Mank
di David Fincher
con Gary Oldman, Amanda Seyfred, Lily Collins
USA, 2020
genere, drammatico, storico, biografico
durata, 131'
Se diamo per buono il concetto e proviamo ad applicarlo al nuovo film di David Fincher ci si trova in un solo colpo di fronte a un’opera predestinata al successo fin da quando Netflix ha deciso di metterne in cantiere la produzione.
Delle caratteristiche appena menzionate Mank fa infatti sfoggio sia quando si tratta di raccontare la tormentata stesura del copione di Quarto Potere dal punto di vista di chi – Herman Mankiewicz – fu incaricato di scriverne il copione, sia quando si tratta di metterlo in scena facendo delle immagini della tormentata gestazione la diretta conseguenza delle parole che di mano in mano vengono battute sullo schermo dai tasti della macchina da scrivere compulsi dalla febbrile ossessione del protagonista.
Discorso sui massimi sistemi
Giullare di corte
E non solo: perché con uno scarto che non lascia indifferenti relega il vero protagonista della vicenda – Orson Welles – nella parte del comprimario. Sorte anche peggiore tocca a chi di solito è abituato a stare in prima fila sul palcoscenico dello spettacolo.
A meno che non sia indispensabile (Marion Davis, amante del magnate dell’editoria William Randolph Hearst alias Charles Foster Kane), a essere cancellati sono proprio i divi del grande schermo, quelli che di solito in operazioni del genere diventano aneddoti messi a corollario della storia.
Nella rivincita della parola sull’immagine Mank inverte per una volta l’ordine dei fattori lasciando spazio alle figure di contorno come sceneggiatori, impiegati, macchinisti, operatori di macchina, segretarie e cioè a tutte quelle persone abituate a lavorare nell’ombra e qui invece chiamate a completare la compagnia degli invitati al ballo.
La forma
Se la forma di Mank rimanda in parte al film in corso d’opera, in parte a quelli dell’epoca in cui si svolge la vicenda (soprattutto nel bianco e nero della fotografia, piatta e pastosa come lo era quello dei film degli anni 40), Fincher non esplora lo spazio ma lo disegna, lo mette in posa come si capisce confrontando la diversità di scelte operate dal regista di Denver rispetto per esempio a quelle di Martin Scorsese in The Aviator nella sequenza all’interno del locale notturno in cui la mdp si chiude sui personaggi anziché investigare la superficie circostante con dolly, carrellate e aperture di campo come fa invece Scorsese.
Stasi più che azione
Mank lo conferma dapprima trattando la storia di un uomo abituato a far prevalere le parole, enfatizzandone la tendenza mostrandolo sdraiato su un letto incapace di deambulare a causa di un incidente; in generale facendo della ragione l’arma principale con cui Mankiewicz si batte contro il sistema surrogando di fatto l’azione, vero e proprio epigono di una serie di personaggi – quelli creati da Fincher – destinati a fare i conti nel bene e nel male – con le capacità della propria mente anche dove – e per esempio in Fight Club – il corpo sembrerebbe prevalere.
D’altronde è per primo il regista a chiedersi la ragione ultima che muove il comportamento dei suoi protagonisti, come attesta la doppia sequenza che vede il personaggio di Ben Affleck nel già citato Gone Girl domandarsi, con chiara apprensione quale sia l’autentica matrice dei pensieri che abita la mente della sua sfuggente consorte interpretata da Rosamund Pike.
Ambiguità
Valga per tutte la conclusione del film in cui il personaggio di Gary Oldman denuncia la menzogna dei meccanismi del cinema che riconosco a Welles la condivisione di un riconoscimento (alla migliore sceneggiatura) non meritato avallandone l’inganno in nome della magia della settima arte.
Peraltro tutto il cinema di David Fincher fa dell’ambiguità uno dei suoi tratti principali, quello destinato dapprima ad alimentarne la narrazione e poi a legittimarie gli esiti con sequenze finali come quella di Mank che ne registrano la effettiva continuità.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
0 commenti:
Posta un commento