lunedì 10 febbraio 2020

INVISIBILI: BREADCRUMB TRAIL



Breadcrumb trail
di, Lance Bangs
documentario
USA 2014
durata, 93’



Just keep in mind for the next few days 
that we're in Louisville, Kentucky. 
Not London. 
Not even New York.
This is a weird place
- Hunter S. Thompson -



La meteora è un fenomeno che di per sé evoca l’effimero: attraversa il cielo, si infrange, sparisce. Eppure, sarebbe opportuno soffermarsi a volte più sulle conseguenze delle sue traiettorie che sullo splendore delle sue apparizioni. Tale semplice analogia torna utile al momento di cercare di inquadrare il percorso artistico ma più ancora le ramificazioni e le imprevedibili ripercussioni, nel caso, di un gruppo più o meno rock (visto che, volendo, a esso si potrebbero attribuire quattro o cinque etichette, tanto l’approccio al regno delle note è obliquo, vario e includente), tipo quello degli Slint, attivo per una manciata scarsa di anni a cavallo dei ’90 dell’altro secolo e la cui vicenda singolare - per capacità di anticipazione, precocità di intuizione e risonanza capillare all’interno del tessuto musicale a venire, a maggior gloria delle rivoluzioni più difficili da far inverare, quelle tanto poco appariscenti quanto davvero durature - è stata ricostruita attraverso un documento centrato su un album di straordinaria audacia inventiva e ancor oggi ineguagliata malìa a nome “Spiderland” (1991, per la Touch and Go, con la supervisione di Brian Paulson, l’estensione di sei pezzi e una quarantina di minuti di ascolto), pietra angolare dissonante e nervosa, algidamente austera nella sua struttura composta per lo più di calibratissimi fraseggi sospesi e distorsioni improvvise, dilatati racconti cantati/recitati/salmodiati entro un’atmosfera incerta tra aspettazione e resa, meditazione sofferta e coscienza di una fine sempre imminente, controtempi sistematici e fratture armoniche, quanto matrice inquieta senza attrito sovrapponibile alle insicurezze, alle angosce e ai tormenti secreti dalla quotidianità contemporanea oramai, per molti versi, incomprensibile (oltreché avviluppata in una sorta di morte sgargiante), in specie per le giovani generazioni, in particolare quelle americane, di norma in prima fila quando si tratta di verificare sulla pelle lo stato delle sorti e progressive della sedicente modernità.


In consona aderenza al titolo del film - e all’omonima traccia, tra le meraviglie sonore degli ultimi decenni - Bangs, autore di decine di video (Sonic Youth, Guide by Voices, The Shins, Arcade Fire, Yeah Yeah Yeahs, Kim Deal, et.), regista, montatore e direttore della fotografia di altrettanti lavori non solo in campo musicale, organizza il ritratto della band di Louisville (Ky) assemblando ai materiali offerti in molti casi dai componenti della formazione - filmati amatoriali, riprese scolastiche, contributi di amici e conoscenti - le loro testimonianze, accompagnandole e sovrapponendole a quelle di coloro che per via diretta o traversa hanno vissuto la trasformazione sotterranea messa in moto dall’apparizione di un sestetto di brani tanto inusuali quanto seducenti. Incontriamo, così, gli aneddoti, le osservazioni di produttori come Steve Albini e quelli dello stesso Paulson; i ricordi personali e le impressioni di musicisti del calibro Ian MacKaye (Minor Threat, Fugazi, Embrace, The Evens), Jon Cook e Jason Noble (Rodan), Matt Sweeney (Chavez, Superwolf). Più ancora, però, sbirciamo da vicino l’understatement, la calma distanza e la quasi svagata normalità dei protagonisti - Britt Walford/batteria; Brian McMahan/chitarra e voce; David Pajo/chitarra; Todd Brashear/basso - post-adolescenti (perché sì, è di quasi ragazzini che stiamo parlando, ragazzini che, come arriva a sottolineare anche la vecchia volpe Albini, “erano già molto consapevoli del suono che intendevano estrarre dai loro strumenti”) al limite del dimesso ma di intelligenza pronta e depositari di quel briciolo di follia al tempo ingenua e radicale in grado di proiettarli in una dimensione di continua e tenace scoperta sin dalla più tenera età. Tenendo ad esempio presente che Brian e Britt si conoscono sulla soglia dei rispettivi dodici anni, le immagini che li ritraggono di lì a breve nel seminterrato del secondo - il leggendario basement caro a tanto immaginario rock - messo a disposizione dai cordiali e comprensivi genitori (degne di una sit-com sull’american way of life i loro siparietti), assumono addirittura sfumature inquietanti se paragonate alle partiture astratte e fuori dal tempo con cui vediamo i quattro esercitarsi, passando dagli strappi già anomali articolati nel disco di esordio - “Tweez” (1989) - alle armonie dissociate e alla musica discreta di “Spiderland”.

Ulteriore e luminosa filiazione della galassia prima di un altro gruppo decisivo del tempo, gli Squirrel Bait (di cui sia Britt che Brian hanno fatto parte) e le cui propaggini e rimescolamenti di assetto non si contano, gli Slint legano saldamente la propria sorte e parte del clima che caratterizza le loro composizioni alla città di Louisville, ai suoi sobborghi ordinati e silenziosi, come spesso accade uniti/divisi dal censo e dall’appartenenza sociale; alle sue statali sovente da Bangs colte durante pomeriggi e sere piovose, con i semafori piazzati in alto e al centro di crocevia poco o punto battuti, mentre la gioventù (ancora non ostaggio di Internet) si riunisce in piccoli locali o in ambienti sottratti al degrado per sperimentazioni che vanno dall’arte povera alla fotografia, all’improvvisazione scenica e, ovviamente, alla musica contribuendo, per rimanere all’universo dei suoni, a sollevare il capoluogo storico kentuckiano a rango di uno dei luoghi più creativi d’America. In altre parole, la sostanza perplessa ma febbrile di contorte progressioni intrise di quella inconfondibile peculiarità per cui esse hanno l’aria di svilupparsi mano mano che si manifestano, ha attinto e si è impregnata dei silenzi tutt’altro che pacificati conseguenza di inverni in cui la luce cede presto al buio; della presenza insidiosa di edifici abbandonati dalle stravaganze miglioriste dello sviluppo; della disperazione sottile che sembra filtrare dalla muta natura residuale radicata a ridosso dei perimetri abitati: suggestioni e rimandi che Bangs alterna ai ritmi circolari e in apparenza senza approdo; agli schemi chitarristici ansiosi, catatonici o sghembi, sebbene invariabilmente geometrici, in un gioco allusivo che tenta di afferrare il fascino stranito ma come indifeso di aggregati sonori riottosi alla classificazione, quindi all’interpretazione consolatoria, di contro in perenne oscillazione - ecco l’attualità di un simile lascito - sul filo che unisce la schizofrenia remissiva dell’attualità al disagio frustrante di non saperla più distinguere dai gesti comuni, a vantaggio di un incantesimo allo stesso tempo malvagio e stupido, nucleo inscalfibile di tutte le doglianze delle società affluenti e tristi. Coerentemente, risulta quasi ovvio che la saturazione partorita da asserzioni come quelle espresse in “Spiderland” innescasse a stretto giro un fenomeno di quieta entropia all’interno degli equilibri artistici ed emotivi di una band così sui generis, al punto da decretarne la precoce implosione e, al contempo, una quasi immediata e nuova parcellizzazione di stimoli e competenze via via riaggregatesi - secondo un’inerzia, a ben vedere, persino irridente - attorno alla provvisorietà di questa nostra miserabile e crudele transizione, in notevoli rilanci - Brian con The for carnation e King Kong - ampliamenti di prospettive - David con i Tortoise, gli Zwan e gli stessi The for carnation; Todd con i Palace Brothers - curiosi detour - Britt con The Breeders, prima e in parentesi blues, dopo - a dimostrazione che la meteora Slint non è passata invano e che impronte del suo passaggio esistono eccome. Basta cercarle. Kids are still alright.
TFK

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