Homo Sapiens
di Nikolaus Geyrhalter
genere, documentario
Austria 2016
durata, 94’
Austria 2016
durata, 94’
Il dolore è la paura che lascia il corpo
- USMC -
Avendo familiarità con l’animo umano, essendo in specie acuto osservatore delle sue debolezze e delle sue viltà - non foss’altro per averle accettate e talora vezzeggiate entrambe - Baudelaire ebbe gioco relativamente facile nel vaticinare, nel senso di una sua sconcertante naturalezza, l’approdo miserabile delle suddette comuni lacune, ossia la loro capitolazione furtiva ma decisa nelle inerzie di una prassi che un falso modernismo al tempo ubiquitario, predatorio e dissipativo si acconciava ad apparecchiare (e vendere) come comoda e intimamente pacificata. Il suo celebre verso - tratto dalla lirica “La mort des amants” - in cui evoca (sebbene nel testo con altri intenti) un non lontano futuro in cui avremo… divani profondi come tombe, ha attraversato i decenni per andare a sovrapporsi con inquietante aderenza all’intenzionale uniformità di un contesto contemporaneo che ha fatto della (apparente) semplicità e della (ambigua) accessibilità due dei pilastri (gli altri sono il Denaro e la Tecnica) su cui poggiare l’edificio della propria (presunta) ineluttabilità. D’altro canto, l’assunto per cui l’unico mondo degno di essere esperito è un mondo desacralizzato, vale a dire ridotto a mero deposito da cui estrarre risorse atte a perpetuare un’oltranza tanto irriflessa quanto sconsiderata, di per sé si offre, per via della di lui implicita pretesa a rappresentare l’orizzonte stesso della vicenda umana, quantomeno alla più elementare delle contabilità tra promesse fatte e mantenute, tra la pervasività e la veemenza delle ambizioni mostrate e il margine di manovra delle - ipotetiche - altrui riluttanze.
Su un confine scivoloso, altresì in perenne mutamento, che separa due vere e proprie weltanschauung, si colloca così questo lavoro di Geyrhalter, austero eppure sentito documento intorno a una materializzazione-della-fine a oggi talmente metabolizzata - nell’immaginario di massa, nei gesti minimi del quotidiano, in taluni stupori improvvisi senza nome, nel linguaggio, oltreché nell’ovvia persistenza di un ciclo perverso accumulazione/distruzione a cui non sembra esserci obiezione efficace e/o duratura - da aver preso a lasciare nel tessuto della materia (leggi: l’anatomia di un pianeta - il nostro - a tutti gli effetti, ricordiamolo, entità vivente) chiare e inequivocabili tracce di sé, a dire, in controluce, del suo impassibile e immemore divenire, senza che ciò abbia innescato, allo stato attuale degli indirizzi prevalenti di comportamento, il minimo riflesso di resipiscenza. In spazi resi orfani della presenza umana il film ci conduce, antifrasticamente e ironicamente rispetto al titolo, per mezzo di una serie di inquadrature fisse della durata oscillante tra i quindici e i quaranta secondi per lo più costruite privilegiando la prospettiva centrale, attraverso un impasto sonoro nitidissimo (grazie al Dolby Atmos) quanto di piglio funereo e con le uniche costanti dei frastorni del vento, dell’implacabile scavo dell’acqua, del silenzioso intrecciarsi degli arabeschi vegetali e del contrappunto offerto dal canto degli uccelli, dal ronzare e dal frinire degli insetti, all’interno di squarci architettonici scabri e ingombri di rifiuti, tra cumuli di rottami, sinistri scenari di abitazioni diroccate, suppellettili e utensili ammucchiati su scaffali pregni di una polvere dall’apparenza eterna o su pavimenti sbreccati, in centri commerciali regrediti a gusci vuoti invasi dalle pozzanghere e dal marciume, simulacri avviliti di un’opulenza che sembra non essere mai esistita o rivelatasi solo uno sgangherato delirio. E così per piccoli supermercati, ospedali in rovina, laboratori deserti invasi da scartoffie irrigidite, vecchie sale cinematografiche cadenti e marezzate di muffa, farmacie, empori, magazzini, archivi, scalinate, chiese mutilate delle antiche volte, centrali nucleari abbandonate come divinità disconosciute o cromlech divenuti inespressivi, tronchi stradali spezzati in due e ingoiati da fiori, arbusti e radici, stazioni e binari rosi da ogni ghiribizzo meteorologico, ex insediamenti lacustri, portuali e litoranei a galleggiare in una melma annoiata, bastioni di città spettrali affacciati su un oceano in tumulto…
Istantanee di un futuro già passato o diacroniche nature morte del presente che le si voglia considerare, le immagini repertate da Geyrhalter richiamano, al contempo - ecco un ulteriore, interessante paradosso - secondo i toni di una composta sebbene lugubre elegia, nella scomparsa del gesto, dell’intercalare vocale, delle emozioni palesi o segrete - sostituiti, questo e quelle, dal respiro ampio degli elementi, dall’attività minuta ma febbrile di piante e animali - la nostalgia per una assenza non necessariamente dolorosa perché di fondo compensata da una costante tendenza al ristabilimento dell’armonia nell’equilibrio e la miope/pavida abdicazione alla responsabilità di uno degli attori principali di questo immenso gioco delle parti - l’homo sedicente sapiens, appunto - che ha reiteratamente e pietosamente mancato al suo ruolo. Soffermarsi allora su quegli ammassi degradati, sulle fatiscenze, le crepe, quei crolli sempre imminenti, su impegni e strategie tralasciati per l’euforia indotta da frettolosi futili entusiasmi, da obiettivi presto retrocessi nella lista delle priorità, da capricci megalomani o da stupidi abbagli; non poter togliere lo sguardo dall’angosciante sussistenza passiva della materia, ancora più inerte di fronte alla sua sistematica decomposizione, testimonia il distacco (sanabile ?) dai legami essenziali che ci vincolano (vincolavano ?) all’ordine ancestrale delle cose come specie evidenziando, di contro, l’imporsi di un malessere oscuro, tormentoso, spesso puerilmente rimosso, partecipe di un senso di estraneità verso il mondo tanto più acuto quanto più ci si affanna a colonizzarlo a colpi di manufatti. In altre parole: a fatica si troverà qualcosa di più atroce, suggerisce l’autore austriaco, che constatare l’inanità di uno sforzo se le conseguenze della sua disfatta svelano, senza ombra di dubbio, come l’intenzione del medesimo fosse quella di considerare la realtà, la sua molteplicità senziente, nient’altro che un fondale neutro da trasformare in campo di applicazione, in indifferenziato utilizzabile il quale, appena privato della sua unica ragion d’essere - la funzionalità profittevole - arretra a freddo e ostile ingombro, a concrezione incongrua e ominosa, ad apparato osceno, a dispetto di quanto più sono accurati i suoi requisiti progettuali e avveniristicamente ridisegnate le sue geometrie.
Vertigine, quindi, la presente, che assume sfumature - se possibile - addirittura ultraterrene, qualora ci si soffermasse quel tanto da rintracciare nelle pose imbarazzate di strutture e materiali umiliati dall’evidenza della propria irredimibile nudità, riferimenti, suggestioni e - potremmo dire - allucinazioni allegorico-pittoriche che, nel trascolorare dal bianco sporco, tramite un diffuso pallore bluastro, al grigio gessoso, dall’avorio brunito al nero impenetrabile, scomodano fantasmi appartenenti al Rinascimento, all’Astrattismo, alle più contorte declinazioni del realismo, alla cartellonistica affranta dall’incuria, come anche a una sorta di involontario carnevale di istallazioni inneggianti alla decrepitezza, alla stasi malata che ammicca alla già tacita necrosi oggettuale del collage, depositando sull'opera il sudario speculativo di un ammonimento (fuori tempo massimo ?) consapevole del proprio attestare, in un attonito percorso circolare a volte risonante di presagi tarkovskijani, un processo spintosi fin troppo oltre, per cui ciò che resta della vicissitudine già per tanti versi post-umana narrata, ad esempio, dal Glawogger di “Megacities”, di quella invece pervasa da cupi revanscismi arborei dello Shyamalan di “The happening”/“E venne il giorno”, delle solitudini senza scampo e della consuetudine macchiata da una colpa arcana e primordiale inscenate dal “Morgenrøde” di Hultgreen [vd.] o, ancora, delle atmosfere sospese e avvertite, latrici di una struggente precarietà, scandite dal recente “Tales from the Loop” di Halpern (“Legion”), dai lavori dello scandinavo Stålenhag, in “Homo sapiens” si agglutina a mo’ di ideale - non fosse in verità tragico - punto di caduta di talune ardite prefigurazioni - mettiamo - ballardiane (alterazioni climatiche incontrollabili, implosione delle comunità e delle istituzioni sociali, dissoluzione delle aree metropolitane con conseguente riconquista dal parte della Natura degli ambiti sottratti dalle attività umane, et.), a comporre la cornice di un regno a venire all’interno del quale i divani di Baudelaire, carcasse oramai sventrate, attendono vanamente di propiziare piaceri che nessuno potrà più restituir loro.
TFK
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