Nosferatu – Il principe della notte
di Werner Herzog
con Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz
Germania, Francia, 1979
genere, horror
durata, 107’
La paura della solitudine.
Remake dell’omonima pellicola di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922, il Nosferatu di Werner Herzog, uscito nel 1979, presenta anch’esso le stigmate del capolavoro dell’opera originale, riuscendo contemporaneamente a rimanergli fedele, riproponendone tagli e inquadrature, e al tempo stesso a rivisitarlo dal punto di vista poetico, strutturale e artistico, portando a termine l’idea iniziale del regista di mostrare il legame che unisce il cosiddetto nuovo cinema tedesco, di cui egli fa parte, e il cinema espressionista del periodo della Repubblica di Weimar. Herzog realizza un film dai tratti onirici e allucinati, dai colori freddi ed eterei e dalle numerose citazioni pittoriche che trascinano lo spettatore in un viaggio in cui il confine tra realtà e sogno si fa sempre più sottile, così che a tratti la vicenda ci sembra essere frutto degli incubi di Lucy, come suggeriscono le immagini iniziali, o dei vaneggiamenti di Jonathan, fino ad assumere il punto di vista del conte Dracula.La storia ha uno sviluppo pressoché identico a quella del film di Murnau ma ne ribalta le prospettive. Il vampiro interpretato da Klaus Kinski, attore feticcio del regista, ispira così una forte empatia nello spettatore grazie ad una recitazione che, pur figlia degli insegnamenti di quella originale di Max Schreck, della quale vengono ripresi movimenti e posture, viene arricchita da Kinski con una nota fortemente drammatica e malinconica volta a sottolineare la solitudine del conte, lo strazio per la mancanza d’amore e i tormenti causati dall’incapacità di invecchiare e morire. Tale figura si va ad inserire nel novero dei personaggi, presenti nell’intera filmografia del cineasta, contraddistinti da una sorta di alterità a cui viene rivolto lo sguardo del regista proteso a scandagliare l’universo interiore di figure umane caratterizzate dalla diversità e dalla sofferenza, inserite in una comunità sociale che fatica ad accettarle e con le quali non riesce a comunicare.
Il tema dell’incomunicabilità in realtà si manifesta in lunghi tratti della vicenda, e non riguarda solamente il personaggio del conte Dracula, basti pensare infatti alla diffidenza con cui Jonathan Harker accoglie gli avvertimenti degli zingari del posto, volti a scongiurare il suo incontro con il vampiro, o i tentativi della moglie Lucy di spiegare come ci si trovi di fronte al male assoluto e di come questo sia la causa dei deliri di Jonathan. Lucy, che assume nella parte finale del film il ruolo di protagonista, non viene creduta nemmeno dal dottor Van Helsing che pensa che le sue angosce siano frutto di mere superstizioni, e nel suo vagare per le strade di Wismar, ormai in preda all’anarchia generata dalla peste, si ritrova anch’essa a vivere quella condizione di alterità, tipica del personaggio di Kinski, incapace di comprendere come sia possibile che essa sia l’unica persona preoccupata di una tale decadenza. Herzog fotografa l’intero film in maniera magistrale, ispirandosi all’arte romantica tedesca, in particolare ai quadri di Caspar David Friedrich, sia per l’utilizzo dei chiaro-scuri ma anche per la composizione di numerose inquadrature. Infatti osservando la passeggiata di fronte al mare di Jonathan e Lucy, ad esempio, è impossibile non notare la stretta somiglianza con il punto di vista e il cromatismo dell’opera Monaco in riva al mare (1810) ; lo stesso vale per le riprese degli splendidi paesaggi, le cui geometrie si rifanno al gusto estetico dell’arte di Friedrich capace di mostrare la natura in maniera idilliaca e malinconica, ma al tempo stesso minacciosa, e di farne uno dei soggetti principali senza mai utilizzarla come semplice sfondo. Per questo anche Herzog compone spesso le proprie scene in modo che il soggetto sia inquadrato di tergo mentre contempla la natura, secondo il Rückenfigur romantico.
Un’altra fonte di ispirazione è sicuramente l’arte fiamminga, soprattutto per quanto riguarda una delle sequenze più memorabili del film che vede la piazza di Wismar invasa dai topi mentre si consuma l’ultimo banchetto di una borghesia ormai prossima alla morte. Qui il cineasta sembra rifarsi alle opere di Pieter Bruegel come il Combattimento tra carnevale e quaresima (1559) o Il trionfo della morte (1566), sia per il gusto funereo e a tratti raccapricciante, che per l’analisi degli istinti primordiali, ma anche per lo splendido alternarsi tra un punto di vista dall’alto, volto ad inquadrare l’intera piazza, tipico del pittore fiammingo, e l’analisi dei singoli particolari dei macabri balli e dei banchetti in cui si immerge la macchina da presa seguendo gli spostamenti di Lucy incredula di fronte a tale dissoluzione, accompagnata splendidamente dal canto Zinzkaro georgiano. A creare ulteriormente l’atmosfera sognante, onirica e lisergica del film è sicuramente la colonna sonora affidata alla musica esoterica dei Popol Vuh, gruppo krautrock, già collaboratore di Herzog in Aguirre, furore di Dio (1972), ne L’enigma di Kaspar Hauser (1974) e successivamente in Fitzcarraldo (1982). I loro brani si integrano perfettamente con le immagini architettate dal regista, con quella natura affascinante e nemica dipinta nel film. Durante il viaggio verso la Transilvania il gruppo lascia spazio alla musica di Richard Wagner, in particolare al Preludio de L’oro del Reno, mentre nel finale, che vede Jonathan cavalcare ormai vampirizzato, possiamo sentire il Sanctus di Charles Gounod. In definitiva Herzog rilegge il Nosferatu di Murnau riuscendo a farlo suo, apparentemente senza stravolgerlo ma inserendo quei piccoli cambiamenti capaci di farne un’opera assolutamente originale, affascinante e drammatica che non smette mai di svelare, ad ogni visione, i suoi significati più nascosti rendendola semplicemente un capolavoro.
Andrea Ravasi