venerdì 24 dicembre 2021

DIABOLIK

martedì 14 dicembre 2021

ENCANTO

lunedì 29 novembre 2021

È STATA LA MANO DI DIO

mercoledì 3 novembre 2021

BELLE

lunedì 1 novembre 2021

ANNI DA CANE

MARILYN HA GLI OCCHI NERI

domenica 31 ottobre 2021

THE LAST DUEL

sabato 30 ottobre 2021

I'M YOUR MAN

A CHIARA

giovedì 28 ottobre 2021

mercoledì 27 ottobre 2021

YUNI

UNA PELICULA SOBRE PAREJAS

lunedì 25 ottobre 2021

ANIMA BELLA

domenica 24 ottobre 2021

La foto della settimana

 

 Suzanna Son/Strawberry in Red Rocket di Sean Baker (USA, 2021)

Invisibili: Dene Wos Guet Geit

Dene wos guet geit


di: Cyril Schäublin

con: Sarah Stauffer, Fidel Morf, Nikolai Bosshardt, Liliane Amaut, Daniel Bachmann

- Svi 2017 -

70’



Aspettati veleno dalle acque immobili

— W.Blake —


Capita talvolta, e per nessuna particolare ragione, di essere portati ad assecondare lo strisciante sgomento che accompagna - tipo basso continuo - lo svolgersi dei nostri giorni frenetici e immemori. E ciò magari anche perché quella lata deficienza di senso che da essi traspare, quella subdola impressione di generica inconsistenza divenuta nei decenni così familiare - a dire la rivelazione della di lei consustanzialità al modo di vivere moderno - sembra per beffardo contrasto essere paragonabile solo alla sicumera con cui essa per contro reitera gli stranoti ritornelli a base di affermazione e appagamento.

Siffatto sentore sovente precede e segue lo svolgersi delle scabre vicende contenute in un’opera come “Dene wos guet geit” (pure titolare di una intestazione anglosassone, complice la maggiore fruibilità della medesima, ossia “Those who are fine”), di Cybil Schäublin, ambientata nella Zurigo contemporanea e centrata, a mo’ di non esplicita epitome, sui comportamenti di Alice/Stauffer, giovane addetta di un call center incaricata, secondo protocollo, di magnificare le virtù di una compagnia assicuratrice in campo sanitario, invero molto più interessata a carpire dati utili (pare che in Svizzera, e per via telefonica, un sostanziale sconosciuto possa chiedere al suo interlocutore anche l’ammontare del conto corrente bancario…) a confezionare successivamente, a danno di una clientela scremata di preferenza sul profilo di anziani abbienti-e-soli, sostanziose truffe consistenti per lo più nel collaudato schema in base al quale fingersi in prima battuta parenti in difficoltà economiche per contingenze impreviste e spacciarsi poi, al momento della consegna del denaro, per amici stretti del suddetto congiunto, guarda caso sempre impossibilitato a presentarsi di persona. La citata prassi si alterna narrativamente ai concomitanti controlli preventivi operati per le vie della città dalle forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa, causa un non meglio specificato allarme-bomba.


Messa così, ovvero per sommi capi, parrebbe di essersi imbattuti nell’ennesimo intreccio complottistico con addentellati criminali. Al contrario, l’autrice spoglia, da subito e senza reticenze, la progressione drammatica - e, di conseguenza, torce l’impostazione espressiva - di ogni residualità ascrivibile al genere e si orienta verso la costruzione di inquadrature protratte e quasi statiche, di una qual sinistra soavità (giocate come sono sulla finta arrendevolezza di talune tinte pastello: i grigi tenui, i bruni spansi, i chiari opachi; sulle geometrie essenziali quanto fredde delle architetture; sulla funzionalità accessibile ma scostante degli arredamenti), preferibilmente caratterizzate da un punto di vista che sbircia dall’alto verso il basso, paziente, impassibile, un che di furtivo, tipo l’occhio di un entomologo su un terrario. Ne scaturisce una significativa riduzione - o, volendo, il parziale annullamento - ad esempio del peso semantico dei già scarni dialoghi, con metodo circoscritto alla linearità anodina di un pacato intercalare quotidiano o alla fraseologia asettica dei ruoli e delle finalità spicciole, secondo i tempi e i ritmi delle transazioni bagatellarie e materiali. Allo stesso tempo e in curiosa discordanza, le immagini si snodano con una sorta di impalpabile sbadataggine intimamente affine alla resa, come a suggerire la perfetta intercambiabilità degli istanti consumati da una realtà sempre uguale a sé stessa, capace cioè solo di riproporsi trascinandosi assorta entro le inerzie irresistibili di una enigmatica coalescenza: sottotraccia, sottopelle, indifferente, nella razionalità sfinita della logica costi-benefici a sua volta tenuta in circolo a temperatura costante dalla placenta mistico-allucinatoria del Denaro, che tutto sovrintende, preordina e giustifica. Alice, per l’appunto, si appropria dei risparmi di persone in evidente stato di minorità senza la minima remora ma pure senza palese, perverso compiacimento; le banche - qui, la potente UBS - regolano e controllano in levigata souplesse i flussi di risorse che alimentano il meccanismo mondiale della domanda e dell’offerta. Parimenti, le aziende di servizi telefonici contribuiscono allo spaccio capillare della immensa mole di merci di cui nessuno sente il bisogno eppure di cui nessuno riesce a fare a meno; l’Autorità - nel caso, la Polizia - vigila sull’ordine pubblico e ribadisce la legittimità apparente del cosiddetto Sistema ciarlando imperterrita, tra una verifica di routine e l’altra, di film d’azione passati in tv di recente, come della giungla tariffaria che avvolge in un viluppo inestricabile l’accesso alla Rete e al sottomondo dei cellulari. L’insieme, impietoso e concorde, rassegnato nell’apatia soporifera di una catastrofe (psicologica, morale, sociale: a quando quella ambientale ?) già avvenuta, con i pochi che se ne sono accorti a languire nell’emarginazione e nel dileggio, mentre si profila, sempre più netta e desolante, tra una blanda esitazione e un silenzio prolungato, l’impossibilità persino teorica di una alternativa, di un modo di vivere diverso da quello che, con la complicità di ognuno di noi, via via ha assunto le fattezze falsamente amichevoli di un destino, il destino di quelli che stanno bene.

TFK

PASSING

venerdì 22 ottobre 2021

ONE SECOND

mercoledì 20 ottobre 2021

MOTHERING SUNDAY

sabato 25 settembre 2021

A proposito de Il buco di Michelangelo Frammartino

Il buco

di Michelangelo Frammartino

genere, documentario

Italia, Germania, Francia, 2021

durata, 93


Sottoposto a continue sollecitazioni il cinema contemporaneo sembra aver dimenticato l’importanza e i significati relativi alla scelta del punto in cui collocare la macchina da presa. Il buco di Michelangelo Frammartino c’è lo ricorda a partire dalla sequenza iniziale, quella ripresa nel poster del film: guardare il mondo che sta per nascere dall’interno della grotta e non viceversa fa tutta la differenza del mondo. Posizionare la mdp nello spazio recondito anziché in superficie per iniziare a raccontare la storia della misteriosa spedizione di un gruppo di speleologi nel sud d’Italia ci dice che quello che stiamo per vedere è un punto di vista interno a quei luoghi, come se a raccontarli non fosse un testimone arbitrario ma un vero e proprio Genius Loci. Un particolare, questo, che crea uno scarto nella lettura del film e nella coerenza delle sue immagini.

Carlo Cerofolini

IL SILENZIO GRANDE

venerdì 24 settembre 2021

ANCORA PIU' BELLO

SUPERNOVA

giovedì 23 settembre 2021

A proposito di Titane di Julia Ducornau.

Titane

di Julia Ducornau

con Agathe Rousselle, Vincent Lindon

Francia, 2021

genere, drammatico, horror, fantascienza

durata, 108'


Nella prima sequenza del suo film Julia Ducourneau stabilisce un rapporto doppio e opposto. Quello interno, viscerale e nascosto di Alexia con gli “organi caldi” del motore dell’auto su cui sta viaggiando assieme al padre. E poi l’altro, superficiale, divisorio e privo di calore, del genitore rispetto alla figlia seduta dietro di lui. Interrotto prima del suo farsi il senso della scena si inserisce in Titane come una sorta di coito interrotto. Una mancanza di sfogo a cui Julia Ducournau darà compimento agognando un unione dei corpi prima fisica e poi spirituale. In questo senso Titane è un film di superficie/i - anche dal punto di vista visuale -, in cui gli istinti vengono prima di ogni ragione.

Carlo Cerofolini

mercoledì 22 settembre 2021

DUNE (2021)

martedì 21 settembre 2021

Margherita Buy e il connubio con Nanni Moretti, regista di Tre piani

Partecipando a quattro dei 13 film diretti da Nanni Moretti Margherita Buy ne è diventata attrice feticcio, figura emblematica del disagio esistenziale raccontato dal regista romano. Pù che un alterego la Buy è una sorella maggiore, unica, tra tanti, in grado di intercettarne le nevrosi e contenerne le esuberanze. A differenza di Laura Morante, compagna di gioventù e specchio di un mondo già allora al di fuori di qualsiasi portata. Carlo Cerofolini


domenica 12 settembre 2021

QUI RIDO IO

domenica 5 settembre 2021

IL COLLEZIONISTA DI CARTE

lunedì 30 agosto 2021

martedì 24 agosto 2021

FREE GUY - EROE PER GIOCO

sabato 21 agosto 2021

BECKETT

mercoledì 18 agosto 2021

Invisibili: Tilt

 Tilt

di, Kasra Farahani

con. Joseph Cross, Jessy Hodges, Elijah Collins, Billy Khoury, Christian Calloway, Kyle Koromaldi

USA 2017 

durata, 100’





I’ve been thinking for days

about the means and the ways

— Filastrocca —



Dal momento che, da inguaribili dissipatori, siamo abituati a largheggiare, non ci scompone più di tanto annoverare il complottismo sì tra le masturbazioni travagliate - a dire tanto laboriose quanto insoddisfacenti - tenendo però presente, a mo’ di spasmo non del tutto velleitario, uno dei suoi ingredienti nobili (non foss’altro perché foriero di implicazioni ulteriori, talvolta in grado di mettere in luce aspetti ambigui della quotidianità altrimenti sottovalutati o destinati alla dispersione), nel caso di questo “Tilt” di Farahani ricondotto agli albori delle sue sfaccettate epifanie, a dire l’ossessione qualche passo prima che l’intero processo si adagi nel vicolo cieco della paranoia. Condizione che, via via e plausibilmente, si impossessa del in fondo mite Joseph T. Burns/Cross - detto Joe - appartato filmaker dei sobborghi losangelini il quale, come spesso accade, dopo un documentario passato persino per qualche festival [avente come tema la curiosa parabola percorsa dal gioco del flipper/(pinball, in orig.) negli USA a cavallo degli anni Quaranta (pare che una corte fosse giunta a riconoscere per il popolare passatempo, salvo essere poi smentita grazie a una spettacolare dimostrazione pratica, una natura assimilabile a quella del gioco d’azzardo)], stenta a completare l’opera seconda, stavolta centrata sulla tesi per cui il capitalismo - solo metonimicamente - americano, a partire dalla sua cosiddetta Golden Age, corrispondente al periodo successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale, si sia sempre più caratterizzato per una ineguale redistribuzione della ricchezza al cui confronto i correttivi proposti allo scopo di contenerne gli eccessi hanno finito per rivelarsi, più che altro, artifici retorici, strumenti di una propaganda allo stesso tempo pervasiva e ingannevole. Apprensivo e scettico rispetto alla forma che il mondo ha assunto intorno a lui e di cui, invero sconcertato, contempla l’imperturbabile assurdità di talune sue casuali manifestazioni (un fastidioso fetore si spande per casa fino a portare alla luce, nell’intercapedine tra il pavimento e il terreno, il cadavere di un topo in avanzato stato di decomposizione; le piante del suo piccolo giardino, nonostante le assidue cure, hanno l’aria di rifiutarsi di crescere; si ritrova addebitato un servizio telefonico dall’onere del quale non riesce a districarsi, et.), quanto caparbio e assorbito dalla elaborazione delle proprie, assai critiche, contro-deduzioni, quella che per Joe avrebbe dovuto essere, in fondo, niente altro che un’altra tappa sul tragitto di una carriera ancora tutta da costruire, uno slittamento cognitivo dopo l’altro prende ad assumere i connotati di una vera e propria missione intellettuale atta al riconoscimento unanime di quella leggendaria verità-di-fondo ogni volta negletta o fraintesa dalla sedicente realtà (leggi: strumentalizzata dal cosiddetto sistema) e di cui egli si sente, al tempo, depositario e araldo.



Ciò non bastasse a radicare lo smarrimento e a seminare i grani di una angosciosa instabilità nell’intrinseco puntilismo di un evento esistenziale isolato, di per sé consegnato all’anonima irrilevanza della ordinarietà contemporanea, si deve aggiungere, da un lato, la figura di Janet/Hodges, giovane compagna, infermiera in dolce attesa, ragazza premurosa ma non esente da quell’estro tipicamente femminile con naturalezza incline a coniugare capacità di ascolto e scaltro pragmatismo in un ibrido tanto compassionevole quanto ambiguo; dall’altro, il ricorrente riaffacciarsi alla memoria del nome di un tal Chusuke Hasegawa, tizio che Joe non riesce a collocare con esattezza tra i ricordi ma che per qualche ragione non gli suona estraneo e le cui tracce prova a ricostruire in Rete, scoprendone infine il decesso in circostanze misteriose - e nei panni autentici, secondo varie agenzie di stampa, di un turista giapponese - sul suolo hawaiano tempo prima meta, per lui e Janet, di una breve vacanza. Sotto la facciata dell’equilibrio e della perseveranza, sempre meno convinto della in apparenza placida plausibilità di ciò che costituisce l’impasto dei giorni, Joe, anche per via della impasse creativa in cui versa il nuovo lavoro (ancora allo stadio di coacervo di immagini - spezzoni di spettacoli, film, notiziari, pubblicità sottratti all’oblio dalla memoria storica degli anni ’50 - in cui la allusiva intenzionalità retrospettiva porta a confondere più che a chiarificare, a volte irrita più che persuadere), che dovrebbe sia imporlo all’attenzione di un pubblico più vasto che riscattarlo dallo strisciante sentimento di paziente degnazione riservatogli da parenti e amici, prende quindi ad avventurarsi in lunghe passeggiate notturne durante le quali trova il modo di acquistare allucinogeni, spaventare un povero cristo impegnato in una sessione di bricolage fuori orario, insolentire una ragazza sul piazzale di un mini-market, farsi pestare da tre tiratardi, fissare con insistenza equivoca la sagoma di un senzatetto addormentato sul selciato.



La frustrazione subdola, pedestre, finto svagata, che si mescola come una riga di melma al corso già torbido delle nostre vite dal canto loro ridisegnate dalle correnti di un tardo modernismo tanto impetuoso nelle sue rappresentazioni, quanto, oramai, quasi astratto, metafisico nella attendibilità logica dei suoi presupposti, non di rado briga allo scopo di indirizzarne l’inerzia verso una abulia rassegnata o - vedi il presente caso - presso i territori desolati di una sorta di inquietudine feroce dagli accessi imprevedibili. Farahani, registrando il percorso in discesa dell’ennesimo uomo qualunque di fronte alla vacua accessibilità delle cose, alla loro forzata allegria o per contro alla loro enfatica drammatizzazione (qui è l’avvento dell’era Trump, subìto da Joe con ribrezzo e metabolizzato dai suoi conoscenti in un alternarsi di indifferenza annoiata e sarcastico distacco), alla stracca scipitezza con cui oggi, di base, si prestano alla menzogna e alle divagazioni aleatorie come se niente fosse, come se, tutto sommato, a nessuno importasse davvero più di nulla, insinua, - in modo lineare quand'anche arguto (il daily grind di Joe si snoda secondo i ritmi e le occorrenze di un meccanismo invisibile ma inderogabile a cui, ecco il paradosso nutriente dell’ossessione ricordato all’inizio, solo il progressivo sbriciolarsi delle consuetudini offre quantomeno la possibilità di un punto di vista laterale, benché anticipatore del disastro), al limite di una soavità intellettuale che non esclude la consapevolezza di una resipiscenza tardiva, con ogni probabilità immeritata e sempre più sorella gemella dell’impotenza - l’avvenuto distacco dell’elemento umano dalle proiezioni che egli stesso ha modellato su ciò che lo circonda al fine di circoscrivere profittevolmente i limiti del proprio agire. Del resto - e occorre ribadirlo soprattutto perché è Joe in persona che attorno a esso inanella una serie di sempre più sconsolati ragionamenti - il Capitalismo, nella sua essenza, è sul serio un’allucinazione - chissà: forse anche una patologia del linguaggio, oltreché un deragliamento della psiche - visto che il suo unico scopo, la sua ragion d’essere, tetragona e insindacabile, ossia il conseguimento a qualunque costo della infinite volte citata crescita (e del relativo profitto) a fronte di un contesto limitato quale quello in cui ci è dato vivere, sta lì a dimostrarlo. Modi e maniere per uscirne, quindi, non contemplando un sovvertimento radicale, sembrano in tal senso rientrare ancora in un armamentario desueto o inefficace, per non dire disperato e fuorviante, in specie se si riflette sul fatto che gran parte di quegli strumenti la abbiamo, senza nemmeno troppe afflizioni, barattata con (l’idea) del denaro, con gli oggetti e l’intrattenimento.

TFK

martedì 10 agosto 2021

FIRST COW


di Kelly Reichardt
con John Magaro, Orion Lee, Toby Jones, Ewan Bremmer
USA, 2020
genere, drammatico
durata, 121




Chiamato a legittimare la propria investitura, era chiaro prima di altri a Carlo Chatrian che la partita si sarebbe giocata soprattutto sulle scelte dei film selezionati per il concorso ufficiale, quello dal quale uscirà il vincitore della 70 edizione del Festival di Berlino.

In questo senso, la scelta di Kelly Reichardt e del suo First Cow è di quelle destinate a fare letteratura, tanta è la distanza da quelle fatte a suo tempo da Cannes e Venezia per quanto riguarda le produzioni americane. Rispetto a Del Toro e Todd Philipps, solo per fare i nomi di due degli esponenti più rappresentativi del nuovo corso imposto da Barbera, la Reichardt è autrice di segno opposto, a cominciare dalla determinazione con cui rinuncia alla spettacolarizzazione del proprio lavoro.

Abituata a lavorare con budget microscopici e in maniera indipendente, l’autrice di Meek’s Cutoff e Night Moves fa di necessità virtù, allestendo un cinema povero di mezzi ma ricco di contenuti.

Dunque, è sbagliato pensare al lavoro della Reichardt in termini riduttivi, perché quelli della regista americana a suo modo possono essere considerati dei veri e propri kolossal, se è vero che ad andare in scena è l’anima degli esseri umani riprodotta all’ennesima potenza dall’attenzione fenomenologica e dal minimalismo narrativo con cui la cineasta statunitense si rivolge alla vite dei suoi personaggi.

Pertanto, è il fatto di fare “pietra d’angolo” di ciò che di solito rimane fuori campo a fare la differenza: in First Cow, infatti, più che la storia, come sempre minimale e qui incentrata sulle avventure di due picari decisi a costruire la propria fortuna (e non solo quella) rubando il latte (dalla mucca del titolo) necessario a produrre gustosi dolcetti, a essere peculiare è la meticolosità dell’indagine volta a catturare i gesti e le espressioni, così come i corpi e i volti dei personaggi; soprattutto quelli del taciturno ma solidale pasticcere Cookie Figowitz, che attraversa il west in cerca di fortuna insieme a King Lu, immigrato cinese a cui si offre prima come benefattore e poi come amico.

Ed è proprio sul personaggio del vagabondo puro e sincero che First Cow costruisce la sua fortuna, consegnandoci il ritratto indimenticabile di un loser che la Reinhardt sembra ricalcare sull’immaginario del coevo  (visto che la storia del film si svolge nell’Oregon dei primi del ‘900) Charlie Chaplin, al quale Cookie (un grande John Magaro) “ruba” non solo il romitaggio e un’esistenza fatta di espedienti necessari a sopravvivere, ma anche una compassione capace di imporsi sulla crudeltà del mondo.

Una rimembranza, questa, sufficiente a ripagare il prezzo del biglietto, se non fosse che First Cow approfitta della sua collocazione temporale per realizzare un western anomalo, i cui stilemi e archetipi, propri del genere in questione, diventano lo specchio della società contemporanea, con indiani, afroamericani e cinesi pronti a replicare il melting pot culturale e le dinamiche del capitalismo in corso nella nostra società.

Se il paragone non è nuovo, a contare è il modo in cui la Reichardt riesce a formularlo, procedendo con entomologa precisione a isolare i personaggi all’interno del proprio ambiente per poi osservarli con una macchina da presa che funziona come una lente di ingrandimento, grazie anche alla scelta di girare in pellicola e con il formato 4:3, preferito a quello normale.

Riducendo i movimenti di macchina al minimo indispensabile e mettendosi in ascolto dei protagonisti senza perdere niente della loro vita minuta, l’autrice riempie il film di stasi e di silenzi altresì rivelatori del trascendentale rappresentato dal pensiero del film (e della regista), pronto a riflettere sul destino delle cose e degli uomini.

Con il suo film Kelly Richardt entra di diritto tra le candidate alla vittoria finale.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)


'Rehana Maryam Noor'

'Rehana Maryam Noor' 

Abdullah Mohammad Saad

con Kazi Sami Hassan, Afia Jahin Jaima, Azmeri Haque Badhon

genere, drammatico

Bangladesh, Singapore, Qatar 

durata, 107’



Presentato fuori concorso a Cannes 74 nella sezione Un Certain Regard. Capita sempre così, ovvero che nei grandi festival internazionali le sorprese non riguardano il concorso principale, di solito riservato ai nomi appartenenti al gotha internazionale (in quello di quest’anno i pronostici sono a favore di Nanni Moretti e di altre vecchie conoscenze), bensì le cosiddette sezioni collaterali, quelle che costituiscono il trampolino di lancio per giovani virgulti. E’  il caso di Abdullah Mohammad Saad, autore del Bangladesh, issatosi fin qui grazie a un primo film, "Live from Dhaka", carico di premi e di stima ottenuti in festival rigorosi come Rotterdam e Locarno. "Rehana" sembra essere figlio di quelle esperienze, non facendo nulla per apparire diverso da quello che è, ovvero un film in cerca di fortuna presso spettatori cinefili  aperti a storie provenienti da altre culture, di cui il film del regista si fa portavoce in maniera critica e conflittuale.


Prendendo il nome dalla determinata protagonista, "Rehana" racconta la vertigine emotiva di una giovane assistente universitaria, coinvolta in un vortice di avvenimenti che a un certo punto la mettono nella condizione di dover decidere del futuro delle persone che le sono più vicine, nel lavoro e nella propria famiglia. Convinta a non arrendersi alla posizione minoritaria occupata dalla donna nella società del suo paese, Rehana si ribella allo status quo trovandosi però davanti a questioni etiche che ne mettono in forse i principi della sua azione.



Come si capisce dalla trama "Rehana" ha tutto per figurare come un film di denuncia, di quelli che a queste latitudini sono destinati a conquistare la critica desiderosa - non a torto - di spendersi per una giusta causa come quella raccontata dal film. Sola contro tutti e in una condizione come quella femminile che ne mette in discussione per principio la giustezza del suo fare, Rehana appare fin da subito una figura eroica, disposta com’è a battersi contro una realtà più grande di lei. Personaggio fuori dal comune che il regista pedina all’interno nel suo ambiente, alimentando una tensione scatenata dalla contrapposizione tra le certezze della protagonista e la reticenza dei suoi interlocutori; quest'ultima presente anche tra le fila di coloro (la studentessa concupita dal professore, la figlioletta accusata di aver picchiato un compagno di scuola) di cui la donna prende le difese.


Ed è proprio il clima di incertezza in cui si muove la storia a fare la differenza, con i fatti non supportati da una visione oggettiva, ma presentati allo spettatore in maniera indiretta, attraverso il racconto dei presunti testimoni. Senza venire meno alla realtà dei fatti e ai motivi della sua istanza, "Rehana" con il passare dei minuti si scrolla di dosso l’etichetta del film politicamente corretto, arrivando a cambiare pelle in una maniera che dal punto di vista cinematografico ricorda il cinema di Asgard Farhadi (peraltro presente a Cannes nel concorso principale con "Un Heros"). Come quello, infatti, "Rehanna" ha la capacità di operare scarti psicologici impercettibili che nella loro totalità sono però in grado di diminuire la distanza tra le parti, avvicinandosi alla vita vera perché come in quella è difficile essere sempre al di sopra delle parti. Come capita a Rehana, di cui a un certo punto è difficile capire dove finisce il senso di giustizia e dove invece incomincia lo sfogo delle proprie ossessioni personali. In quest’ottica "Rehana" mette in secondo piano le sollecitazioni progressiste per diventare il lucido referto della condizione umana e delle sue contraddizioni. Così facendo il regista imprigiona i caratteri in una sorta di laboratorio comportamentale, simile a un limbo esistenziale in cui il confronto tra forze opposte e il pathos che ne deriva sono raggelati dalla geometrica linearità delle inquadrature, oggettivate dalla presenza di una fotografia monocromatica la cui patina sembra voler materializzare il velo di ipocrisia che impedisce a chi guarda di conoscere fino in fondo le persone e il loro animo. Ad Abdullah Mohammad Saad il plauso di essere riuscito a raccontare una figura femminile capace di dialogare con il cinema del dopo #METOO con una complessità che è il contrario della retorica insita in molta narrativa contemporanea. 

Carlo Cerofolini

(pubblicato su ondacinema.it)


Frammenti di visione: a proposito di 'Lamb'

 Lamb

di, Ross Partridge

con Ross Partridge, Oona Laurence, Tom Bower, Jess Weixler, Scott McNairy, Lindsay Pulsipher

- USA 2015 -

97’




Little Lamb who made thee?

Dost thou know who made thee

gave thee life, and bid thee feed

by the stream and o'er the mead

— W. Blake —


 



Quando due solitudini si dedicano al funambolismo sullo stesso filo blu, accade che l’equilibrio – già di per sé precario – diventi una faccenda quasi aleatoria, a meno che non ci si trovi di fronte al miracolo del bilanciamento reciproco.  Sembrerebbe questo il caso dei due protagonisti di “Lamb”: un uomo di mezz’età mandato in frantumi dal matrimonio fallito e dalla morte del padre, da una parte; una ragazzina – circa undici anni – fin troppo sveglia ma vittima della disattenzione di una normalissima famiglia disfunzionale, dall’altra.


In questo contesto l’incontro iper-casuale tra i due non è semplicemente il motore dell’azione dal punto di vista drammaturgico ma soprattutto una necessità naturale, ovvero l’ennesimo tentativo di non morire. Non è un caso che la conseguenza più o meno diretta di questa strana combinazione di esseri umani sia un viaggio con cui ci si lascia alle spalle le vite fagocitate dall’orrore urbano per dirigersi verso campi dorati e montagne rocciose. Anche se a onor del vero ci si poteva spremere di più per tirare fuori dal comparto visivo delle immagini se non più suggestive almeno più aderenti al profilo – ognuno a proprio modo – misterioso dei personaggi, dal punto di vista del rapporto schermo-voyeur l’opera mantiene un livello di ambiguità tale da creare in chi guarda l’idea di una possibile degenerazione del rapporto – mi si perdoni l’autoconcessione di utilizzare questo inciso per una battuta, ma qui è proprio il caso di dire che la pedofilia è negli occhi di chi guarda – mantenendo dunque uno stato d’angoscia sottile e duraturo lungo l’intera visione.


L’epilogo più normale possibile è dunque laconico e conferma, come se ce ne fosse ancora bisogno, che se non si può separare la tristezza dal cuore si può perlomeno lanciare il cuore nel vuoto.

Antonio Romagnoli 

lunedì 26 luglio 2021

ESTATE '85

domenica 25 luglio 2021

A CLASSIC HORROR STORY

lunedì 5 luglio 2021

IL CATTIVO POETA

sabato 19 giugno 2021

CRUELLA

sabato 29 maggio 2021

giovedì 27 maggio 2021

UN ALTRO GIRO

lunedì 10 maggio 2021

MINARI

martedì 4 maggio 2021

Le notti bianche del cinema

 

ALICE NELLA CITTÀ INSIEME AD ANEC, ANICA, U.N.I.T.A.
PREMI DAVID DI DONATELLO E 100 AUTORI
ANNUNCIANO
LE NOTTI BIANCHE DEL CINEMA
48 ORE DI PROIEZIONI NON-STOP, ANTEPRIME, INCONTRI ED EVENTI SPECIALI PER UN
GRANDE EVENTO DI MEZZA ESTATE
DA MILANO A PALERMO, DA TORINO A ROMA, DA BOLOGNA A  BARI
CON LA PARTECIPAZIONE DI
ESERCENTI, DISTRIBUTORI, REGISTI, ARTISTI E SCENEGGIATORI, GIORNALISTI, CRITICI E
CURATORI DI FESTIVAL TUTTI UNITI PER LA RIPARTENZA

 #soloalcinema



Alice nella città
si fa promotrice, insieme alle associazioni di categoria Anica e Anec, agli artisti di U.N.I.T.A., ai 100autori e alla Fondazione Accademia del Cinema Italiano - Premi David di Donatello, di un evento che rappresenterà un momento fondamentale nel nuovo piano nazionale di riapertura delle sale cinematografiche #soloalcinema: le Notti Bianche del Cinema. Un grande appuntamento culturale, pensato per essere replicato durante l’anno e per trasferire al pubblico la magia e l’atmosfera unica della sala.

Si tratta di una vera e propria “festa” di mezza estate che da Milano a Palermo, da Torino a Roma, da Bologna a Napoli da Livorno a Bari , animerà le sale italiane con una 48 ore di proiezioni non-stop per recuperare il tempo perso con una programmazione composta da  anteprime, incontri, omaggi  ed eventi speciali, con un unico biglietto agevolato e che coinvolgerà tutte le professionalità del settore: esercenti, distributori, registi, artisti, sceneggiatori, giornalisti, critici e curatori di festival uniti per la ripartenza.


I cinema di tutte le città coinvolte saranno parte integrante di un programma condiviso e connesso. Il concept delle notti bianche prevederà: 48 ore di cinema no-stop; un biglietto d’ingresso unico agevolato; un pass/accredito da acquistare per accedere a tutte le sale delle Notti Bianche e costruirsi un percorso dedicato; un’unica campagna di comunicazione nazionale che raccoglierà il programma con di tutti gli eventi.

Esercenti, associazioni, scuole di cinema, cineteche e festival contribuiranno a far vivere, diffondere e amplificare non solo le nuove uscite, ma con forme inedite, anche eventi e proiezioni speciali organizzati e promossi direttamente sul territorio e in linea con l'identità di ciascuna realtà locale.

Tra questi una serie di incontri e presentazioni ideate e organizzate in collaborazione con i 100 autori nelle diverse città e che ha tra i primi confermati Giorgio Diritti, Susanna Nicchiarelli, Edoardo De Angelis, Francesco Bruni, Davide Ferrario, Gianfranco Cabiddu, Stefano Rulli e Sandro Petraglia.


Il programma completo di Notti Bianche del Cinema e la campagna #soloalcinema verranno presentati nel corso di una conferenza stampa prevista il prossimo 25 maggio.

L'apparenza delle cose

L'apparenza delle cose

di  Shari Springer Bergman e Robert Pulcini

con Amanda Seyfried, James Norton

USA 2021

genere, thriller, orrore

durata, 121


Ad attirarci de L’apparenza delle cose era stata innanzitutto la presenza in cabina di regia della coppia formata da Shari Springer Bergman e Robert Pulcini, già autori di quell’ American Splendor che, prendendo in parola anticonformismo del suo protagonista, il fumettista Harvey Pekar, erano riusciti a realizzare  un biopic fuori dagli schemi

Diventati registi di genere e di consumo, Bergman e Pulcini tentano di fare la cosa più difficile, e cioè di conferire uno sguardo personale a una storia di fantasmi che punta a conquistare il grande pubblico attraverso la capillare distribuzione del mecenate Netflix.Forti di un’interprete brava e popolare come Amanda Seyfried, appena riscoperta e nominata con Mank, i registi si avvicinano al genere assecondandone canoni e dinamiche, lavorando a un sottotesto che ripropone schemi e situazioni di prevaricazione maschile (#METOO docet) in cui violenze e vessazioni hanno poco di metafisico e riguardano più che altro la realtà dei fatti.


Pulcini e Bergman sono bravi a lavorare sulle suggestioni e sulle psicologie dei personaggi, dipanandone con coerenza i rispettivi rimossi; lo sono meno quando si tratta di tirare le fila del discorso e quindi nel momento in cui sono narrazione e drammaturgia e non i personaggi a costruire la catarsi finale che ne L’apparenza delle cose non è all’altezza delle premesse.

Carlo Cerofolini

sabato 1 maggio 2021

TENEBRE E OSSA

domenica 25 aprile 2021

La foto della settimana

 

                                         Sulle mie labbra di Jaques Audiard (Francia 2001)

Perché è difficile spiegare la bravura di un attore





Spiegare a se stessi e agli altri la bravura di un attore non è cosa facile: per farlo occorrono conoscenze specifiche, spesso considerate in sott’ordine rispetto alla centralità tematica del regista e della sua messinscena.

La riprova ci viene data ogni volta che leggiamo una recensione, nella quale, quando menzionata, la prova dell’interprete è risolta  con il voto espresso dall’aggettivo che ne precede il cognome (eccellente, ottimo, buono, pessimo, insufficiente); come pure dalla scarsa saggistica che si preoccupa di entrare nel merito di un’arte ancora poco teorizzata e discussa da saggi e riviste specializzate.

A fare però, da cartina di tornasole del nostro discorso sono le interviste ai protagonisti del film. Commissionate per la maggior parte da periodici e magazine di cronaca e cultura (e non da quelli di settore), le stesse sono il riflesso di un interesse non rivolto al miracolo dell’atto creativo e alle tappe della trasfigurazione fisica e psicologica dell’intervistato. I contenuti, infatti, si limitano a passare in rassegna la biografia del personaggio di turno per ricavarne curiosità e aneddoti, e ancora, a esporne il parere a proposito di importanti questioni del nostro tempo.

Per tali ragioni, consci del fatto che l’efficacia di una buona performance è quella di nascondere la tecnica che permette all’attore di essere il suo personaggio, è pur vero che con il passare degli anni, a venire meno è stata la dimestichezza utile a cogliere dizioni e sfumature espressive, come anche la capacità di saper distinguere tra artificio e verosimiglianza. Da qui la mania di rifugiarsi in approssimazioni in cui la popolarità si sovrappone alla  bravura,  l’esposizione mediatica al talento; con ciò che ne consegue in termini di sopravvalutazione e improvvisi innamoramenti.

Una delle conseguenze di questo stato di cose è la tendenza a cristallizzare gli attori all’interno di un determinato ruolo, di solito quello in cui hanno avuto più successo, con sommo discapito degli interpreti più eclettici, quelli che, proponendo tipi umani sempre diversi, finiscono per essere meno identificabili e quindi appetibili dal punto di vista commerciale.

Gli esempi non si contano, in Italia come all’estero: a eccezioni come quelle di Tom Hanks e Jim Carrey, bravi a intraprendere un percorso diverso da quello originario, passando dal comico al drammatico, si accompagnano scelte di senso opposto come quelle di Tom Cruise, determinato a reiterare a oltranza la sua immagine (ever green) da ragazzo della porta accanto,  anche nel momento in cui la strepitosa interpretazione in Magnolia di Paul Thomas Anderson gli aveva offerto la possibilità di ampliare il suo repertorio.

Al contrario di Julia Roberts e Brad Pitt: la prima brava a perseguire il doppio binario dell’arte e del commercio, facendosi portare all’altare dell’Oscar da Steven Soderbergh, con un personaggio (Erin Brockovich) diverso dal suo cotè abituale; il secondo, cercando di smontare il teorema dell’attore bello e vacuo, non solo attraverso la frequentazioni di stimati autori internazionali (Terry Gilliam e Alejandro González Iñárritu), ma conquistando credito presso stampa e opinione pubblica, mettendo a disposizione la sua notorietà  in importanti campagne umanitarie.

Nel nostro paese la tendenza a stereotipizzare caratteristiche e qualità dei singoli attori rimane alta. Per fare qualche esempio, a Jasmine Trinca e Luca Marinelli, spesso al centro di esperienze sentimentali a dir poco complicate, fanno eco le nevrosi intellettuali di Laura Morante, Margherita Buy e Valeria Bruni Tedeschi, abbonate a ruoli di donne complesse e tormentate, in un un panorama generale (e in mercato) che premia la ripetizione dello schema e scansa il sorprendente e l’inatteso. Come invece è successo (in terra straniera) a Marcello Fonte con Dogman.

Sempre in termini di valutazione di quello che ci fa preferire un attore all’altro, bisogna dire che a differenza del teatro nel cinema la recitazione si rapporta all’immagine, facendo entrare in gioco doti innate come la bellezza, il magnetismo, ma anche la capacità del singolo di flirtare con la mdp, che spesso ammaliano il pubblico perché lo toccano nei sensi e nell’inconscio, escludendo ogni altra ragione.

La capacità dei corpi di essere lo specchio del desiderio dello spettatore, unita alla capacità del grande schermo di moltiplicarne gli effetti, contano non poco nel determinare preferenze e gradimenti. Talvolta, poi, la verità (se esiste) si posiziona dove meno te l’aspetti; per esempio, tra le fila di attori alla loro prime esperienze, eppure capaci di entrare in un film in punta di piedi  per poi contribuire a determinarne le sorti. Tra la miriade di volti vengono in mente quelli di Daphne Scoccia in Fiore e di Raffaella Giordano ne L’intrusamisteri d’attore che rinnovano il fascino di chi riesce a dare vita ai nostri sogni più belli.

Carlo Cerofolini

(pubblicato su taxidrivers.it)  

 


Sulla stessa onda: conversazione con il regista Massimiliano Camaiti

Sulla scia del rinnovato interesse per i film a tematica giovanile e debitore di un film seminale come Colpa delle stelle, Sulla stessa onda vede  l’esordiente Massimiliano Camaiti cimentarsi nel teen dramedy con sguardo personale e attraverso una rappresentazione in cui l’amore e la grazia dei protagonisti diventano la chiave per decifrare il mondo. Prodotto da Netflix,  Sulla Stessa onda ha conquistato i primi posti delle classiche italiane e internazionali, potendo contare sulla freschezza e la bravura di Elvira Camarrone e Christian Roberto nella parte dei giovani protagonisti.


Esordisci con una teen dramedy in cui racconti gli anni giovanili per antitesi, nel senso che fai della malattia il principale ostacolo dell’amore tra Lorenzo e Sara. Da una parte, parlare della giovinezza in questa maniera era un rischio, dall’altra il tuo è un filone molto popolare in America e che anche da noi sta prendendo piede: come dimostrano gli eccellenti risultati di Sulla stessa onda, fin dalla sua uscita su Netflix, in testa alle classifiche in Italia e in vari paesi del mondo.

Assolutamente sì. Come dici tu il teen dramedy è un genere molto in voga, anche se poi guardandoli bene ci sono tante differenze tra uno e l’altro. Colpa delle stelle è quello che ha avuto più successo di tutti, però ognuno di questi film attua delle scelte stilistiche differenti che lo portano poi a trovare il suo proprio pubblico di riferimento. Penso che Sulla stessa onda abbia caratteristiche sue proprie ben evidenti e provi a sfuggire all’impostazione retorica che rischia di avere questo genere. Magari ho deluso qualche giovane spettatore però ho conquistato un pubblico più maturo.

Di sicuro c’è il fatto che come nel caso di Alice Filippi per Sul più bello anche tu sei riuscito a lavorare sul genere in maniera personale.

Penso di aver usato il suo stesso procedimento e cioè  lavorare all’interno del genere assecondando i miei gusti. Anche perché se uno procede per imitazione finisce per fare la macchietta di altri film.

Sulla stessa onda è un film composito:  ha una narrazione forte, ma interpreti sconosciuti. Dunque, la prima caratteristica è che a essere in primo piano è la riconoscibilità della forma che peraltro  metti in scena con gli archetipi tipici del genere.

Secondo me sì: la prima parte è più di genere, nel senso che con il passare del tempo la storia diventa più intimista e si vira più sul melò. Dal canto loro, Elvira Camarrone (sarà, ndr) e Christian Roberto (Lorenzo, ndr) sono bravissimi nello scambiarsi sguardi e silenzi che senza dirlo diventano testimonianza del loro amore.

Oltre al fatto di dover rispettare i canoni di genere Sulla stessa onda doveva tenere conto dei parametri  di un produttore d’eccezione come Netflix. Il rischio di realizzare un prodotto privo di personalità non era scontato.

Di questo rischio parlavo continuamente con il direttore della fotografia, Michele Paradisi, che oltre a essere un direttore della fotografia bravissimo è stato anche un po’ il mio psicologo. Era assieme a lui che facevo crescere la storia, non solo dal punto di vista visivo. Ci siamo infatti confrontati molto sul tono del film, in effetti ci consultavamo su tutto… anche sul dubbio a proposito dell’utilizzo del dialetto siciliano.

In effetti quest’ultimo aspetto è una diversità forte per questo tipo di film.

Sì, è una diversità forte. Avevo molti dubbi, ma l’aver ricevuto tanti riscontri positivi su questo aspetto e il fatto che il film sia andato bene mi fa affermare che la scelta ha funzionato. In generale la questione rientrava tra le tante relative alla messinscena del film: dunque al tipo di immagine, alla scelta degli attori e del registro recitativo, di quanto e come farli parlare, delle musiche…

Sulla stessa onda parte da un ambientazione classica, ovvero dalla spiaggia intesa come  luogo incontaminato, in cui è possibile entrare in comunione con il paesaggio e incontrare nuovi amori. In questo, come anticipavi, la prima parte rispecchia appieno i canoni del genere.

Sì, nella prima fase il film rispecchia i canoni prestabiliti con, forse, l’aggiunta di una sapore nostalgico dato dalla dimensione senza tempo del mondo siciliano. Intendo dire che la storia è ambientata ai giorni nostri perché ci sono i telefonini, ma a parte quello la purezza e l’ingenuità che l’attraversa è tipica di altri momenti storici. Questo probabilmente aiuta anche, a chi è più avanti con l’età, a potersi identificare con storia e personaggi.

La seconda parte è invece più personale. Una sua prima caratteristica è la corrispondenza tra immagini e contenuto. Tanto Sulla stessa onda racconta un sentimento stabile e duraturo, tanto le inquadrature sono di tipo classico e cioè senza molti movimenti di macchina e volte alla ricerca di un’armonia compositiva fatta di campi lunghi e tagli di luce. 

Sulle scelte fotografiche potrei parlare ore. Io sono partito dagli scatti di due fotografi, un procedimento che si fa più spesso di quanto non si creda: per esempio in Lady Bird, uno dei film giovanili che abbiamo preso come riferimento, è successa la stessa cosa. I fotografi a cui mi sono ispirato sono stati Luigi Ghirri, che fa queste panoramiche marine dominate da una forte geometria delle linee e in cui non c’è (quasi) mai nessuno; e poi Massimo Vitali, che invece ritrae la Sicilia attraverso spiagge affollatissime. Per me si trattava di un connubio interessante perché visivamente riproduceva lo stato d’animo dei due ragazzi, determinati a ricercare l’intimità giusta per vivere le difficoltà della loro relazione, ma costretti a farlo  in un contesto come la Sicilia, dove ogni volta che ti muovi c’è rumore e confusione. Da qui la volontà di Sara e Lorenzo di scappare da questo mondo.

Ci sono dei totali lunghissimi, spesso posti a conclusione della scena per ricollocare lo stato d’animo dei protagonisti all’interno della natura e del mondo. C’è un discorso di linee che creano delle inquadrature molto geometriche. A volte è però la luce a disegnare il fotogramma e dunque a creare geometrie. Poi c’è la luce dal basso ad illuminare i volti, la posizione dei corpi… Ultima cosa, delle tante pensate con Michele, nel film non ci sono molti movimenti di macchina. Quando hai un panorama così, con un mare che si muove dietro, non esiste che muovi il carrello per sottolineare un’emozione. E’ già tutto lì.

Parliamo dell’uso dei colori. I tuoi sono particolarmente materici, vivaci ma non pieni.

C’è un discorso cromatico che ha di fondo il color sabbia. Quest’ultimo non è solo riferito all’arena ma anche ai palazzi di Palermo; poi ci sono anche il blu del mare e il verde scuro della vegetazione montana. Su questi colori  i personaggi si muovono con colori più accesi (il rosso, il giallo o altri) in maniera da farli staccare dall’insieme.

Tornando alla scelta della lingua. Mi sembra che la presenza del siciliano sia anche un modo per unire i personaggi al territorio e quindi per creare una dialettica tra reale e ideale.

Sì, perché effettivamente nel film ci sono due spinte: una che punta più sulla realtà, perché comunque anche i dialoghi sono molto veri e “normali”; un’altra relativa alla storia che sa di fiabesco al fine di creare una sorta di magia.

Un’altra cosa forte è il pudore dei sentimenti. La tua gioventù non è urlata come quella di Gabriele Muccino.

Mi è stato già fatto notare questa differenza. Probabilmente i miei riferimenti vanno in tutt’altra direzione (ma è solo una questione di gusti) e alcuni di questi sono entrati inconsapevolmente nel film. Per esempio, c’era un critico che giustamente mi ha fatto notare una vicinanza con Eric Rohmer, in particolare con Un ragazzo, tre ragazze (Conte d’été, ndr) che per me è uno dei suoi film più belli. Ma le références sono le più svariate. Per esempio, ti posso poi dire che, per far capire al direttore della fotografia come volevo fosse realizzata la scena della spiaggia in cui Lorenzo solleva  la ragazza, mi sono ispirato a una scena di Her di Spike Jonze, quella al mare, in cui Joaquin Phoenix cammina vestito in mezzo alla gente, esprimendo totale estraneità  rispetto alla realtà che lo circonda. Cosa che spero passi anche con i miei personaggi. 

Parlando di corpi, mi ha colpito molto il fatto che quelli dei protagonisti corrispondano per davvero alla loro età.  Normalmente gli attori di questi film hanno sempre un’ età superiore a quella dei loro personaggi. Qui invece c’è la perfetta sovrapposizione  tra finzione e realtà.

La scelta degli attori è arrivata dopo momenti di grande indecisione.

Al call back finale c’erano anche attori più esperti che però essendo più grandi di età… mancavano di una certa… purezza. I loro volti  non comunicavano quell’espressione di meraviglia che invece vive chi si innamora per la prima volta. Christian e Elvira hanno quella freschezza e quella ingenuità. Sono verosimili e teneri perché sono davvero come i due personaggi.

Tornando all’inizio del film, per come lo metti in scena e per come lo monti suggerisci che uno dei temi del film è quello di rompere le regole e di andare oltre i limiti, che poi è una spinta tipica dell’età adolescenziale. Parlando della scena iniziale, c’è la bottiglia soffiata alla ragazza e questa è la prima infrazione della regola; subito dopo c’è il salto del fuoco  da parte di Sara, che invece si riferisce al superamento di un limite. Dopodiché,  quando Lorenzo cade in mare la ragazza gli dice che l’incidente è successo perché si è attenuto alle regole. Infine, c’è la festa d’estate in cui i due ragazzi disubbidiscono e invece di andare a dormire escono di nascosto per andare a festeggiare in paese.  In queste prime immagini dissemini la volontà di andare oltre la norma,  a premessa di quella che sarà il modus operandi con cui i ragazzi affronteranno la malattia di lei.

Sì, è proprio così. Inizialmente, il conflitto interiore di Sara le permette di essere più a suo agio quando si tratta di agire, quindi magari di saltare il fuoco, che quando deve vivere i propri sentimenti, come succede nel bar all’inizio del film. A causa della sua malattia, ha come messo un muro alla possibilità d’innamorarsi. Lorenzo invece ha la storia della madre con cui fare i conti. Entrambi si vanno così a guadagnare un po’ di vita alla volta, imparano a sognare e a vivere il momento.

La scena del bar in cui vediamo Sara e Lorenzo ballare sulle note della canzone mi ha ricordato Il tempo delle mele, il film che ha lanciato Sophie Marceau. A parte questo, lì entra in campo  il montaggio, perché a un certo punto la musica si interrompe per poi riprendere quando loro sono di nuovo all’interno del campeggio. In quel momento, senza proferire parola, ci dici  che l’amore è già nato perché quella musica oramai risuona all’interno dei loro cuori.

Bravissimo, che ti devo dire, è proprio così, perché mettendo la musica quando loro rientrano negli alloggi ti voglio far capire che il loro sogno ha la possibilità di diventare realtà. Per quanto riguarda Il tempo delle mele,  è stato un altro esempio che è venuto fuori dopo che abbiamo girato la scena e peraltro a farmelo notare è stata Donatella Finocchiaro. Effettivamente quello  è stato uno dei film che ho visto prima di arrivare sul set: anche lì si sono quella poesia e quell’ingenuità che cercavo per il mio film. Peraltro, come i miei attori, anche la Marceau a quel tempo era proprio una bambina.

Il successo del teen dramedy secondo me risponde a una precisa funzione: quella di ridare importanza all’amore in un’epoca in cui per le nuove generazioni è tutto molto più fluido e dunque scontato. Storie come la tua hanno successo proprio perché in epoca di assoluto relativismo c’è bisogno di dare spessore ai sentimenti.

Penso che oggi sia una cosa che valga per tutti, non solo per i giovani. Di certo c’è che il vero amore sta diventando un’utopia, qualcosa da sognare più che da vivere. Questi film funzionano, perché oramai l’amore come quello  di Sara e Lorenzo oggi è molto raro.

Peraltro sono film che rilanciano un concetto d’amore monogamo e duraturo.

Una delle fortune di questo film è totalmente causale e dipende da ciò che è successo dopo averlo finito.  Noi abbiamo girato prima del covid e paradossalmente il messaggio del film è quello di andarsi a prendere la vita nonostante tutte le avversità. Dunque si tratta di una storia adatta ai tempi della pandemia, perché trasmette valori positivi, capaci di andare oltre il dramma contingente. Così è stato percepito il film dagli spettatori.

Il ritorno a casa dei protagonisti è scandito dalla diversità delle rispettive esistenze,  ma anche equiparato dalla sequenza subacquea che lega gli  intermezzi familiari di Sara e Lorenzo, anticipi che la loro unione passa attraverso la presenza  dell’elemento acquatico. In quel momento il film ragiona sul fatto che il mare diventa anche il simbolo di una restituzione. 

La presenza del mare è importante, ma la prima cosa che ho fatto è lavorare sulle emozioni. Per cui all’inizio c’è la scena in cui lei si fa male e rischia di affogare. Da qui in poi sviluppiamo il film  presupponendo che entrambi devono uscire dal mare. Lui,  in particolare attraverso il rapporto con la madre scomparsa  in quella che resta una delle mie scene preferite.

Al punto che i ruoli si invertono, nel senso che  come la madre si è presa cura di Lorenzo, così quest’ultimo  lo farà nei confronti di Sara.

Sì, perché a un certo punto, grazie a Sara, lui riesce ad accettare la presenza del dolore come parte della vita e per un attimo ritorna metaforicamente dalla madre per salutarla un’ultima volta.

Mi è molto piaciuto il fatto che lui, da uomo, riesca ad amare come lascito dell’affetto materno di quando era piccolo. Peraltro, questo è riassunto  in un immagine molto poetica. Mi riferisco al dettaglio  del bambino che si stringe al collo della madre che lo ha appena preso in braccio.

Devo dire che all’inizio, forse a essere più interessante è il percorso di Sara, mentre il personaggio di Lorenzo prende forza più avanti con lo sviluppo del film.

Dicevi di come Sulla stessa onda sia una sorta di favola contemporanea. A questo proposito ci sono due scene bellissime che volevo farti commentare: quella finale, nella quale in un contesto reale adotti una soluzione poetica, in cui gli uccelli dipinti nell’affresco prendono vita e volano via. Nell’altra, molto divertente, ambientata in un negozio di vestiti, grazie a un gioco di montaggio, dai vita a una specie di magia con Lorenzo che appare e scompare davanti agli occhi di Sara.

Nella prima delle due, sintetizzo quel misto tra realtà e fantasia presente in tutto il film. Per quanto riguarda la seconda, ho girato la scena in modo che entrambi gli attori, pur essendo uno davanti all’altro, guardino nella stessa direzione (sinistra macchina) per poi avvicinarsi solo nel piano a due. Ne è venuta fuori una soluzione leggera, ma tematica. 

Mi dicevi di come Netflix non solo ti abbia lasciato libero ma anche consigliato in fase di sviluppo del film.

Sara Furio, responsabile di Netflix, mi disse una frase illuminante, ovvero che l’inizio del film rappresentava il mio pubblico attuale, mentre la seconda parte quello futuro. Sara è stata preziosissima per il lavoro di editing sulla sceneggiatura e nel supporto per la scelta degli attori. Detto questo, da parte di Netflix ho avuto totale libertà creativa. Finita la fase di preparazione, ci siamo risentiti per lavorare insieme dopo la prima versione del montaggio. Magari non fossero stati soddisfatti sarebbero intervenuti prima, questo non posso saperlo.

Parliamo di Elvira Camarrone e Christian Roberto. Entrambi sono bravissimi, soprattutto lei. 

Elvira è un’assoluta forza, perché così giovane riesce a tenere silenzi e piani d’ascolto come fosse una veterana. Sia lei che Christian Roberto sono stati scelti in Sicilia attraverso i classici provini. Ci ho impiegato due mesi vedendo più di mille persone. Non sono esordienti assoluti, nel senso che lei faceva la scuola di teatro e aveva fatto una piccola parte in un film; lui invece è un ballerino che aveva recitato in qualche musical e nelle fiction, ma solo in piccole parti. E’ chiaro che fare un film del genere per loro è stato tutto un altro mondo. Abbiamo iniziato a fare prove un mese prima, ma specialmente nelle scene romantiche erano molto bloccati, come se sentissero un po’ di tensione dopo essere stati scelti. Ma a tre giorni dall’inizio del film, dal bar accanto alla sala prove, passano un pezzo che li sblocca totalmente, creando qualcosa di più emotivo, qualcosa che finalmente andava oltre le battute del copione. Erano giorni che cercavo di suscitare in loro questo stato d’animo. Da quel momento in poi, prima di girare le loro scene a due, anche sul set, abbiamo sempre ascoltato quel brano. La canzone è stata poi inserita nel film. Si intitola Promise ed è cantata da Ben Howard.

Carlo Cerofolini

Pubblicato su taxidrivers.it