domenica 24 giugno 2018

ANON

Anon
di, Andrew Niccol
con, Clive Owen, Amanda Seyfried, Colm Freore, Mark O’Brien
Germania, 2018
durata, 100’


La constatazione d’un mondo in rovina non è pratica complicata. Per dire: ai pigri basta assecondare vieppiù il proprio carattere e aspettare. I più curiosi e/o irrequieti, privilegiando intenzioni propedeutiche, per coglierne i prodromi possono magari farsi un giro per le vie d’una qualunque metropoli moderna, meglio ancora se con qualche grammo di malumore addosso… Osservando la traiettoria artistica e riflettendo in controluce sull’indole di un autore come Andrew Niccol è possibile cioè desumere - anche al di là di un assunto che resta ovviamente congetturale - l’applicazione con cui egli si sia, diciamo così e nel frattempo, portato-avanti-col-lavoro. Scenari eventuali dominati da elusive quanto severe élite scientifiche; uomini e donne compressi in un presente impregnato di solitudine al quale opporre l’esile istanza di memorie spesso labili e contraddittorie, se non addirittura artificiose; routine quotidiane, oggetti del desiderio concepiti come simulazioni allettanti di orizzonti nemmeno più perduti gravitano, infatti e più o meno da sempre, attorno al nucleo di un Cinema - presago, pessimista, eppure screziato da un suo scabro romanticismo - quale appunto quello del regista neozelandese, per sua essenza attratto dalle ambiguità e dalle incognite proprie d’un rapporto - generalizzando, quello tra Natura e Cultura - i cui interpreti, l’essere umano da un lato e dall’altro la sua capacità, oggigiorno sul punto di sfuggire (qualcuno dice: sfuggita da un pezzo) al controllo, di trasformazione tecnica del mondo, reiterano senza posa, in particolare senza accorgersi della palese insensatezza di una pratica del genere, oramai poco più che una conversazione tra ciechi e sordi.


Itinerario simile percorre il racconto di questo recente “Anon” (contrazione di anonymous) - produzione Netflix - collocato nel contesto urbano di una delle innumerevolirealtà a venire tante volte intraviste sugli schermi, a modo loro testimonianze sparse, queste, di prospettive in veloce stato di avanzamento e, al tempo, d’una sorta d’inesorabilità che sempre più somiglia a un destino sinistro, quantunque con perversa ostinazione perseguito. Tra architetture e interni retrofuturisti, abili manipolazioni d’un armamentario figurativo e spaziale (pensiamo, per dire, a soluzioni già ampiamente collaudate in film come “Equilibrium” o “Aeon flux”) che rimonta alle intuizioni avanguardistiche del primo ‘900, su strade ordinate e rettilinee che chiudono, intersecandosi, le linee di fuga d’un uniforme, elegante e arcigno grigiore, sfilano sparuti e silenziosi campioni di fattezze sapiens, mentre la potenza di un cyberspazio onnipervasivo (detto Etere), connesso direttamente all’organo visivo d’ogni singolo individuo, trasmette istante per istante a un sistema di catalogazione di metadati governativo qualunque aspetto della realtà, classificandolo e riclassificandolo in un infinito processo di accumulazione di eventi, esperienze, impressioni, ricordi… Al vertice (o nell’abisso, è un fatto di punti di vista) di una siffatta e radicale razionalizzazione parimenti emerge l’evidenza d’un’antinomia, tipico granello di sabbia dentro l’ingranaggio, spauracchio impertinente dei più sofisticati appetiti sulla manipolazione totale. “Se tutto è connesso, tutto è vulnerabile”, appunto ammonisce turbato durante una riunione il capo dell’Unità Investigativa/Feore chiamato a indagare su una serie di strani omicidi i quali, in beffardo spregio a una procedura in teoria inattaccabile (per certi aspetti concorde a quella sperimentata in “Minority report”), lasciano alle proprie spalle, per via di impercettibili cesure e modifiche operate sulla scansione originale degli avvenimenti, indizi inservibili o aperti a fin troppe interpretazioni. A dirigere le operazioni viene così posto il Detective di Prima Classe Sal Frieland/Owen, uomo schivo e tormentato da un dolore di cui si sente in prima persona responsabile. Metodico e distaccato, lo sbirro non impiegherà molto a stabilire una relazione diretta fra gli spinosi delitti e una figura femminile/Seyfried (indicata col nomignolo da lei adoperato per comunicare nell’Etere, l’Anon del titolo), incontrata per caso, la cui identità risulta (nonostante la super tecnologia ottica) sconosciuta all’intero apparato anche se, e a maggior ragione in questa circostanza, le apparenze ingannano.


Scostante e impassibile, nel primato di superfici levigate virate di preferenza alla neutralità istituzionale del grigio interrotto qua e là da porzioni geometriche di buio riconducibili al noir classico, come pure addolcite dal giallo pastoso diffuso in ambienti per contro troppo grandi per conservare a lungo l’impronta di emozioni e desideri che non siano la desolazione e un impotente rimpianto, “Anon” mostra il suo tratto più convincente nello sforzo di rendere palpabile quella esasperata indolenza dei gesti e degli sguardi, quello sfinimento tardivo figlio d’una catastrofe morale prima ancora che sociale avvenuta e consumata in una sostanziale apatia, che travalica anche il determinismo elementare del crimine (di fatto strumento accessorio d’un disegno che ne ha surclassato la spietata efficienza), per lambire il vuoto, per certi aspetti perfetto, praticato su psicologie (e, di conseguenza, su prassi) irretite/traumatizzate da un’unica ossessione, quella di vedere. A sua volta, poi, paradossalmente mal gestita proprio da chi ha fatto di tutto per impossessarsene - il Potere - a favore - ma questo è già più banale - della specifica anomalia (qui l’ambigua Anon, minuta incarnazione di certe eroine hitchcockian-depalmiane, di sottili doppiezze, di compiacimenti voyeuristici e di contro-strategie di sopravvivenza, più che paladina di chissà quale palingenesi collettiva) che, in rappresentanza di quell’umanità residuale di cui anche Frieland, dopo tutto, fa parte e in virtù d’una allenata imprevedibilità, arriva a ritorcergli quell’ossessione contro, sancendo che “l’unico modo d’esistere è non esistere” e che l’unica, vera libertà consiste nel non concedere alcuna prova visiva di sé all’altro, chiunque esso sia.

Più compatto dal punto di vista stilistico che narrativo (alcuni nessi logici restano oscuri, altri si danno per scontati: su altri ancora si glissa), l’opera di Niccol aggiunge comunque un ulteriore, poco consolatorio, tassello a quel quadro a tinte sempre più fosche che per disperata abitudine continuiamo a chiamare futuro.
TFK

0 commenti:

Posta un commento