regia di Harmony Korine
con Matthew McConaughey, Isla Fisher, Zac Efron, Snoop Dogg, Stefania LaVie Owen.
genere Commedia
USA, 2019
durata 95 minuti
Nulla esiste, tutto è permesso
- W.Burroughs -
Oltre la nausea è stato ripetuto che l’America è la terra delle opportunità. A guardar bene, però, già meno volte è stato ammesso che queste opportunità sono in gran parte fittizie o, perlomeno, molto ben vincolate a precisi presupposti, tanto stringenti quanto spesso discriminatori. Pressoché mai, infine, ci si è arresi all’evidenza - anzi, si è con lena lavorato affinché la predetta andasse a ingrassare il rimosso non tanto di una singola nazione ma di una Cultura intera, quella Occidentale - circa volontà scientemente votate allo scialo ironico-indifferente delle medesime, con tanti saluti alle contabilità che non tornano del pragmatismo imperante e alle di prammatica assortite rampogne moralistiche. Testimone, nel caso, di un lasciar andare per una volta divertito e noncurante, è questo Moondog di Korine affidato a un rilassatissimo e iper-conciliante McConaughey, poetastro cialtrone e sublime a zonzo nella primavera eterna di Key West, zazzera decolorata, sneakers e completi da filibustiere psichedelico. Nelle giornate che si affastellano come una sequela ininterrotta di drink contrappuntati da interludi a base di marijuana, il nostro intrattiene spettatori occasionali con letture di vecchie liriche risalenti forse a un periodo in cui l’illusione della poesia stava provando a divincolarsi da quella austerità e da quella compostezza che un’inscalfibile vulgata da sempre le attribuisce. A ruota di un più sentito trasporto, però, fa bisboccia con chi capita; seduce le bellezze a tiro; ritrova la bella e ricca ex Minnie/Fisher che, di fatto, gli foraggia la débauche epperò lo-ama-davvero “per il suo grande genio”. Quindi partecipa trafelato al matrimonio della figlia Heather/LaVie Owen; schiva la galera fingendo di accettare l’aut-aut della Giustizia che lo vuole confinato dentro un centro per il classico rehab, ogni frangente saltabeccando da una sbronza all’altra, da uno sballo all’altro, senza che nulla - un groppo sentimentale, drammatico o polemico - si frapponga mai davvero tra lui e la gentile, disarmante faccia di tolla con cui ha deciso di impostare la propria personale danza con l’esistenza. In altre parole, Moondog rallenta, ossia guadagna tempo in apparenza disperdendolo nei mille rivoli dell’autoindulgenza che la presunta razionalità dei tempi addita - figurarsi - quantomeno improduttivi. L’estrema, inutile fortuna è invece la magia di isolati istanti irripetibili nella reiterazione infantile, dadaista delle loro epifanie e dei loro pretesti, in un rilancio parossistico per sua natura caotico e asistematico che è, allo stesso tempo, irrituale slancio fideistico e promessa di autentica comunione, argine al silenzio complice che avvolge le cupe correnti di sconforto e rancore in piena agitazione appena sotto l’albàsia rassicurante della cosiddetta civilizzazione.
Ciò che intriga e sorprende di primo acchito in una così programmaticamente smaccata apoteosi della rinuncia, da sfiorare qua e là la parodia involontaria, è la torsione operata - questa, al contrario, intrapresa con una lucidità a cui non è estranea una qual morbida disperazione - sui cardini tematici stessi di un Cinema che dall’inizio del suo itinerario non ha escluso di ritrarre l’inerzia irresistibile che avrebbe condotto alla dissoluzione del Sistema Americano, con in testa il suo figlio prediletto, a dire il famoso/famigerato Sogno (in un contesto del genere, per dire, il celebre aforisma pronunciato da Burt Young in “C’era una volta in America “ diventerebbe in un amen: “Il sogno americano è più strano della merda. E’ una stronzata”). Se, infatti, un abbrivio come “Gummo” (1997) tratteggia già senza infingimenti il carico di desolazione e abbandono che preme dietro la facciata di un sinistro ottimismo - perché reiterato senza discernimento - ecco che le stazioni successive di questa primigenia e avvilente rivelazione - pensiamo, tra gli altri, a “Julien donkey-boy (1999), passando per “Trash humpers” (2009), fino all’ultimo “Spring breakers” (2013), e restando solo ai lungometraggi - lette con cognizione retrospettiva si vanno, per una sorta di tetra disciplina, a collocare a mo’ di grani di un tristissimo rosario di doglianze, rischiarate, quasi loro malgrado, da scampoli incongrui di un sarcasmo inebetito o dai sussulti minimi di una esangue dolcezza. Per dire che la sconclusionata epopea a suo modo picaresca di un personaggio come Moondog - sempre ilare e possibilista quanto mai forzatamente provocatorio o, peggio, piagnone - rappresenta sì, per taluni versi, l’avvenuta deflagrazione delle suggestioni interne al percorso koriniano ma, quasi ex abrupto, si piazza di traverso, con una sua ingenua scaltrezza, verrebbe da dire, comunque a riparo da ammicchi catastrofici e/o autodistruttivi. Scherza, ovvero e più che altro, sull’idea sul serio sovversiva - e forse ancora tutt’altro che peregrina - secondo la quale il metodo a minor grado di attrito per resistere a quella malattia mortale trasmessa per via sessuale che è la vita è abbandonarvisi nella prospettiva dell’accettazione incondizionata di reminiscenza camusiana, lenitivo, questo, che l’inconscio occidentale non ha trovato di meglio che seppellire tra le sue infinite lettere morte. D’altro canto, l’understatement e il taglio anti-retorico imposto al profilo psicologico di questo eroe-del-nostro-tempo sui generis (lo stesso mito frusto del talento aleggiante, qui, assieme al substrato culturale del protagonista, è retrocesso a espediente atto a giustificarne in superficie l’agire in simmetria diretta ma capovolta rispetto al deficiente semplice in servizio permanente effettivo, ossia a colui che è minus habens anche quando non è fatto 24 ore su 24), sostanzia la tentazione di collocarne la parabola più dalle parti dell’impertinenza naïf dell’omino chapliniano che, mettiamo, nei paraggi dello scetticismo arguto ma calcolato al millimetro del Dude della ditta Coen, per non parlare delle derive spesso artatamente efferate degli sbandati di Noé o del candore letargico dei coreografici vendicatori di Winding Refn. A dire che Moondog si caratterizza - ed è un dato passabilmente rivoluzionario allo stato dell’arte di questa nostra fine che non finisce mai di finire - per una singolare mitezza irresponsabile, per una genuina aderenza al mondo e alle cose nell’immediatezza non di rado inerme delle loro manifestazioni, il cui sapore nebulizzato caramella l’aria convogliandovi quella segreta dimensione della giovinezza in cui tutto sembra a portata di mano per il solo fatto di esistere. Egli, dunque, è prima di ogni altra cosa, un ragazzino che si è rifiutato di smettere di giocare (mutatis mutandis, un adulto che ha trovato il modo per continuare a farlo, tipo, per l’appunto, il piccolo-grande Charlot), privilegio che, per amore o per forza, i pari grado dei Coen, di Noé e di Winding Refn hanno smarrito trasformandosi, di volta in volta, in pigri sardonici, monadi violente e/o nichiliste. Non è un caso, allora, che a ogni obiezione, ai prevedibili intoppi che l’ininterrotta trama delle circostanze produce per mera contingenza statistica, si risponda sempre e solo con una ridarella strascicata presa pari pari da un cartone di Avery e non, come da protocollo, con un colpo di pistola, una martellata o un perplesso motto di spirito.
In parallelo - ma con una sua spicciola quanto gustosa strafottenza - la frustrazione assai satura che alligna da sempre nel gran circo dell’american way of life (ultimo rigurgito, in ordine di tempo, quello visto all’opera in ”American animals” di Layton) sublima a contatto con un Cinema che proprio con “The Beach Bum” prova a scrollarsi di dosso parte di congeniti e collaudati compiacimenti, giungendo a scoprirsi fluido e libero quel tanto da compiere un rimescolamento del proprio armamentario visuale entro cui persino le veniali sgrammaticature - scene non risolte, lievi incoerenze di montaggio, cul-de-sac narrativi, una certa frenesia circolare dei dialoghi - riflettono uno schietto anarchismo dissacratorio e placidamente beffardo, fatto della stessa pasta che tiene insieme un’odissea iperrealista marginale ma ben salda su sé stessa e, in subordine, la creatura che la anima, Candide stonato che nella tragedia gratuita del mondo scorge e recupera rari lacerti di allegria e trattenuto disincanto utili a disinnescarne gli intoccabili punti fermi - la rispettabilità, il successo, il denaro - coglionandoli.
TFK