Eric Clapton: life in 12 bars
di, Lili Fini Zanuck
genere, documentario
GB 2018 -
durata, 135’
GB 2018 -
durata, 135’
Magari Eric Clapton non è dio e quanto meno coabita in una pacifica trimurti, con Hendrix e Page, nel più alto dei cieli chitarristici. E’ vero però che la sua parabola - raccontata con dovizia, in questo documento a firma L.F.Zanuck, almeno per ciò che attiene l’infanzia e la prima giovinezza a modo loro propedeutiche al precoce incontro con le Muse di un talento fuori dal comune, e per fortuna ancora non chiusa, nonostante la recente diagnosi che parla di una neuropatia degenerativa degli arti (crudele contrappasso) - è di quelle che, al tempo, appartengono al repertorio (e allo stereotipo) del rock e al canovaccio dei più tipicamente travagliati romanzi di formazione.
Eric nasce infatti a Ripley, nel Surrey, un giorno di fine marzo del 1945 da una madre giovanissima e da un militare canadese presto rientrato in patria. Tipo tranquillo e di buona indole, quantunque di poche parole e portato alla solitudine per naturale inclinazione, cresce con la nonna materna nella fallace persuasione che la madre biologica sia solo sua sorella maggiore. Scoperto il grottesco equivoco all’indomani del trasferimento all’estero del genitore assieme a un nuovo compagno, Eric prende la cosa come qualunque altro ragazzino di questo mondo: male. Si sente cioè abbandonato, triste ma pure infastidito e arrabbiato, ponendo le basi psicologiche di quel temperamento introspettivo venato di autocommiserazione e attitudine distruttiva comune a molte persone dal carattere schivo. Comincia così la ricerca d’una valvola di sfogo da utilizzare a mo’ di cintura contenitiva di tanta frustrazione. L’occasione è offerta dalla programmazione radiofonica, da lui subito orientata verso un particolare tipo di musica che ai tempi, dagli Stati Uniti, aveva preso a diffondersi su vasta scala in Europa a rimorchio dell’onda lunga dell’ultimo conflitto mondiale: il blues. E’ una rivelazione. Eric trova nelle canoniche 12 battute (le 12 bars del titolo) l’unità di misura su cui calibrare la disperazione interiore originata da un dolore così profondo e, ai suoi occhi, insensato (che, tra l’altro, ne marcherà in maniera indelebile l’approccio adulto all’universo femminile) e il crescente ardore, la fisiologica insofferenza che l’età stenta ormai a contenere. Lo slancio si traduce in un apprendistato feroce dei rudimenti e, via via, dei classici (alcuni dei quali viventi) d’un mondo allettante e vergine, tutto da esplorare: Robert Johnson, Skip James, B.B.King, Bo Diddley, Chuck Berry, Muddy Waters e svariati altri vengono sistematicamente e ossessivamente passati al setaccio da orecchie e, soprattutto, da mani che non smettono d’impratichirsi ricalcando e ripetendo senza tregua sulla prima chitarra ricevuta in dono note su note, accordi su accordi, nella determinata convinzione di distillare da essi un linguaggio innovativo, uno stile originale, ossia un’impronta simile a un’identità definita.
Tale interludio, assemblato sulla scorta di molteplici materiali messi a disposizione e commentati dallo stesso Clapton secondo la collaudata modalità espressiva della ricostruzione che abbina al piglio cronachistico e catalogatore del magazine per immagini il gusto dell’aneddotica spicciola e del frammento icastico utile a identificare un’epoca, risulta essere, come accennato, il contributo più interessante del lavoro della Zanuck, d’altro canto più prevedibile e corrivo allorché si tratta di descrivere l’ascesa dell’artista all’olimpo della storia della musica popolare, quanto, paradossalmente, poco musicale in senso stretto, sia per ciò che riguarda l’analisi dei motivi che distinsero l’esperienza claptoniana da quella dei tanti che concorsero alla consacrazione del blues (e del rock-blues) come patrimonio diffuso e lingua franca tra persone d’ogni estrazione, collocazione geografica ed età, sia per l’incomprensibile assenza di brani entrati a far parte da tempo dell’immaginario di una vasta copia di generazioni e appartenenti alle altrettanto numerose declinazioni che il genio musicale del Nostro ha assunto durante la sua evoluzione, almeno fino alla prima metà degli anni ’70. Parliamo di pezzi leggendari patrimonio dell’eredità di gruppi come Cream, Blind Faith, Derek and the Dominos, Delaney & Bonnie o del medesimo Clapton versione solista che, nell’affastellarsi di concerti, voli intercontinentali, interviste, dichiarazioni di produttori e tecnici discografici, colleghi di studio e/o di scena, fidanzate e conoscenti, non trovano spazio: Sunshine of your love, White room, Deserted cities of the heart, Can’t find my way home, Sea of joy, Had to cry today, Why does love got to be so sad ?, Let it rain, The core, solo per citarne alcuni, risultano senza colpo ferire espunti da un preciso contesto che, avendoli generati, anche grazie a essi ha finito poi per caratterizzarsi come uno dei periodi più fecondi per ciò che concerne la creazione nel mutevole organismo dell’arte di massa. Per contro, ci si concentra sui rovesci sentimentali del protagonista - in specie sulla lunga e complicata liaison che legò Clapton a Patty Boyd, compagna dell’amico George Harrison e musa ispiratrice della celebre Layla, scritta insieme al batterista Jim Gordon - cristallizzando in via ulteriore l’ipotesi per cui il suddetto controverso rapporto non sia estraneo al progressivo disgregarsi dell’equilibrio emotivo del musicista e del conseguente suo scivolamento nell’abuso di droghe (tutte, eroina compresa) e di alcol (assunto in quantità tali da presentarsi sbronzo sul palco o davanti ai giornalisti e da implicare accessi epilettici e convulsivi). Come pure si glissa, invero con disinvoltura degna di miglior causa, sui tanti album opachi e stanchi che hanno costellato buona parte dei decenni successivi al primo aureo periodo (e non necessariamente imputabili agli strascichi relati alle contingenti dipendenze ma, ed è prosaico, compatibili col lento e costante - sebbene fatale e comprensibile - esaurimento della vena compositiva e col simmetrico irrigidimento in una sorta di elegante manierismo), comunque qua e là evocato da sprazzi dell’antico fervore (si pensi alla riscoperta delle origini - la cavalcata blues nelle cover allineate in From the cradle, 1994 - integrata da progetti condivisi col vecchio maestro B.B.King - 2000 - da quelli dedicati a Robert Johnson - 2004 - o alla estrema, per quanto godibile, riunione con Jack Bruce e Ginger Baker per un manciata di concerti alla Royal Albert Hall una volta ancora sotto l’epico vessillo dei Cream - maggio 2005 -).
Su siffatta linea, e in conclusione, non si poteva che far prevalere di nuovo la dimensione degli affetti personali, soffermandosi stavolta vuoi sulla scomparsa del piccolo Conor (bambino di pochi anni, avuto dalla relazione con Lory del Santo, precipitato per una tragica fatalità dalla finestra di un grattacielo di NY nel marzo del ’91), vuoi rinnovando la speranza e la ritrovata tranquillità col sostegno alla fondazione Crossroads (messa in opera alla fine dei ‘90) e con l’allegra polifonia donata da una nuova a numerosa famiglia.
Motherless children have a hard time when mother is dead, Lord/…/They don’t have anywhere to go/Wandering around from door to door…
TFK
0 commenti:
Posta un commento