Cashback
di, Sean Ellis
con, Sean Biggerstaff, Emilia Fox, Michelle Ryan, Stuart Goodwin, Michael Lambourne, Shaun Evans, Michael Dixon, Marc Pickering
GB, 2006
genere, drammatico
durata, 100’
A forza di insistere
con la realtà
si perde la magia
[ndA]
Tra le affezioni idiopatiche, l’amore è in genere quella dal decorso più breve (indipendentemente o forse proprio a causa della sua relativa piacevolezza) ma di sicuro dagli strascichi più profondi. Su tale ennesima discrasia prende a ragionare il gentile, riservato e un po’ goffo Ben/Biggerstaff, allievo dell’ultimo anno all’Accademia di Belle Arti e aspirante pittore, allorquando la separazione dalla bella e irascibile Suzy/Ryan - come spesso accade, per impercettibili incrinature e un vago sebbene persistente senso di inadeguatezza - lo pone innanzi, oltre a una valanga di improperi e al lancio della gran parte delle suppellettili di casa, alla natura fragile e, rimosso il coppale di superficie, scarsamente entusiasmante dei legami umani.
Il contraccolpo al trauma si materializza sotto forma di elucubrazioni inconcludenti circa il mesto destino di solitudine a cui sembrano vocate le moltitudini d’Occidente e di deprimenti rievocazioni riguardanti un passato felice, con tanto di rimestare tra ex oggetti di uso comune e mucchi di fotografie. Non bastasse, sul poco invitante quadretto va a infierire la filosofia spicciola dell’amico di infanzia Sean/Evans, maldestro seduttore seriale il quale non trova di meglio che consigliare al nostro cuore infranto di “trovarsi una modella” in modo da sobillare l’istinto competitivo di Suzy comune, a suo dire, a tutto il genere femminile. Certo è che l’effetto collaterale primario saggiato da Ben un giorno via l’altro alla fine si conclama in una singolare anomalia: assume cioè le fogge dell’insonnia o, meglio, di quella eccentrica condizione tra la veglia e una specie di molle torpore che “allunga la vita di un terzo”, con intatti, se non moltiplicati, gli inconvenienti del caso, vedi apatia, irritabilità, dilatazione delle percezioni, et. Se, volendo e all’inizio, la lucidità forzata può prevedere atteggiamenti virtuosi ispirati a propositi lungimiranti - Ben, ad esempio, recupera le letture che la frenesia diurna aveva sempre indotto a posticipare; addirittura rimette mano ad alcuni dei libri preferiti - alla lunga la sistematica presenza a sé stessi si mostra per quello che davvero è: un rovello molesto e logorante. Prevale allora il vecchio abbaglio di surrogare una deficienza interiore con l’attivismo e questo con la sua forma più degradata, il lavoro salariato. Allegato dolente, intrupparsi con il solito posto di merda per quattro soldi (il baratto osceno denaro-in-cambio-di-tempo a cui allude il titolo) diventa un passo da compiere molto più breve di quello che si potrebbe supporre. Fatto sta che Ben comincia a barcamenarsi tra la vita da studente più o meno motivato di giorno e quella dell’inserviente/commesso notturno presso un grosso supermercato, il Sainsbury di Whitechapel (East End londinese), predisponendo quasi suo malgrado le condizioni per una torsione imprevista degli avvenimenti.
E’ noto che il Tempo, tra le tante sue stravaganze, è in grado di rivestirsi di una miriade di implicazioni a seconda dello stato d’animo con cui si indulge tra le sue maglie, generando paesaggi dai contorni tanto inediti quanto sorprendenti. Ciò che Ben (e noi insieme a lui) crede così di sperimentare in una personalissima eppure decisa quanto delicata insonnia d’amore, scivolando imponderabile tra piramidi di surgelati e distese di formaggi, viluppi di merendine e pareti di detersivi, è una sorta di tregua fatta di istanti cristallizzati all’interno dei quali - unico essere cosciente a tirare le fila di un mondo mezzo nuovo perché messo in pausa - dare sfogo alla fantasia e al desiderio, nel caso coincidenti con il concetto di bellezza muliebre, miraggio che un quotidiano iper-conformista e venale frustra e/o banalizza rendendolo d’altro canto vieppiù sfuggente. In tal senso, indugiare - come fa il potenziale artista durante questi intervalli sottratti al caos - sulle silhouette di donne ignare sospese in pose curiose tra uno scaffale e l’altro in un silenzio irreale, spogliarle per ritrarle e quindi rivestirle riconsegnandole con uno scrocchio di dita all’anonimato delle rispettive routine, si rivela essere sia il modo insperato per verificare la tenuta della propria fiducia-nonostante-tutto di fronte allo sfascio affettivo di una realtà irrigidita dalla scaltrezza e dal cinismo, sia la leva utile a reinquadrare il mistero originario di una rivelazione appartenente alla prima giovinezza (il nudo abbagliante di una ragazza accolta al tempo in casa dai genitori come studentessa proveniente dall’estero, possibile correlativo oggettivo del celebre amor che move il sole e l’altre stelle), poi confermata o disattesa (gli inserti relativi al passato del protagonista, i suoi piccoli/grandi cortocircuiti, gli stupori e le esitazioni, sono un concentrato gustoso di trepidazione e malinconia) a seconda delle altalene emotive e delle imprevedibilità della crescita. Di contro, trovarsi circondato da colleghi bislacchi, aridi seppur innocui - Jenkins/Goodwin, dirigente di idiozia abnorme ma bonaria; Matt/Lambourne e Barry/Dixon, lena nulla ma pronti allo sghignazzo, allo scherzo cretino e perennemente infoiati; Brian/Pickering, taciturno improvvisatore di un’arte marziale a lui stesso sconosciuta - sembra facilitare a Ben, oramai intenzionato a trarre quantomeno un insegnamento dal suo osservatorio privilegiato in virtù anche della grazia involontaria che da esso si sprigiona nei modi di un fatalismo arreso, l’accesso all’universo intimo di Sharon/Fox, cassiera dagli ordinari ma tenaci sogni nel cassetto quanto di fondo poco disposta a dar spago a imbecilli intrappolati in un cazzeggio magari a tratti divertente ma più che altro masturbatorio (Jenkins e Matt, per dire, provano a diverse riprese a tampinarne le grazie con esiti di rara mestizia). Da qui a dire che ogni nodo è sciolto ce ne passa, ovviamente, ma la sfida - come sempre e come dicevano i Greci che sapevano tutto - sta nello sforzo di cercare nell’altro ciò che ci completa e quindi ci sostiene, in questa sanguinolenta dispersione che è la vita.
Ellis con ogni probabilità sospetta che, allo stato dell'arte, puntare sulla commedia sentimentale rappresenta allo stesso tempo un luogo comune usurato (tra l’altro, poco remunerativo) e uno strano ossimoro persino incomprensibile ai più. Ciò non di meno armeggia all’interno di un (sotto)genere che pur vanta episodi gloriosi a spasso per la storia del Cinema (si può supporre, con buona approssimazione, che chiunque abbia almeno un titolo di riferimento custodito da qualche parte dentro di sé) con un atteggiamento sì conscio, ossia in linea con la passionalità triste contemporanea ma non disincantato, a dire rassegnato alla sua inerzia a perdere. Il romanticismo démodé di Ben, in altre parole, il suo inseguire una purezza e una pienezza senza tempo al punto da deformare il medesimo per catturarle e goderne, lavora in sincrono - osserva l’autore - da un lato come arma di difesa contro un’atonia morale al giorno d’oggi metabolizzata a mo’ di carattere distintivo dell’individuo moderno (qui a stento dissimulata da un’ironia gaglioffa e ripetitiva, tipo quella usata da Matt e Barry); dall’altro come slancio sul serio libero verso il domani, la cui scommessa per eludere la desolazione del materialismo e risultare autentica, date per scontate ipocrisie e contraddizioni, deve puntare a comporre voluttà, empatia e compassione.
Parimenti e di conseguenza non stona il clima da riflessione post-adolescenziale che aleggia qua e là sul film, espediente che, al contrario, convogliando e reindirizzando le spinte più drammatiche di una materia sempre in precario equilibrio tra patetico e melenso entro una dimensione di riscatto a portata di mano se solo si è propensi a concedere spazio a una visione delle cose (in special modo, dei rapporti) finalmente emancipata dal tritacarne deterministico, alleggerisce il tono della vicenda consegnandola a un zona franca in cui si incontrano, senza sovrapporsi ma nemmeno scontrandosi, il vitalismo incontenibile e lo humour greve e proletario del primo Boyle o del Ritchie più irriverente e il garbo intimista delle sceneggiature meno caramellate di Curtis, con sullo sfondo, evocativo e smagliante, l’immane enigma incanto/carnalità custodito ab aeterno nei percorsi infiniti tracciati dalle linee del corpo di una donna.
TFK
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