The woman
di, Lucky McKee
con: Pollyanna McIntosh, Angela Bettis, Sean Bridges, Lauren Ashley Carter, Zach Rand, Shyla Malhusen, Carlee Baker, Alexa Marcigliano
USA 2011
genere, horror
durata, 100’
You gotta strike when the moment is right without thinking
- Pink Floyd -
Se nessuno può sostenere restando serio che sessuofobia e misoginia siano sinonimi tipici, è altrettanto sensato - quand'anche curioso e stimolante - osservare come nella variegata e controversa galassia a stelle-e-strisce sovente tali termini, inopinatamente e con esiti a dir poco funesti, prendano a convergere fin quasi a sovrapporsi producendo, al tempo, una cesura ulteriore nella trama dei rapporti uomo/donna (già, di prassi, conflittuali) e gettando - ed è questo lo specifico del Grande Paese - bagliori sinistri su cosa sul serio si agiti nell’inconscio di una Nazione, a sottintendere, per altri versi, l’insopprimibile sua pulsione di morte.
Rovistare nelle contraddizioni del desiderio di un popolo tirato su nel culto della prestazione e a forza di diktat materialistici introiettati fino all’allucinazione cosciente; nell’ipnosi indotta dalla frequentazione coatta dell’idiozia arrogante del denaro; nella mai dissimulata pretesa di rappresentare il vertice dell’esperienza umana qualunque siano le implicazioni di tale aberrazione, mantenendo un qual ironico distacco grazie all’alternanza calibrata di registri che accostano e/o mescolano il nonsense all’horror, la ferocia esplicita alla suspense, il gore brutale a una sorta di trasognata quiete/tregua da sit-com, è ciò che si è incaricato di portare a termine un lavoro come questo “The Woman” di McKee, ricognizione non priva di un suo insinuante sadismo compiuta nell’organismo in apparenza immune della provincia wasp (ci troviamo a Great Falls, Mass.) attorno alle via via sempre più efferate vicende che coinvolgono la famiglia Cleek, nucleo diversamente ameno costituito da Chris/Bridges, il padre, funzionario del Tribunale locale; Elle/Bettis, la madre, remissiva e ansiosa esecutrice degli - pur nella forma garbati - inderogabili ordini del marito; Peggy/Ashley Carter, adolescente timorosa e inquieta, custode di un terribile segreto; Brian/Rand, il figlio minore, spesso assorto in una sconcertante imperturbabilità e la piccola Darlin’/Malhusen, a stilizzare l’ennesimo centellinato in versione rurale (di tenore emotivo comparabile ma di ben più carnale consistenza rispetto, ad esempio, all’”American fable” della Hamilton) di buona parte dei luoghi comuni sulla middle-class bianca, legalitaria e timorata di dio. Sulla tranquillità dolciastra di una consuetudine ritmata sui più triti ritornelli della sedicente armonia borghese - il lavoro, la scuola, la cura della prole, i doveri irriflessi del consumatore, le attività comunitarie di rappresentanza, et. - a cui solo la combattuta ma passiva Peggy oppone il mutismo e gli occhi bassi figli di uno stremato ribrezzo, ecco che allora si abbatte - è il caso di dirlo - l’Altro nella sua accezione più estrema e radicale, nonché antagonista, a dire la woman del titolo/McIntosh, residuale esemplare di giovane femmina brada - pelle lurida, dentatura scura e sbreccata, sguardo feroce e mugugno gutturale - catturata da Chris nei boschi dei dintorni come pegno alla propria virilità e memento alle striscianti insofferenze pur covate nel privato reame familiare. Nulla vieterebbe di pensare a un recupero tutto sommato caritatevole, sebbene da subito caratterizzato da una non comune curiosità morbosa, se Chris non avesse in mente un metodo tutto suo per riportare la ragazza agli splendori della vita associata e del progresso: “La civilizzeremo”, esordisce davanti a moglie e figli rapiti e turbati dinanzi a tanta diversità. “Dovete occuparvi di lei come fate con i cani”, conclude, poi, incatenando la preda nel ripostiglio interrato degli attrezzi. E da qui all’empietà - si capisce - il passo è breve, come pure le conseguenze da essa innescate.
Se così il nucleo pulsante della storia guarda, svaria e s’ingegna all’interno di quella peculiare regione dell’immaginario folkloristico appartenente alla variante dell’American gothic - ricordiamo che il testo su cui si basa il film di McKee, assieme all’altro diretto nel 2009 da Andrew van den Houten - “Offspring” - di cui dovrebbe rappresentare l’ideale prosecuzione in un disegno complessivo che prevede come esito una trilogia a partire da un gruppo di romanzi appartenenti alla cosiddetta Dead river series, scaturiscono dalla penna dello scomparso John Ketchum, scrittore abile, nel caso, a costruire meccanismi narrativi in cui l’istinto ancora indomito di una terra relativamente giovane (indi riottosa per definizione) si scontra con le pretese razionalizzatrici e omologanti della modernità - i modi della sua rappresentazione cercano il non semplice equilibrio tra le soluzioni agili, di presa immediata care al B-movie e di salda aderenza ai generi (l’horror/splatter, per dire), e considerazioni magari ridotte all’osso eppure non banali circa quello specifico tutto made in USA che accorpa in un unicum indivisibile e problematico il paesaggio (leggi: la wilderness, in particolare, la sua fauna), lo slancio di coercizione dell’animale umano nei suoi confronti e l’attrito pressoché sempre violento che da tale interazione scaturisce.
E ciò, si badi, indipendentemente dal milieu sociale dell’ipotetico protagonista: anzi, a ben vedere, persino con un surplus di crudeltà quanto più esso si presenta sotto le spoglie di soggetto evoluto e portatore di valori. Anche per tale ragione, lo stridore avvertibile tra l’ufficialità di un quotidiano stucchevole nel suo schematismo rockwelliano e la sciagurata turpitudine di un privato aterrimo (il rovello di Peggy è molto più di una comune ciclotimia ascrivibile all’età; cosa brulica nei recessi della rimessa adibita a canile ?), non può che farsi urlo sguaiato al momento di confliggere con una sensibilità considerata inferiore (alla donna selvaggia, e sin da subito, non viene riconosciuto lo status di interlocutore ma quello di giocattolo vivente su cui mano mano sperimentare le voglie più perverse, scaricare i rancori sempre e solo repressi, le ossessioni più segrete) in quanto ancora avvezza a misurarsi con le leggi impietose della sopravvivenza - sfida dirimente al contrario inibita o preclusa all’uomo contemporaneo da una routine anestetizzata dalle comodità e dagli svaghi o, come accennato, anacronisticamente trasfigurata in asettico trastullo venatorio - ossia animata da una resistenza smaniosa che in quella tensione fra opposti avverte solo il fetore della sopraffazione, predisponendosi nel frattempo all’occasione propizia per rimettere in moto la macina della Storia. Allo stesso modo risulta chiaro come una siffatta e irriducibile oltranza non possa prescindere per manifestare le sue pertinenti dissonanze dalla concretezza archetipica dei corpi chiamati a incarnarla, in specie quello della scozzese McIntosh, longilinea creatura estratta a forza (nella finzione) dallo stato di Natura, quindi fatta oggetto di ogni capriccio/mania, infine oltraggiata e profanata (la sequenza che la vede al centro di una pseudo purificazione attraverso l’esposizione insistita a un violentissimo getto d’acqua fornisce il metro di paragone delle vessazioni che le vengono riservate) eppure, alla fin fine, inespugnabile proprio in virtù della sua tempra primitiva immune da pastoie culturali, dalla galera senza sbarre dei rapporti ipocriti - per definizione, violenti - o da false consolazioni sovraterrene, unicamente votata, cioè, alla più sanguinaria delle revanche.
Che infatti non tarderà a compiersi allorquando Peggy, sopraffatta dagli orrori di un crescendo oramai senza freni, libera la bestia rara la quale, con audacia e proporzionata veemenza, provvederà a farne a pezzi gli interpreti ma soprattutto i presupposti concettuali, pratici e morali giungendo - dopo aver letteralmente divorato il cuore di quel sistema americano in vitro - a ridisegnare da par suo i confini del patto sociale secondo le linee guida di un solidale e inquietante matriarcato.
[Nota: Pollyanna McIntosh ha esordito alla regia con “Darlin’” - per ora inedito da noi - ampliando le vicende contenute in “The woman” a partire da quelle che vedono coinvolta l’ultimogenita dei Cleek, interpretata da Lauryn Canny]
TFK
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