Attenberg
di, Athina Rachel Tsangari
con, Ariane Labed, Evangelia Raodou, Vangelis Maurikis, Yorgos Lanthimos
Grecia 2010
genere, drammatico
durata, 95’
“Tutto a questo mondo è di merda, signor Brubaker… allora è inutile”.
- da “Brubaker” di S.Rosenberg -
Atteggiamenti para-autistici; eloquio episodico e scostante; diffidenza manifesta e malmostosa a dibattersi in circolari aporie: l’insieme, rabberciato in virtù dell’ultima illusione a portata di mano - la presunta infallibilità del giudizio razionale - sostanzia il quotidiano per lo più solitario della bella Marina/Labed (creatura a mezza via tra la Haenel e la Quartin), sullo sfondo della Grecia contemporanea già a un passo da quel baratro dal fondo del quale stenta tuttora a rimuoversi.
La corazza esteriore, costruita nel tempo e fortificata anche attraverso la fruizione dei brani dei Suicide e dei documentari di David Attenborough (l’attenberg del titolo, maliziosamente storpiato dall’amica del cuore, Bella/Raodou, allo scopo di scuotere Marina dalla propria algida distanza), nonché nella sua crudezza amplificata dall’ondivago rapporto col padre Spyros/Maurikis, architetto inchiodato a periodici controlli sanitari causa una patologia allo stato terminale, comincia a sfaldarsi, lentamente e con tutti gli ovvi contraccolpi del caso, allorché la protagonista si imbatte in un Ingegnere - interpretato da Lanthimos (di alcune opere del quale, tra l’altro, la Tsangari è stata produttrice e con cui talora ha condiviso l’opera dello sceneggiatore Filippou) - inviato presso la locale acciaieria e dai lei scarrozzato nei quotidiani trasbordi, in compagnia del quale, nonostante la ritrosia (a Bella, più smaliziata e sobillatrice, non esita a rinfacciare le propedeutiche lezioni di bacio dicendo che è “come avere una lumaca in bocca”), prende a esplorare il pianeta degli approcci e del sesso.
Geometrico e capzioso, intellettualisticamente lascivo quanto animato da un singolare furore interno, il film dell’autrice ellenica torce e stravolge - e non è solo un’iperbole - parte delle logiche normative e degli incastri tipici del teen movie spezzettandoli e rarefacendoli in una successione stranita di scene autosufficienti ad alternare e rimescolare lacerti desolati di interni condominiali, disadorne e laterali strade cittadine, complessi industriali attivi ma spettrali, come se in essi non avesse mai davvero dimorato quell’istanza di progresso che ne aveva preteso l’edificazione: concrezioni spaziali per sottostanti spartiti intimi su cui la modernità ha subito depositato, a mo’ di calibratissimo sudario, la prepotenza indifferente della propria inesorabilità (“Progettare ruderi per un futuro inesistente”, ammonisce il padre di Marina riflettendo sul destino più mesto che tragico a insistere su un’intera Civiltà, indovinate quale). E spoglie stanze d’ospedale in cui la tecnica medica tenta di dilatare i confini dell’irreparabile; ancor più anonime camere d’albergo ove infine inscenare, tra interminabili dilazioni retoriche e innocenti goffaggini, il rito della chimica provvisoria dei corpi. Per non dire di stupidi antidoti costruiti attorno a una noia a cui, oggi come oggi, è persino inutile dare un nome (Marina e Bella, da una finestra, sputano per poi nascondersi ridacchiando, all’indirizzo dei passanti); o metaforici siparietti approntati a misura di entr’acte per scandire tanto l’irriducibile sentimento di estraneità verso un mondo ridotto a compiaciuta parodia di sé stesso, quanto un ideale percorso di liberazione, allo stato dei fatti, impossibilitato a privarsi del nonsense, ossia della caricatura e dello sberleffo, non di rado idiota (le due amiche con fare marziale e volti strafottenti scimmiottano pose, peculiarità e versi della fauna riconosciuta nei documentari).
Al centro, però, nonostante tutto - ed è l’imprevedibile cuore pulsante del film - strana sorta di negativismo vitalistico, un desiderio: confuso, distratto, rattrappito ma genuino, irriverente, oltreché inestinguibile, l’unico praticabile, forse, in questo tetro presente. Una presunzione innocente in bilico tra il rifiuto definitivo e la ferita corroborante dell’emancipazione; tra l’incapacità oramai conclamata di riannodare quel nesso fecondo che lega(va) in un vincolo armonico il paesaggio umano (leggi: interiore) al paesaggio naturale e l’estrema scommessa di puntare ancora su ciò che recalcitra al cospetto della tirannia della materia (la passione). Antinomia che Marina, sciolti i vincoli familiari e le cautele dogmatiche, via via impara ad assorbire nella propria pelle, predisponendo i passi, sebbene ancora con riluttante trasporto, in direzione dell’itinerario che forse farà di lei un vero animale umano.
TFK
0 commenti:
Posta un commento