca né indiana - quindi tantomeno generato dei figli; che Punke stesso è probabile si sia limitato a romanzarne la permanenza di circa un anno presso la tribù Loup Pawnee, come ad attribuirgli un amore più platonico/letterario che felicemente vissuto per la diciannovenne Elizabeth Van Aartzen, nipote del Capitano olandese Jozias Van Aartzen che lo aveva iniziato al mestiere di marinaio - peraltro cancellata, questa figura femminile, dall'immaginario sentimentale del meno che fortunato protagonista nel giro di una manciata di pagine ad opera di una febbre "contratta lo scorso gennaio", dal confronto con la quale "pur avendo lottato, non è riuscita a guarire" - M.Punke, op. cit. -), distoglie e confonde dal motivo principale del suo resistere a qualunque pericolo e privazione - la vendetta, per l'appunto - proiettandosi in una sorta di ordine superiore (sposato anche da Punke ma a mo' di epigrafe, ossia con palesi intenzioni genericamente ammonitrici, se non meramente edificanti) per cui "Non fatevi giustizia da voi stessi, ma lasciate fare all'ira divina. 

Sta scritto infatti: Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo" - Lettera ai Romani 12,19 -, tanto inoppugnabile sul piano della dottrina, quanto avulso dalla progressione tutta terrena che ne ha reso possibile la realizzazione, per smarrirsi, in conclusione, di fronte alla disarmante evidenza che ventila la possibilità per la quale nessuna vera vendetta sembra sia mai stata consumata [Jim Bridger, annota Punke, viene pestato da Glass, fin quando "cominciò ad accadere qualcosa d'inatteso. La perfezione del momento" - leggi: della vendetta - "si stava dissolvendo... (Glass) Fissò a lungo il coltello che aveva in mano, poi se lo lasciò scivolare nel cinturone" - M.Punke, op. cit. -; John Fitzgerald, di cui non si sa quasi nulla in generale, pare certo non morì per mano di Glass], a testimoniare, forse, che il fuoco della rivalsa violenta in realtà va ad alimentare più che altro le braci spossate di una incoercibile volontà di sopravvivenza; rende di nuovo udibile l'urlo materiale della vita che oltrepassa se stessa davvero rimanendo fedele alla terribile tirannia della contingenza, in specie quando "le cose non vanno sempre come dovrebbero... Un sacco di fili sciolti non vengono mai annodati. Bisogna giocare con le carte che si hanno in mano. E passare oltre" - M.Punke, op. cit. -
TFK

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