Regia di Wi Ding Ho
con Lu Huang, Louise Grinberg, Kuo-Chu Chang, Lee Hong-Chi
Taiwan, Francia, 2018
Genere Drammatico
durata 107 minuti.
Prodotto da Netflix, il nuovo film di Wi Ding Ho, “Cities of last things” è una sorta di viaggio, metaforico e non, nella vita di una persona, l’ex poliziotto Lao Zhang. In un tempo distopico l’uomo cammina a ritroso nella sua vita (e lo spettatore con lui) e, attraversando vari momenti e varie situazioni, decide di vendicarsi dei torti subiti e saldare i conti in sospeso.
Il protagonista ripercorre, in un certo senso, le tappe fondamentali della propria vita attraverso le persone che, per un motivo o per un altro, in positivo o in negativo, lo hanno portato a compiere determinate scelte. Per questo motivo lo vediamo, inizialmente, adulto mentre cerca conforto in ragazze più giovani, e poi, pian piano, sempre più giovane e incosciente.
Sicuramente un film complesso, che innesca un meccanismo particolare nel pubblico che lo segue, è anche una sorta di mescolanza di più generi. L’ambientazione, distopica e fantascientifica che sembra rimandare a “Blade Runner”, si interseca alla perfezione con il thriller che fa da sfondo alla storia. Anche un pizzico di denuncia sociale si può riscontrare nei toni dark utilizzati dal regista, ma non solo. Le motivazioni che portano Lao Zhang a compiere determinati gesti e, soprattutto, a meditare vendetta sono indubbiamente legate a una società che sembra essere uscita dai propri binari.
Diversi i riferimenti cinematografici e non che Wi Ding Ho riprende, uno su tutti il regista Wong Kar Wai e il suo “In the mood for love”, attraverso varie scelte stilistiche.
In ogni caso, tornando alla composizione e alla struttura della pellicola, la decisione di andare indietro temporalmente permette allo spettatore di conoscere meglio il personaggio che vede sullo schermo perché non deve preoccuparsi di sapere cosa succederà in futuro o temere per il suo destino. L’unica cosa che deve fare è limitarsi a capire il motivo di determinate scelte che lo hanno portato ad essere quello che è. Paradossalmente, quindi, si è più vicini a un personaggio del genere se la storia che lo vede coinvolto è così costruita.
Peccato, però, che il collegamento fra i vari segmenti temporali non sia così ben congegnato, ma anzi porti a pensare che il protagonista non sia più una sola e unica persona. Soltanto alla fine si comprende a pieno ciò che il regista voleva dire perché la conclusione sembra praticamente la chiusura di un cerchio e l’elaborazione di quanto avvenuto nel corso della vita della stessa persona.
Nessuno può sfuggire al proprio destino. Ed è questo che Wi Ding Ho cerca di dire allo spettatore ogni volta che, apparentemente, si chiude una storia. Le “sequenze” che vive il protagonista sono collegate tra loro non perché lo vedano partecipe o perché siano legate temporalmente, ma perché in ognuna sembra ripetersi, per certi aspetti, lo stesso iter.
Veronica Ranocchi
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