Jojo Rabbit
di Taika Waititi
con Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie
USA, 2019
genere, drammatico
durata, 108'
Della fantasia e dell’irriverenza di Taika Waititi si aveva avuto contezza all’uscita di "Thor: Ragnarok", nel quale con la sfrontatezza tipica del neofita (in materia di supereroi) aveva osato l’inimmaginabile, facendo del figlio di Odino e dei suoi compari le vittime di una divertente quanto fracassona parodia dell’universo Marvel. Con “Jojo Rabbit” Waititi alza le proprie ambizioni confrontandosi con la Storia e trovando nella tragedia della Shoah e nella Germania nazista del 1945 elementi capaci di stimolarne l’affabulazione cinematografica. Il che, se da una parte gli consentiva di lavorare su un immaginario consolidato e sempre attuale sul versante emotivo e della cronaca dei nostri giorni, dall’altra lo metteva in una posizione non comoda per il fatto di doversi confrontare con un modello narrativo “costretto” all’interno di un unico canovaccio e quindi aperto al rischio della ripetizione. Un'opzione non contemplata nel vocabolario del nostro autore, se è vero che nel riprendere in mano temi e situazioni già note, “Jojo Rabbit” ne stravolge le coordinate a partire dalla trovata di presentare il “diavolo” sotto mentite spoglie e cioè di fare di Adolf Hitler (cui presta il volto lo stesso regista) l’amico immaginario di Johannes Betzler detto Jojo (lo strepitoso Roman Griffin Davis), un bambino di dieci anni rimasto a vivere con la madre dopo la morte della sorella e la perdita del padre, ufficiale dell’esercito tedesco spedito al fronte e dato per disperso.
Ma questo non basta, perché Waititi, ispirandosi al romanzo “Come semi d’autunno" (Caging Skies) di Christine Leunens, costruisce una film che utilizza iperboli e paradossi per raccontare con i toni della favola nera l’incontro tra Jojo, sposato anima e corpo con la gioventù hitleriana, ed Elsa (la brava Thomasin McKenzie) adolescente ebrea che Rose/Johansson, la madre del bambino, ha nascosto a sua insaputa nella loro casa. Esemplare a tal proposito è l’associazione tra le note di “Komm, gib mir deine Hand", versione in lingua tedesca di “I Want To Hold Your Hand” cantata dai Beatles, e gli inserti d’archivio in cui assieme ai sottotitoli vediamo il Kaiser idolatrato dalla folle come una star del rock. Un’apertura che fa il paio con ciò che segue, ovvero il rovesciamento di quella baldanzosa e onnipotente rappresentazione, smontata pezzo dopo pezzo dalla versione ridicola e caricaturale che del leader nazista ne fa la proiezione mentale del protagonista.
Una caratteristica, quella appena descritta, presente anche nella forma dialogica, scandita da allusioni e giochi di parole in cui gli stereotipi antisemiti propagandati dal Terzo Reich invece di essere omessi vengono sovraccaricati di significato al punto tale di depotenziarne i contenuti per farne lo strumento di un’eversione comica e surreale, capace di vincere la morte (comunque presente a vario titolo nel corso della storia), e almeno nel film, di prendersi la rivincita sul Golem nazista.
Senza tradire i fatti della Storia ma ricostruendola con l’inventiva del piccolo protagonista, Waititi compie un'operazione poetica simile a quella de “La vita è bella” di Roberto Benigni (peraltro citato nella scena in cui Rose per sviare i sospetti del figlio inizia a muoversi come faceva Benigni, simulando i gesti di una marionetta), trasformando l’orrore in un’avventura ludica e la tragedia in un romanzo di formazione. In questo senso “Jojo Rabbit” è anche il prodotto di una passione cinefila ad ampio raggio, capace di pescare dal Wes Anderson di "Moonrise Kingdom - Una fuga d’amore", presente nel gusto coreografico delle sequenze campestri inerenti al raduno della gioventù hitleriana come pure nelle “miniature” con cui Waititi dà vita ai ruoli di contorno, dal capitano Captain Klenzendorf (Sam Rockwell), eccentrico e idealista quanto basta per farne un personaggio tipico del regista, agli strampalati membri della Gestapo incaricati di ispezionare la casa di Jojo. E ancora, pensando al buio dell’antro attraversato carponi dal bambino nella scena in cui Jojo vede per la prima volta Elsa e poi alla mano sulla cornice della porta dietro la quale si palesa un poco alla volta la sagoma della ragazza, la mente corre ad “Alien”, citazione che allude anche al condizionamento della dottrina di regime impartita al protagonista in virtù della quale Elsa, in quanto ebrea, è un’aliena inquietante e minacciosa.
Certo è che Waitiki si esprime con il linguaggio tipico del mainstream americano e dunque con la necessità di rendersi riconoscibile al grande pubblico attraverso una retorica per cui alla poesia dei sentimenti messi in campo bisogna aggiungere la cosiddetta “morale della favola”; il che, in termini tecnici, si traduce in una narrazione orizzontale, sviluppata sulla superficie dell’immagine, con quest'ultima incaricata di rendere esplicita l’immaginazione, di spiegarla con sequenze - le più deboli del film - in cui in qualche modo la guerra, lasciata fuori campo (e a ragione) per la maggior parte del tempo, viene infine mostrata per fare la conta di buoni e cattivi. Quasi dimenticando che quella di “Jojo Rabbit” è prima di tutto la storia di una disintegrazione familiare e della ricerca di figure putative da parte del bambino, come testimonia il movimento di macchina che collega la foto della sorella di Jojo alla linea del pavimento che di lì a poco condurrà il protagonista al cospetto di Elsa, chiamata a colmare le mancanze affettive del piccolo patriota. Ben venga dunque la scena finale, perfetta nel ristabilire il tono e lo stile del film, ancora una volta affidata al “non detto” della musica - “Heroes" di David Bowie - questa volta liberatoria e colma di speranza e corredata dal ballo a due con cui Jojo ed Elsa si congedano dallo spettatore.
Candidato a sei premi Oscar, tra cui quello per miglior film, non si fatica a pronosticare la meritata vittoria di Scarlett Johansson nella categoria di migliore attrice non protagonista.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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