domenica 31 maggio 2020

INVISIBILI: CASHBACK

Cashback
di, Sean Ellis
con, Sean Biggerstaff, Emilia Fox, Michelle Ryan, Stuart Goodwin, Michael Lambourne, Shaun Evans, Michael Dixon, Marc Pickering
GB, 2006
genere, drammatico
durata, 100’



A forza di insistere
con la realtà
si perde la magia
[ndA]


Tra le affezioni idiopatiche, l’amore è in genere quella dal decorso più breve (indipendentemente o forse proprio a causa della sua relativa piacevolezza) ma di sicuro dagli strascichi più profondi. Su tale ennesima discrasia prende a ragionare il gentile, riservato e un po’ goffo Ben/Biggerstaff, allievo dell’ultimo anno all’Accademia di Belle Arti e aspirante pittore, allorquando la separazione dalla bella e irascibile Suzy/Ryan - come spesso accade, per impercettibili incrinature e un vago sebbene persistente senso di inadeguatezza - lo pone innanzi, oltre a una valanga di improperi e al lancio della gran parte delle suppellettili di casa, alla natura fragile e, rimosso il coppale di superficie, scarsamente entusiasmante dei legami umani.

Il contraccolpo al trauma si materializza sotto forma di elucubrazioni inconcludenti circa il mesto destino di solitudine a cui sembrano vocate le moltitudini d’Occidente e di deprimenti rievocazioni riguardanti un passato felice, con tanto di rimestare tra ex oggetti di uso comune e mucchi di fotografie. Non bastasse, sul poco invitante quadretto va a infierire la filosofia spicciola dell’amico di infanzia Sean/Evans, maldestro seduttore seriale il quale non trova di meglio che consigliare al nostro cuore infranto di “trovarsi una modella” in modo da sobillare l’istinto competitivo di Suzy comune, a suo dire, a tutto il genere femminile. Certo è che l’effetto collaterale primario saggiato da Ben un giorno via l’altro alla fine si conclama in una singolare anomalia: assume cioè le fogge dell’insonnia o, meglio, di quella eccentrica condizione tra la veglia e una specie di molle torpore che “allunga la vita di un terzo”, con intatti, se non moltiplicati, gli inconvenienti del caso, vedi apatia, irritabilità, dilatazione delle percezioni, et. Se, volendo e all’inizio, la lucidità forzata può prevedere atteggiamenti virtuosi ispirati a propositi lungimiranti - Ben, ad esempio, recupera le letture che la frenesia diurna aveva sempre indotto a posticipare; addirittura rimette mano ad alcuni dei libri preferiti - alla lunga la sistematica presenza a sé stessi si mostra per quello che davvero è: un rovello molesto e logorante. Prevale allora il vecchio abbaglio di surrogare una deficienza interiore con l’attivismo e questo con la sua forma più degradata, il lavoro salariato. Allegato dolente, intrupparsi con il solito posto di merda per quattro soldi (il baratto osceno denaro-in-cambio-di-tempo a cui allude il titolo) diventa un passo da compiere molto più breve di quello che si potrebbe supporre. Fatto sta che Ben comincia a barcamenarsi tra la vita da studente più o meno motivato di giorno e quella dell’inserviente/commesso notturno presso un grosso supermercato, il Sainsbury di Whitechapel (East End londinese), predisponendo quasi suo malgrado le condizioni per una torsione imprevista degli avvenimenti.

E’ noto che il Tempo, tra le tante sue stravaganze, è in grado di rivestirsi di una miriade di implicazioni a seconda dello stato d’animo con cui si indulge tra le sue maglie, generando paesaggi dai contorni tanto inediti quanto sorprendenti. Ciò che Ben (e noi insieme a lui) crede così di sperimentare in una personalissima eppure decisa quanto delicata insonnia d’amore, scivolando imponderabile tra piramidi di surgelati e distese di formaggi, viluppi di merendine e pareti di detersivi, è una sorta di tregua fatta di istanti cristallizzati all’interno dei quali - unico essere cosciente a tirare le fila di un mondo mezzo nuovo perché messo in pausa - dare sfogo alla fantasia e al desiderio, nel caso coincidenti con il concetto di bellezza muliebre, miraggio che un quotidiano iper-conformista e venale frustra e/o banalizza rendendolo d’altro canto vieppiù sfuggente. In tal senso, indugiare - come fa il potenziale artista durante questi intervalli sottratti al caos - sulle silhouette di donne ignare sospese in pose curiose tra uno scaffale e l’altro in un silenzio irreale, spogliarle per ritrarle e quindi rivestirle riconsegnandole con uno scrocchio di dita all’anonimato delle rispettive routine, si rivela essere sia il modo insperato per verificare la tenuta della propria fiducia-nonostante-tutto di fronte allo sfascio affettivo di una realtà irrigidita dalla scaltrezza e dal cinismo, sia la leva utile a reinquadrare il mistero originario di una rivelazione appartenente alla prima giovinezza (il nudo abbagliante di una ragazza accolta al tempo in casa dai genitori come studentessa proveniente dall’estero, possibile correlativo oggettivo del celebre amor che move il sole e l’altre stelle), poi confermata o disattesa (gli inserti relativi al passato del protagonista, i suoi piccoli/grandi cortocircuiti, gli stupori e le esitazioni, sono un concentrato gustoso di trepidazione e malinconia) a seconda delle altalene emotive e delle imprevedibilità della crescita. Di contro, trovarsi circondato da colleghi bislacchi, aridi seppur innocui - Jenkins/Goodwin, dirigente di idiozia abnorme ma bonaria; Matt/Lambourne e Barry/Dixon, lena nulla ma pronti allo sghignazzo, allo scherzo cretino e perennemente infoiati; Brian/Pickering, taciturno improvvisatore di un’arte marziale a lui stesso sconosciuta - sembra facilitare a Ben, oramai intenzionato a trarre quantomeno un insegnamento dal suo osservatorio privilegiato in virtù anche della grazia involontaria che da esso si sprigiona nei modi di un fatalismo arreso, l’accesso all’universo intimo di Sharon/Fox, cassiera dagli ordinari ma tenaci sogni nel cassetto quanto di fondo poco disposta a dar spago a imbecilli intrappolati in un cazzeggio magari a tratti divertente ma più che altro masturbatorio (Jenkins e Matt, per dire, provano a diverse riprese a tampinarne le grazie con esiti di rara mestizia). Da qui a dire che ogni nodo è sciolto ce ne passa, ovviamente, ma la sfida - come sempre e come dicevano i Greci che sapevano tutto - sta nello sforzo di cercare nell’altro ciò che ci completa e quindi ci sostiene, in questa sanguinolenta dispersione che è la vita.

Ellis con ogni probabilità sospetta che, allo stato dell'arte, puntare sulla commedia sentimentale rappresenta allo stesso tempo un luogo comune usurato (tra l’altro, poco remunerativo) e uno strano ossimoro persino incomprensibile ai più. Ciò non di meno armeggia all’interno di un (sotto)genere che pur vanta episodi gloriosi a spasso per la storia del Cinema (si può supporre, con buona approssimazione, che chiunque abbia almeno un titolo di riferimento custodito da qualche parte dentro di sé) con un atteggiamento sì conscio, ossia in linea con la passionalità triste contemporanea ma non disincantato, a dire rassegnato alla sua inerzia a perdere. Il romanticismo démodé di Ben, in altre parole, il suo inseguire una purezza e una pienezza senza tempo al punto da deformare il medesimo per catturarle e goderne, lavora in sincrono - osserva l’autore - da un lato come arma di difesa contro un’atonia morale al giorno d’oggi metabolizzata a mo’ di carattere distintivo dell’individuo moderno (qui a stento dissimulata da un’ironia gaglioffa e ripetitiva, tipo quella usata da Matt e Barry); dall’altro come slancio sul serio libero verso il domani, la cui scommessa per eludere la desolazione del materialismo e risultare autentica, date per scontate ipocrisie e contraddizioni, deve puntare a comporre voluttà, empatia e compassione. 


Parimenti e di conseguenza non stona il clima da riflessione post-adolescenziale che aleggia qua e là sul film, espediente che, al contrario, convogliando e reindirizzando le spinte più drammatiche di una materia sempre in precario equilibrio tra patetico e melenso entro una dimensione di riscatto a portata di mano se solo si è propensi a concedere spazio a una visione delle cose (in special modo, dei rapporti) finalmente emancipata dal tritacarne deterministico, alleggerisce il tono della vicenda consegnandola a un zona franca in cui si incontrano, senza sovrapporsi ma nemmeno scontrandosi, il vitalismo incontenibile e lo humour greve e proletario del primo Boyle o del Ritchie più irriverente e il garbo intimista delle sceneggiature meno caramellate di Curtis, con sullo sfondo, evocativo e smagliante, l’immane enigma incanto/carnalità custodito ab aeterno nei percorsi infiniti tracciati dalle linee del corpo di una donna.
TFK


sabato 30 maggio 2020

DISNEY PLUS: OUT

lunedì 25 maggio 2020

TALES FROM THE LOOP

Tales from the Loop
da un’idea di: Nathaniel Halpern
con: Rebecca Hall, Jonathan Pryce, Paul Schneider, Daniel Zolghadri, Duncan Joiner, Ato Essandoh, Abby Rider Fortson
USA 2020 
stag. I, ep. I-VIII
durata media: 53’ ca./ep.





L'interesse di sapere che cosa sia il tempo è stato risvegliato oggigiorno dallo sviluppo della fisica nella sua riflessione sui princìpi fondamentali del coglimento e della determinazione che vanno qui attuati, cioè i princìpi fondamentali della misurazione della natura entro un sistema di riferimento spazio-temporale. Lo stato attuale di questa ricerca scientifica è fissato nella teoria della relatività di Einstein. Eccone alcune tesi: lo spazio in sé non è niente; non c'è uno spazio assoluto. Esso esiste soltanto mediante i corpi e le energie che contiene.
- M. Heidegger, “Il concetto di tempo” -



Ci sono le campagne dell'Ohio sotto le quali, per decine di chilometri, si estende un acceleratore di particelle autore di scherzi alla materia e soprattutto a chi crede di poterla domare. Ci sono gli oggetti allo stesso tempo sorpassati e artificiosi - ispirati, così come l'intera serie, all'immaginario dell'artista svedese Simon Stålenhag - che sembrano rappresentare un futuro stanco di esser tale. C’è anche un rapporto con la Tecnica che va in direzione totalmente opposta al dogma di imprescindibilità da essa che ci siamo cuciti addosso.



Ed è proprio su queste coordinate che si muovono vicende e personaggi di "Tales From the Loop", serie tv in bilico tra immanente e futuribile - quasi per incanto apparsa sugli osceni canali di Amazon Prime, probabilmente e tristemente destinata all'oblio, a morire nel tritacarne della fagocitazione-digestione-espulsione digitale (a pensarci e a suo modo, un loop quantomeno deprimente) - che sembra avanzare con velleità antologiche facendo per contro non solo intrecciare le linee narrative sviluppate fino a quel momento ma anche i fondamentali a cavallo tra filosofia ontologico/temporale e meccanica quantistica posti dapprincipio a reggere l'insieme e, in alcuni momenti intermedi, messi da parte a mo' di inganno in quanto elementi centrali ma sempre orbitanti attorno al microcosmo rurale. Tutto ciò sta a significare che, nonostante l'ovvia matrice fantascientifica, i cliché che di questo genere sono capisaldi vengono non solo smontati ma addirittura decostruiti e proposti sotto un'altra forma (si pensi al viaggio nel tempo in cui la Tecnica non solo è stata abbandonata ma anche lasciata alle spalle con una leggerezza impensabile per l'omaccione contemporaneo il quale, al contrario, si guarda bene dal fare i conti con dei futuri ipotetici; si noti lo scambio anima-corpo di due ragazzi con prospettive opposte che, invece di virare verso il solito aspetto della scalata sociale, va nella direzione di orizzonti comunicativi del tutto inusuali - in particolare la ragazzina sordomuta rimanda alla Amy Adams di “Arrival” - Si faccia caso, infine, a come oggetti di alta tecnologia siano presentati come semi-rottami desueti di fascinosa fattura artigianale perfettamente integrati in un contesto naturale già dalle prime inquadrature in grado di imporsi su ogni cosa, diventando a tutti gli effetti un personaggio). Di concerto, le immagini sono organizzate assecondando una fotografia che predilige tagli di luce decisi ma allo stesso tempo morbidi grazie all'uso di ottiche lunghe e di uno sfocato che però non aliena le figure dal contesto. Impossibile dimenticare, inoltre, le meravigliose partiture di Philip Glass - non a caso considerato uno dei più grandi esponenti della musica minimale - che si insinuano sottopelle contribuendo alla sensazione più reale-che-mai di star davvero vivendo un loop.

A tal proposito, sembrano non essere poi così lontani neanche i tempi in cui Nietzsche annunciava l'eterno ritorno dell'uguale - teoria della quale Fink diceva, e non a torto, che "... apparentemente manca di una precisa rielaborazione e impronta concettuale; è più simile a una oscura profezia" - che continua ad avverarsi ogni istante e senza arrendersi, nonostante le domande di un ragazzino, Cole/Joiner, perspicace e caparbio, pronto a interrogarsi perplesso ma sfrontato sul tempo (divinatoria la sequenza in cui fotografa la madre) ricevendo una risposta brutale e restando fregato dallo scherzetto di un fiume eracliteo. In un contesto apertamente nichilista, allora, e nella misura in cui la percezione umana è portata a credere solo a quello che recepisce, con tutte le contraddizioni del caso inerenti alla fede cieca nella materia, ennesimo dio cretino della Storia, viene posto il dubbio - con la lieta sensazione che sia più di un dubbio - che davvero tutto esiste ma nulla è.
Antonio Romagnoli

sabato 23 maggio 2020

DISNEY PLUS: WIND

sabato 16 maggio 2020

L'ALTRA META'

venerdì 15 maggio 2020

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI FAVOLACCE, IL NUOVO FILM DEI FRATELLI D'INNOCENZO

“Non resto colpito dai fatti in se ma dalla sensazione di misteriosa reticenza che mi provocano. Come se tutto non fosse scritto sulla carta, eppure presente con pesantezza.” 


In Favolacce le parole della voce narrante sono quelle che introducono lo spettatore alla storia. Ma non solo. 

Se è vero che ciò che stiamo per vedere scaturisce dalla continuazione di un racconto interrotto, quello che l’io narrante a letto poco prima  sulle pagine di un diario abbandonato, è chiaro che  ci troviamo di fronte a una duplice lettura.

Da una parte c’è quella relativa alla vicenda che sta per iniziare, con la presentazione dell’ambiente e dei personaggi. Dall’altra è come se i fratelli D’Innocenzo parlassero di come intendono il cinema e di quale funzione gli assegnano. La prima, come dice la frase di cui sopra è la sua capacità di andare oltre il visibile, raccontando innanzitutto la”misteriosa reticenza dei fatti”. Favolacce lo farà con un impianto in cui l’elemento sensoriale sarà la chiave per scoprire cosa si annida nella testa e nel cuore dei protagonisti. Al di là delle apparenze. Insomma scoprirà un poco alla volta il cosiddetto l’arcano della storia. E come vedrete sarà davvero sorprendente. 

Si parla ancora del cinema: della sua natura vojeuristica,  (la lettura segreta del diario è uguale alla visione del film nel buio della sala), del fatto che quando andiamo al cinema è come se spiassimo le vite dei personaggi a loro insaputa.

E, ancora del suo potere immaginifico, e in particolare del  meccanismo che porta il pubblico a interpretare le immagini, per completare egli stesso la storia, attribuendogli significati derivati dalla propria esperienza. 

Insomma Favolacce si mette dalla parte del pubblico elevandolo a suo unico confidente. Stabilisce con esso un’intimità privilegiata confidandogli anche il modo in cui lo farà, senza inganni e appunto reticenze 

Continua 1. 



Come già successo ne La Terra dell’abbastanza anche Favolacce fa della concentrazione spaziale il principio regolatore della sua messinscena. In entrambi i casi la parte diventa rappresentativa del tutto, dunque anche dell’esistenza dello spettatore, spinto ad immedesimarsi in una condizione in qualche modo simile alla propria. A differenza del film d’esordio, in Favolacce la periferia romana, dapprima localizzata con precisione toponomastica, viene con gradualità svuotata delle sue caratteristiche principali attraverso un processo d’astrazione che la trasforma in un qualunque sobborgo del mondo. 

All’accresciuta universalità della storia concorrono diversi elementi, a cominciare dalla mancata insistenza nell’utilizzo del gergo dialettale, in alcuni casi, e per esempio nelle scene dedicate ai bambini, del tutto assente, come pure la restituzione dell’ambiente, neutralizzato da inquadrature volte a valorizzare la simmetria degli elementi, come succede nelle panoramiche sulle villette a schiera, volte a costruire un immagine di ordine e precisione in contraddizione con il caos che all’interno vi alberga. E infine la fisionomica dei piccoli protagonisti, asciugata si, dall’apatica rassegnazione alla mancanza di orizzonti delle proprie esistenze, ma segnata in partenza dalla scelta di volti non riconducibili a un preciso modello italiano.  

Continua 2.


La cattiveria e la ferinità sarebbero già sufficienti a definirne la peculiarità del tratto. Favolacce però va oltre, rimettendo al centro del discorso uno dei rimossi del cinema italiano, ovvero una tipologia di fanciullezza raccontata con una complessità per nulla empatica e a tratti persino scomoda.

A farne parte non è solo il corpo, esposto anche laddove di solito si rinuncia a entrare, ovvero nella sfera delle pulsioni e degli istinti. Gli sguardi attoniti e l’apatia dei più piccoli non sono come al solito il risultato di un benessere borghese, invasivo ma mai scandaloso,  bensì il frutto di una consapevolezza superiore, data dall’aver colto - al contrario dei genitori -, la mancanza di orizzonti dell’esistenza a loro offerta. 

Quello che ne viene fuori è una disperazione fredda, di fronte alla quale il film non si tira indietro ma anzi la percorre fino al termine della notte. L’esplosione di violenza e l’anarchia a tutto campo sono solo una logica conseguenza. In sede di presentazione i fratelli D’Innocenzo hanno parlato dei loro riferimenti, citando Charlie Shultz e scrittori americani del calibro di Carver, Cheever e Faulkner. Durante la visione a noi è venuto in mente certo cinema indie:  in ordine sparso quello dei vari Solondz, Clark, Korine ma anche di Van Sant e dello Jeremiah Zgar di Quando eravamo fratelli.
Carlo Cerofolini

pubblicato su facebook/taxidrivers 3000 

lunedì 11 maggio 2020

FAVOLACCE

Favolacce
di Fabio, Damiano D'Innocenzo
con Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi
Italia, Svizzera, 2020
genere, drammatico
durata, 98'



Per il loro Favolacce, Damiano e Fabio D’Innocenzo partono dal cinema e dalla capacità affabulatoria senza la quale certe cose non potrebbero essere dette e, soprattutto, mostrate. Un proposito dichiarato nella scelta del titolo, aspro e dispregiativo, come lo era a suo tempo quello di Uccellacci uccellini di Pier Paolo Pasolini, nume tutelare non tanto nelle estetiche (per quelle bisogna guardare al cinema indie e, nello specifico, a Harmony Korine e Todd Solondz ), quanto nel pessimismo, oltreché nel cotè umano con cui il poeta guardava alla trasformazione del proletariato operata dal sistema capitalistico. Un concetto, quello del novellare, ribadito nella forma filmica e in particolare nell’anomalia – rispetto alle altre – della sequenza introduttiva, nella quale, più dell’esposizione teorica relativa al rapporto tra finzione e realtà presente in quello che si starà per dire/vedere, a contare è la letterarietà del tono, la ricercatezza delle parole e della giusta pronuncia, così come la necessità di stabilire un canone a partire dal quale tutto è possibile. Anche di rivoluzionare la rotta di partenza, stravolgendola con una storia che si rifà agli istinti primari dell’essere umano e che per questo è pronta a deformare il quadro iniziale, facendo della scorrettezza lessicale il grimaldello di quella comportamentale.



Con un’operazione per certi versi simile per forma e contenuto a quella immaginata da Joon-ho Bong in Parasite, i fratelli D’innocenzo raccontano la rapacità dei rapporti sociali in maniera ancora più netta, rendendo scoperto fin da subito – nell’agghiacciante cena familiare posta in apertura del film – il rapporto di dominanza che presiede le relazioni umane, con i padri-padroni ansiosi di ribadire la relazione di possesso con i loro figli, schiacciati fino all’annullamento di sé dalla prepotenza degli adulti. A parte quello della voce narrante, in Favolacce non c’è pensiero, nel senso che alla pari del regista coreano gli autori italiani fanno risalire l’anima del loro film dalla superficie dei corpi e delle cose, allestendo una narrazione orizzontale in cui ciò che si vede in superficie è la trasfigurazione di quello che si muove dentro i personaggi.



In Favolacce non c’è pensiero, nel senso che alla pari del regista coreano gli autori italiani fanno risalire l’anima del loro film dalla superficie dei corpi e delle cose. A fare la differenza, infatti, è la capacità della macchina da presa di cambiare ogni volta distanza e punto di vista: lontana e quasi panoramica nel momento in cui a dover essere visibile non sono i sentimenti (dunque le espressioni dei volti) ma le loro conseguenze, circoscritte in un consesso, – che sia la casa di famiglia o una parte di quartiere è uguale -, destinato a diventare un laboratorio comportamentale; ravvicinata e complice nei primi piani ravvicinati, quando si tratta di riscaldare la temperatura emotiva, laddove c’è da scoprire i segreti delle vittime, quelli che si nascondono dietro la remissività degli attoniti bambini; deformata e grottesca nell’antropologia dei caratteri, con l’uso del grandangolo e delle sfocature atte a segnalare l’alienazione generale del contesto.



Reduci dal successo de La terra dell’abbastanza, i fratelli D’innocenzo sono bravi a non farsi irretire dagli stereotipi del successo, realizzando un’opera seconda originale e scomoda
Se quella che traspare in Favolacce è una ferocia/rabbia ancestrale, appare coerente fare dell’acqua, presente nella scena di esuberanza infantile, la sola in cui la leggerezza dell’età trova modo di sfogarsi, una sorta di ritorno alla protezione del feto materno. Così come coerente è stato chiudere la storia facendo finta che sia stata tutta un’invenzione, che l’esistenza dei personaggi – e forse la nostra – sia talmente indescrivibile da aver bisogno della più grande delle menzogne, e cioè di fare finta (e ancora l’infingimento proprio della settima arte a venire in aiuto) che vada tutto bene. Reduci dal successo de La terra dell’abbastanza, i fratelli D’innocenzo sono bravi a non farsi irretire dagli stereotipi del successo, realizzando un’opera seconda originale e scomoda, che non fa sconti a nessuno e che, al pari di altre, si candida per il palmares del Festival Berlinese.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

giovedì 7 maggio 2020

INVISIBILI: HOMO SAPIENS

Homo Sapiens
di Nikolaus Geyrhalter
genere, documentario
Austria 2016
durata, 94’


Il dolore è la paura che lascia il corpo
- USMC -



Avendo familiarità con l’animo umano, essendo in specie acuto osservatore delle sue debolezze e delle sue viltà - non foss’altro per averle accettate e talora vezzeggiate entrambe - Baudelaire ebbe gioco relativamente facile nel vaticinare, nel senso di una sua sconcertante naturalezza, l’approdo miserabile delle suddette comuni lacune, ossia la loro capitolazione furtiva ma decisa nelle inerzie di una prassi che un falso modernismo al tempo ubiquitario, predatorio e dissipativo si acconciava ad apparecchiare (e vendere) come comoda e intimamente pacificata. Il suo celebre verso - tratto dalla lirica “La mort des amants” - in cui evoca (sebbene nel testo con altri intenti) un non lontano futuro in cui avremo… divani profondi come tombe, ha attraversato i decenni per andare a sovrapporsi con inquietante aderenza all’intenzionale uniformità di un contesto contemporaneo che ha fatto della (apparente) semplicità e della (ambigua) accessibilità due dei pilastri (gli altri sono il Denaro e la Tecnica) su cui poggiare l’edificio della propria (presunta) ineluttabilità. D’altro canto, l’assunto per cui l’unico mondo degno di essere esperito è un mondo desacralizzato, vale a dire ridotto a mero deposito da cui estrarre risorse atte a perpetuare un’oltranza tanto irriflessa quanto sconsiderata, di per sé si offre, per via della di lui implicita pretesa a rappresentare l’orizzonte stesso della vicenda umana, quantomeno alla più elementare delle contabilità tra promesse fatte e mantenute, tra la pervasività e la veemenza delle ambizioni mostrate e il margine di manovra delle - ipotetiche - altrui riluttanze.

Su un confine scivoloso, altresì in perenne mutamento, che separa due vere e proprie weltanschauung, si colloca così questo lavoro di Geyrhalter, austero eppure sentito documento intorno a una materializzazione-della-fine a oggi talmente metabolizzata - nell’immaginario di massa, nei gesti minimi del quotidiano, in taluni stupori improvvisi senza nome, nel linguaggio, oltreché nell’ovvia persistenza di un ciclo perverso accumulazione/distruzione a cui non sembra esserci obiezione efficace e/o duratura - da aver preso a lasciare nel tessuto della materia (leggi: l’anatomia di un pianeta - il nostro - a tutti gli effetti, ricordiamolo, entità vivente) chiare e inequivocabili tracce di sé, a dire, in controluce, del suo impassibile e immemore divenire, senza che ciò abbia innescato, allo stato attuale degli indirizzi prevalenti di comportamento, il minimo riflesso di resipiscenza. In spazi resi orfani della presenza umana il film ci conduce, antifrasticamente e ironicamente rispetto al titolo, per mezzo di una serie di inquadrature fisse della durata oscillante tra i quindici e i quaranta secondi per lo più costruite privilegiando la prospettiva centrale, attraverso un impasto sonoro nitidissimo (grazie al Dolby Atmos) quanto di piglio funereo e con le uniche costanti dei frastorni del vento, dell’implacabile scavo dell’acqua, del silenzioso intrecciarsi degli arabeschi vegetali e del contrappunto offerto dal canto degli uccelli, dal ronzare e dal frinire degli insetti, all’interno di squarci architettonici scabri e ingombri di rifiuti, tra cumuli di rottami, sinistri scenari di abitazioni diroccate, suppellettili e utensili ammucchiati su scaffali pregni di una polvere dall’apparenza eterna o su pavimenti sbreccati, in centri commerciali regrediti a gusci vuoti invasi dalle pozzanghere e dal marciume, simulacri avviliti di un’opulenza che sembra non essere mai esistita o rivelatasi solo uno sgangherato delirio. E così per piccoli supermercati, ospedali in rovina, laboratori deserti invasi da scartoffie irrigidite, vecchie sale cinematografiche cadenti e marezzate di muffa, farmacie, empori, magazzini, archivi, scalinate, chiese mutilate delle antiche volte, centrali nucleari abbandonate come divinità disconosciute o cromlech divenuti inespressivi, tronchi stradali spezzati in due e ingoiati da fiori, arbusti e radici, stazioni e binari rosi da ogni ghiribizzo meteorologico, ex insediamenti lacustri, portuali e litoranei a galleggiare in una melma annoiata, bastioni di città spettrali affacciati su un oceano in tumulto…

Istantanee di un futuro già passato o diacroniche nature morte del presente che le si voglia considerare, le immagini repertate da Geyrhalter richiamano, al contempo - ecco un ulteriore, interessante paradosso - secondo i toni di una composta sebbene lugubre elegia, nella scomparsa del gesto, dell’intercalare vocale, delle emozioni palesi o segrete - sostituiti, questo e quelle, dal respiro ampio degli elementi, dall’attività minuta ma febbrile di piante e animali - la nostalgia per una assenza non necessariamente dolorosa perché di fondo compensata da una costante tendenza al ristabilimento dell’armonia nell’equilibrio e la miope/pavida abdicazione alla responsabilità di uno degli attori principali di questo immenso gioco delle parti - l’homo sedicente sapiens, appunto - che ha reiteratamente e pietosamente mancato al suo ruolo. Soffermarsi allora su quegli ammassi degradati, sulle fatiscenze, le crepe, quei crolli sempre imminenti, su impegni e strategie tralasciati per l’euforia indotta da frettolosi futili entusiasmi, da obiettivi presto retrocessi nella lista delle priorità, da capricci megalomani o da stupidi abbagli; non poter togliere lo sguardo dall’angosciante sussistenza passiva della materia, ancora più inerte di fronte alla sua sistematica decomposizione, testimonia il distacco (sanabile ?) dai legami essenziali che ci vincolano (vincolavano ?) all’ordine ancestrale delle cose come specie evidenziando, di contro, l’imporsi di un malessere oscuro, tormentoso, spesso puerilmente rimosso, partecipe di un senso di estraneità verso il mondo tanto più acuto quanto più ci si affanna a colonizzarlo a colpi di manufatti. In altre parole: a fatica si troverà qualcosa di più atroce, suggerisce l’autore austriaco, che constatare l’inanità di uno sforzo se le conseguenze della sua disfatta svelano, senza ombra di dubbio, come l’intenzione del medesimo fosse quella di considerare la realtà, la sua molteplicità senziente, nient’altro che un fondale neutro da trasformare in campo di applicazione, in indifferenziato utilizzabile il quale, appena privato della sua unica ragion d’essere - la funzionalità profittevole - arretra a freddo e ostile ingombro, a concrezione incongrua e ominosa, ad apparato osceno, a dispetto di quanto più sono accurati i suoi requisiti progettuali e avveniristicamente ridisegnate le sue geometrie.

Vertigine, quindi, la presente, che assume sfumature - se possibile - addirittura ultraterrene, qualora ci si soffermasse quel tanto da rintracciare nelle pose imbarazzate di strutture e materiali umiliati dall’evidenza della propria irredimibile nudità, riferimenti, suggestioni e - potremmo dire - allucinazioni allegorico-pittoriche che, nel trascolorare dal bianco sporco, tramite un diffuso pallore bluastro, al grigio gessoso, dall’avorio brunito al nero impenetrabile, scomodano fantasmi appartenenti al Rinascimento, all’Astrattismo, alle più contorte declinazioni del realismo, alla cartellonistica affranta dall’incuria, come anche a una sorta di involontario carnevale di istallazioni inneggianti alla decrepitezza, alla stasi malata che ammicca alla già tacita necrosi oggettuale del collage, depositando sull'opera il sudario speculativo di un ammonimento (fuori tempo massimo ?) consapevole del proprio attestare, in un attonito percorso circolare a volte risonante di presagi tarkovskijani, un processo spintosi fin troppo oltre, per cui ciò che resta della vicissitudine già per tanti versi post-umana narrata, ad esempio, dal Glawogger di “Megacities”, di quella invece pervasa da cupi revanscismi arborei dello Shyamalan di “The happening”/“E venne il giorno”, delle solitudini senza scampo e della consuetudine macchiata da una colpa arcana e primordiale inscenate dal “Morgenrøde” di Hultgreen [vd.] o, ancora, delle atmosfere sospese e avvertite, latrici di una struggente precarietà, scandite dal recente “Tales from the Loop” di Halpern (“Legion”), dai lavori dello scandinavo Stålenhag, in “Homo sapiens” si agglutina a mo’ di ideale - non fosse in verità tragico - punto di caduta di talune ardite prefigurazioni - mettiamo - ballardiane (alterazioni climatiche incontrollabili, implosione delle comunità e delle istituzioni sociali, dissoluzione delle aree metropolitane con conseguente riconquista dal parte della Natura degli ambiti sottratti dalle attività umane, et.), a comporre la cornice di un regno a venire all’interno del quale i divani di Baudelaire, carcasse oramai sventrate, attendono vanamente di propiziare piaceri che nessuno potrà più restituir loro.
TFK

mercoledì 6 maggio 2020

HOLLYWOOD

martedì 5 maggio 2020

domenica 3 maggio 2020

LA SFIDA DELLE MOGLI

venerdì 1 maggio 2020

SUMMERTIME