domenica 19 gennaio 2020

DICKINSON

Dickinson
di, AA.VV.
a cura di Alena Smith
con, Hailee Stainfeld, Adrian Enscoe, Anna Baryshnikov, Jane Krakowski, Toby Huss, Ella Hunt, Samuel Farnsworth, Chinaza Uche, Darlene Hunt, Amanda Warren, Matt Lauria, Wiz Khalifa
USA, 2019 
stag. I, ep. I-X
durata: 25’-30’/ep.



Non mi sono mai sentita a casa - quaggiù -
né mi sentirò a casa - lo so -
nei cieli luminosi
Il Paradiso non mi piace

- E. Dickinson -


Magari persino per chi campa per lo più di immagini era arrivato il momento (al di là dell’opportunismo spicciolo e dell’oramai cronica mancanza di idee) in cui chiedersi se e quanto la Poesia - e, a inglobare, il poeta - avesse ancora qualcosa da dire in un mondo, il nostro, che di poetico non ha niente, persuaso com’è o, meglio, illuso di aver conseguito soddisfazione e armonia grazie alle alchimie di una sorta di ortopedia sociale volta a calcificare l’esistenza entro un’accozzaglia di sensazioni superficiali di rigido stampo materialistico. Nulla esclude, cioè, che sia stato un rovello simile a sobillare l’immaginazione di Alena Smith - già autrice di, ad esempio, “The newsroom” e “The affair” - al momento di metter mano, estraendolo di peso dal sempre mesto circolo chiuso dell’accademia come dall’impotenza divulgativa degli sparuti appassionati, a un personaggio del calibro e del fascino di Emily Dickinson, strepitosa singolarità a base di ingegno lucidissimo e passionalità febbrile quanto dissimulata vissuta nel cuore del XIX secolo in un piccolo centro del New England - Amherst, Mass. - estensore di quasi un paio di migliaia di concrezioni liriche pressoché mai pubblicate in vita e quindi rinvenute nel cassettone della camera ove aveva trascorso buona parte del suo tempo, volontariamente discosta dal caos della realtà eppure partecipe delle contraddittorie vibrazioni che da essa riverberano, a testimoniare la necessità e il senso di un percorso interiore intrapreso e mai abbandonato, la cui perseveranza si è interrotta un giorno di Maggio del 1886.

Si può discutere a lungo e, si spera, con argomenti, circa la decisione della succitata Smith di imprimere alla psicologia del personaggio principale di quest’opera e, di conseguenza, al suo modo di interagire col paesaggio costruitole attorno, il cosiddetto e per molti versi già trito canone pop (prendendo come riferimento, mettiamo, il “Romeo + Giulietta” di Luhrmann - 1996 - parliamo di una prassi, tarata sull’oceano mai pacifico dell’adolescenza, al lavoro da più o meno un quarto di secolo), a dire: linguaggio esplicito, sessualità proteiforme, una certa sicumera assertiva, consapevoli perché insistiti piccoli anacronismi, cromie spesso vistose, presenza costante e non di rado invadente di una colonna sonora ad altezza dei neuroni e delle pulsioni chiamate in causa, assenza di prospettiva storica e ribadite licenze di carattere sociologico, culturale, ambientale, et. Ciò che però dovrebbe essere comunque tenuto presente, ovvero messo nelle condizioni di risaltare, è il nesso teorico e metaforico che eventualmente si fosse creato tra l’essenza più autentica di una figura chiamata a incarnare a mo’ di emblema della stessa una qualsivoglia condizione - distintiva di un periodo, depositaria di capacità non comuni, et. - e la struttura che volta per volta le viene cucita addosso tipo abito nuovo

Ebbene: ribadite le riserve del caso, in un prodotto come “Dickinson” (che si avvale per la direzione dei primi due episodi della mano di D. Gordon Green e che Apple Tv +, patrocinatrice del progetto, ha già rinnovato almeno per un’altra stagione), la ricontestualizzazione della vicenda operata secondo la progressione narrativa, l’estetica e il tono tardo moderno della teen comedy e del teen drama, di certo lungi, per dire, tanto dall’accuratezza filologico-psicologica di “A quiet passion”, 2016, di T. Davies, che dalle rifondazioni e riletture integrali comuni a tanta cinematografia recente, trova a tratti - e sono i momenti più felici dell’intera operazione - nella sottolineatura degli atteggiamenti e dei crucci della giovane Emily/Stainfeld - ragazzina ambiziosa e spesso saccente, femmina arguta incline alla solitudine degli ingegni rari, intuitiva, ciclotimica, latrice di un suo goffo ma genuino erotismo, incapace di adattarsi alle convenzioni, di rimando desiderosa di aprirsi a orizzonti più vasti di quelli che le prospettano gli agi - e le trappole - domestiche (“Non voglio sbrigare faccende ventiquattro ore al giorno !”, intima alla madre/Krakowski, di contro quintessenza della massaia realizzata, cioè iper-frustrata, in grado di ribattere solo col più scontato degli “E che vorresti fare invece, signorina ?”, su cui cade, a troncare, un sibillino e straniante “Vorrei solo… pensare”) - una curiosa affinità con il volto più intimo di una esperienza umana e letteraria talmente povera di eventi (dell’autentico quotidiano della poetessa di Amherst si sa poco o nulla, ragion per cui le congetture sul suo conto hanno negli anni potuto svariare tra l’edificazione di un mito virginale e mistico, tutto ripiegato sulla contemplazione della propria tormentata rinuncia alla vita e il manifestarsi periodico ma non meno leggendario di un carattere antitetico, scientemente eccentrico, brillante e caustico, capace di intessere, attorno al segreto di una consuetudine sfuggente, relazioni personali profonde sebbene di - esclusiva ? - natura epistolare: Tra i miei giochi più patetici/quello di credere che tu mi scriva -/la finzione dura finché, quasi/ci crede anche il mio cuore), da aver conservato intatto, concentrato e costante, un fraseggio lirico tagliente, risoluto, elegantemente impudico, non di rado auto-ironico (sulla sua formazione, la Dickinson annota, perplimendo i suoi coevi: Sono andata a scuola ma non mi hanno insegnato niente. Da piccola avevo un amico che mi aveva insegnato l’Immortalità ma, essendoci andato troppo vicino, non è più tornato. E anche: Mio padre mi compra tanti libri ma mi supplica di non leggerli, perché ha paura che mi scuotano la mente), di continuo attraversato da squarci di una sconcertante modernità, affacciati come sono su tempi evocati in una dimensione inquieta, tra aspettazione e preveggenza (Era come se le strade precipitassero/poi - fu l’immobilità -/Eclisse: tutto ciò che era dato di vedere alla finestra/Terrore: tutto ciò che provavamo/A poco a poco - i più coraggiosi uscirono piano/ allo scoperto, per vedere se il Tempo c’era ancora -/La Natura indossava un grembiule d’opale/e impastava aria pura), fiducia e un quasi beffardo disincanto, tale, per costituzione, da risuonare alla stessa frequenza dell’esistente e quindi, a conti fatti, non stridere con l’azzardo di una riproposizione che da par suo ne altera la generale fisionomia: nei lineamenti (sfumati e incerti, avvolti da un candido pallore, quelli della Dickinson; scuri e più marcati quelli della Emily della finzione); nella mentalità di base; nelle abitudini, adombrandone persino la concorde sostanziale a-moralità (Notti selvagge - Notti selvagge !/Fossi io con te/notti selvagge sarebbero/la nostra passione, al tempo abbrivio di una celebre composizione della Dickinson e titolo di uno degli episodi della serie).

In altre parole, riesce, talvolta, come accennato - e quanto volontariamente perseguito o no, poi, a questo punto, interessa poco - l’inedito travaso, in forma di via di fuga spirituale da un conformismo che non ha epoca, da una mediocrità che non ha vergogna, da un’idiozia che non ha confini, dell’enigma, dell’elusività, della durezza anche, di una voce ritrosa, inappagata, in perenne ricerca di un altrove (Nella Storia le streghe le hanno impiccate/ma io e la Storia/troviamo gli incantesimi/di cui abbiamo bisogno, ogni giorno), in un tessuto adolescenziale ai giorni nostri programmaticamente saturo di sollecitazioni (si balla, ci si traveste, si festeggia con l’oppio, in “Dickinson”; come pure ci si intrattiene con la Morte/Khalifa - unico contraltare degno di considerazione - acconciata con le fogge di un rapper steam-punk); di esperienze visive (coloratissimi i costumi, in un trionfo di crinoline a sostenere intrecci e arabeschi delle tonalità più varie); di scoperte intime (il sesso è sì pudico ma fluido: Emily vi indulge in saffici approcci con il “vero amore della mia vita”, Sue Gilbert/Ella Hunt, promessa sposa dello scialbo fratello Austin/Enscoe ma non disdegnerebbe le attenzioni del gentile Ben/Lauria a sua volta intrigato da Austin, se la tbc - da cui Ben è affetto - non spezzasse sul nascere ogni possibile sviluppo); di grottesche o tragiche agnizioni (la delusione per le grandi intelligenze del suo tempo, tipo Thoreau o Emerson - che la vera Emily non frequentò mai - o il progressivo dischiudersi di un destino di isolamento in un contesto sempre più vissuto come un vacuo succedersi di rituali omologanti entro cui il dettato deterministico scandisce i ritmi di un’atroce ripetizione). Ogni aspetto come se le istanze nascoste, le insoddisfazioni allusive, gli abbandoni inermi ma precisi di una donna estranea alla sua contemporaneità, assunta la forma della tregua poetica, svelassero finalmente la meraviglia della propria duttile universalità, ovvero la prerogativa speciale di arricchire ogni suo interlocutore, in ogni tempo, qualunque maschera esso indossi - ecco la vera dote e l’unico riscatto della superficie, paradigma dei nostri giorni: la sua intrinseca capacità di assorbimento - dalla citazione al paradosso, dalla provocazione, passando per il sarcasmo, giù fino al cinismo, alla parodia e al cattivo gusto: perché Emily che apostrofa con un “Lei è un coglione” un Thoreau compiaciuto della propria meschina scaltrezza non è solo una battuta di raccordo ma è davvero la Poesia che mette in riga tutti i coglioni di questo mondo.
TFK


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