domenica 13 dicembre 2020

TEENAGE BOUNTY HUNTER

Teenage bounty hunters

di: AA.VV.


(da un’idea di Kathleen Jordan)

con: Maddie Phillips, Anjelica Bette Fellini, Kadeem Hardison, Virginia Williams, Mackenzie Astin, Devon Hales, Spencer House, Shirley Rumierk, Myles Evans


Stag I

ep. I-X

[durata media: 49’ ep./ca.]

- USA 2020 -





Jessica [instr.]

— The Allman Brothers Band —





Sarebbe di nessuno interesse, se non andasse a ispessire la copia delle cognizioni avvilenti, la notizia circa la chiusura, dopo una sola stagione protrattasi per dieci episodi, della serie “Teenage bounty hunters” la quale, forse - e sia detto a posteriori - Netflix aveva messo in cantiere suo malgrado o nonostante i propri standard, variegati e smaglianti in superficie quanto di fondo occhiutamente codini (notando, tra l’altro, che il titolo originale dell’opera, tosto censurato, suonava come Slutty teenage bounty hunters, ci si può volendo fare un’idea riguardo la politica, quantomeno ondivaga su più direttrici, della piattaforma). L’illazione trova comunque ulteriori argomenti rovistando tra le minuzie sparse di un lavoro a tal punto coincidente con tutta una serie di costanti e luoghi comuni riconducibili a un certo modo-di-vivere-americano (qui, quello buono per una particolare razza bianca affluente/conservatrice/timorata-di-Dio ma disorientata dalle spinte opposte rappresentate dalla volontà di salvaguardare il proprio status in cima alla piramide alimentare, nonché l’eredità discutibile di taluni suoi retaggi - la ribadita compartimentazione dei ceti con annesso sempiterno fascino fricativo del denaro; la genetica fissazione per le armi; il razzismo più o meno strisciante; l’orgoglio nostalgico per una grandezza perduta dalla cui cassetta degli attrezzi e per il tramite delle rievocazioni storiche fa capolino persino un rimpianto che recita a caratteri cubici The South was right - da un lato, e le trappole vischiose del politicamente corretto, dall’altro, nella Georgia dei nostri giorni: Atlanta, per la precisione) da lasciare scoperta, e proprio in virtù dell’estremizzazione parodistica dei birignao collettivi e relativi passe-partout linguistici, delle ingenuità quasi infantili e delle ipocrisie calcolate al millimetro - l’insieme di ogni spinta messa a dialogare col sorriso sulle labbra dal pretesto, utilizzato a mo’ di filo rosso, di una trattazione di genere (latamente demenziale-investigativa) - la trama sfuggente dell’inconscio di una nazione che, ancora una volta, trova nelle proprie contraddizioni sociali, economiche, attitudinali (e nel tentativo di esorcizzarle ridicolizzandole) la ragione di una sempre sorprendente aderenza ai tempi.



Del resto, le vicende delle non proprio gemelle (anche se nelle intenzioni della Jordan, ispiratrice del progetto portato poi a termine a più mani, così vengono definite, con tanto di intesa sororale subliminale e rivelazione traumatica in limine) Sterling/Phillips e Blair/Fellini del casato Wesley e, a voler essere pignoli, non proprio adolescenti (sia la canadese Phillips che la newyorkese Fellini viaggiano invero ben oltre la ventina), astute ma di leggiadra fatuità, latrici di una innocua e scanzonata zoccolaggine, cripto-beghine e sboccate, endocrinologicamente appetibili da tutte le varietà della fauna maschile, come di quando in quando interpellate da moleste remore interiori, sin da subito ben si prestano a ripercorrere incarnandolo buona parte del campionario delle manie/antinomie/dabbenaggini del Grande Paese. Se è innegabile, infatti, che la malinconia è tale soprattutto perché si nutre di contrasti, già vedere all’opera le due rampolle che si barcamenano tra la rigidità leccata dell’esclusiva Willingham Academy, istituzione privata d’impostazione cattolica quasi pre-conciliare, pronta in punta di retorica a vedere il Male pure in un’alba con troppe nuvole e nel sesso tra adolescenti la distruzione sicura della sana famiglia da santino devozionale, e il molto più prosaico quanto non meno sconclusionato microcosmo farcito di teppiste in erba, piccoli cialtroni della truffa, stripper sovrappeso, borghesucci dalla doppia vita e dalle altrettante morali, spacciatori rimbambiti, casi umani assortiti e minutaglia traffichina senza storia, da loro affrontato nella veste di apprendiste cacciatrici di taglie agli ordini del burbero dal cuore d’oro Bowser/Hardison che un po’ le sfotte un po’ le sostiene e protegge, allo stesso tempo riconcilia e intristisce al cospetto di un pensiero ricorrente che sotto lo stupore e la simpatia epidermica suscitati da situazioni sul crinale di un iperrealismo coloratissimo da slapstick comedy gagliardamente artificiosa e truce - chissà quanto poi sul serio immaginifico, quest’iperrealismo, e non invece già abbondantemente superato dal carnevale permanente e sinistro di una realtà ormai del tutto fuori sesto (vedi, ad esempio, “The Florida project”) - non può esimersi dall’intravedere i lineamenti sfatti e languenti di quella che va ancora in giro ad autoproclamarsi come la più-grande-democrazia-del-mondo. 



In tal senso, diventa allora addirittura consolatorio, per non dire incoraggiante che, come chiunque fosse chiamato a tirare in ballo l’esempio di Cristo pure per sbucciare una mela, le ragazze - bionda, suonatrice d’arpa, cecchino naturale, Rappresentante dell’anno della Confraternita degli Studenti, in apparenza docile, a tratti svampita con rigurgiti da maestrina repressa riscattati da lampi di irriverente perspicacia (Blair: “Bere fa male, Sterl”. Sterling: “Anche ignorare i piaceri della carne”), Sterling (la cui mimica e naïveté perplessa sembrano lambire, qua e là a margine delle inquadrature e per quanto alla lontana, le leggendarie esitazioni di Stan Laurel); bruna, ciclotimica, portiere della squadra di lacrosse, irruente nel suo proposito di apparire/essere al tempo ribelle e sexy, sostenuta da una logica capziosa incline al sarcasmo e improvvise retromarce bas-bleu, Blair - gira gira non facciano che rimuginare, fantasticare, ciarlare di sesso, al punto che proprio la virginale Sterling - per il contrito scorno di Blair - da brava acqua cheta e senza troppi indugi un giorno passa all’azione nella certezza che lassù, da qualche parte, il buon Dio vegli su di lei e bonariamente annuisca, mettendo in mezzo (anzi sotto) la vittima del momento, Luke Creswell/House, bietola iper-vitaminizzata a mezzo tra un votato per complessione al colesterolo e un Big Jim intronato dai troppi predicozzi somministratigli durante la crescita (con tanto di chitarra che si ostina a brutalizzare non avendo la minima idea di come cavarne note coerenti), e conquistando sul campo il trofeo simbolico di gemella troia/slutty twin da sempre conteso dalle due (Blair: “Si vede che hai scopato”. Sterling: “Abbiamo fatto l’amore”. Blair: “Cioè ? Tipo scopare ma più piano ?”). Nulla osterebbe, cioè, a una rimasticatura - a seconda dei palati e degli apparati digerenti, allettante/respingente - nel rispetto degli oliatissimi ingranaggi di un filone genericamente adolescenziale da tempo divenuto mero bacino da cui estrarre quasi senza soluzione di continuità le medesime materie prime (arrivismo/auto-emarginazione, ricerca esasperata della cosiddetta coolness, senso di inadeguatezza, adesione maniacale alle mode, crucci sulla popolarità, et.) - e di questo estremo processo di stereotipizzazione Netflix ne sa più di qualcosa - se non intervenisse, permeando di sé l’intero sviluppo narrativo e psicologico della faccenda, il proposito di un disegno, questo di sicuro consapevole, atto a orientare ogni gesto e ogni parola, e quindi il significato stesso di ciò che si rincorre sullo schermo al ritmo che alterna gag a rifiati meditativo-sentimentali, alla caricatura e alla dissacrazione come parimenti all’autoironia e all’accettazione, risultando, per quanto lineare sino allo schematismo e intrinsecamente superfluo in virtù della sua destinazione elettiva al gran calderone del distratto intrattenimento di massa, più leggero, possibilista, non moralistico in senso davvero moderno (ed è questo, ovviamente, uno dei tipici paradossi americani sopra evocati), di tanti prodotti affini.



Siffatta osservazione non sarebbe in ogni caso plausibile se non si prendesse per giunta nota del reiterato tono digressivo-demistificatorio emblematico del rumore di fondo comunicativo contemporaneo che in orizzontale attraversa “Teenage…”, sia quando si orchestrano siparietti domestici in stile famiglia perbene (con una madre, Debbie/Williams, ex Miss Georgia, barbie semiplastificata, dal passato turbolento e dal presente in interessata sintonia con un milieu costituito perlopiù da coetanee soavemente alcolizzate appartenenti al Circolo del Libro, e un padre, Anderson/Astin, mite e impacciato, quasi estratto di peso da una qualche pubblicità sulle esposizioni di arredamenti da giardino), sia quando si scimmiotta il piglio avventuroso di autentici intrecci polizieschi al passo di incalzanti brani industrial metal ma più di tutto quando, nel corso di istanti di candida sospensione o cauto sconcerto, nei momenti in cui l’effervescenza dispersiva della giovinezza lascia il posto a una sorta di apatia inquieta, si riflette sui vicoli ciechi imposti da un’osservanza religiosa tanto letterale quanto acritica la cui obiettiva impraticabilità scatena nelle protagoniste uno spesso irresistibile incrociarsi di sanguigno umorismo e maliziosa impertinenza. Di concerto risulta perciò più agevole comprendere come le circostanze che coinvolgono Sterling e Blair possano con un buon grado di approssimazione collocarsi più dalle parti della sfacciataggine amena, dell’estro anarcoide, del cazzeggio scatologico e fuori-di-testa dell’ultimo Kevin Smith (in particolare quello di “Red State” e “Yoga hosers”), che da quelle inscritte nelle geometrie maiolicate e scenograficamente affrante di, per dire, “Riverdale”. E questo in particolar modo per dare, infine, il giusto risalto al fatto per cui le due adorabili svitate (come le apostrofa sovente senza acrimonia Bowser), nonostante l’inconsistenza di un mondo fatto per lo più di miraggi materiali, ossia di paradisi cretini oltreché fasulli, in barba alle consuetudini retrive della mentalità prevalente e dell’educazione, indotte a scegliere non esitano a innamorarsi rispettivamente della sua amica-nemica dai tempi delle elementari, April/Hales (Sterling) e di un ragazzo afro-americano in origine sempre snobbato, Myles/Evans (Blair), dai quali vengono però rifiutate in base a quegli stessi pregiudizi a loro attribuiti in quanto esponenti di una cerchia privilegiata. April, lesbica irrisolta e pavida, lascerà Sterling (al contrario, ragazza dalla sessualità fluida, quindi curiosa e pronta a sperimentare), condizionata da una figura paterna che notoriamente “odia i froci”. Myles allontanerà di fatto Blair mettendo in atto un sottile gioco di discriminazione al contrario allorché farà prevalere la più conformista delle ragioni di stato (la madre è in campagna elettorale per la rielezione a un seggio senatoriale e nulla deve turbare il quadretto idilliaco con al centro la borghesia nera, agiata e progressista da vendere ai media) sulla crescita di una sincera relazione amorosa. Pertanto, se, come fece balenare a suo tempo lo stesso Smith, non è così campata in aria l’eventualità - benché immeritata da parte di un genere umano in gran numero profondamente e convintamente ottuso - per cui Dio è Alanis Morissette, inteso come quintessenza di un principio unificatore femminile, di certo Lei sorriderà tra Sè nel riconoscere in Sterling e Blair tanto un esempio fulgido della Sua opera, quanto la prova dell’opportunità della Sua esistenza.

TFK

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