Honey Boy
di Alma Har'el
con Shia LaBeouf, Luca Hedges, Laura San Giacomo, Noah Jupe, FKA Twigs
USA, 2020
genere, drammatico
durata, 94'
Il cinema come terapia
Il cinema come terapia. Così è quello di Shia LaBeouf in Honey Boy di Alma Har’el, in cui l’attore di Transformer e di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo mette nero su bianco i trascorsi di un’infanzia segnata dalla precocità del talento artistico e dal drammatico rapporto con la figura paterna. Avendo come unica variante quella di essere trasposta con nomi fittizi dietro ai quali però non si fatica a riconoscere i personaggi reali, la sceneggiatura di Honey Boy – firmata da LaBeouf – non fa nulla per nascondere le origini della sua scrittura, frutto dell’esercizio terapeutico collegato alla necessità dell’attore di dare forma all’indicibile sperimentato fin dalla giovane età.
Doppio sogno
Soddisfatta la necessità di stabilire una minima distanza tra sé e i propri fantasmi, LaBeouf si pone nella condizione, come sceneggiatore e interprete, di mettere il dito nella piaga, mostrando senza reticenza, né omissioni di colpe, la dolorosa esistenza dei due protagonisti: del figlio, bisognoso di un affetto che il genitore non gli può dare, del padre, alle prese con i postumi di un passato di abusi e tossicodipendenza e per questo incapace di un amore che si possa considerare tale. Ma Honey Boy si spinge ancora più avanti nella sua funzione catartica facendo interpretare il carnefice (James Lort, il padre del bambino) dalla propria vittima (LaBeouf) in un cortocircuito tra arte e vita che riguarda sia Leboeuf, pronto a completare l’ultima fase del suo percorso curativo mettendosi – letteralmente – nei panni del proprio genitore, così da comprenderne le ragioni ultime del comportamento; sia lo spettatore, posto davanti alla visione di un duplice sguardo: quello soggettivo e interno al film esercitato dello stesso LaBAdler Entertainmenteouf, coinvolto in prima persona nelle emozioni raccontate e, quindi, pronto a esporsi in maniera più viscerale che calcolata e, l’altro, della regista, oggettivo ed esterno alla vicenda, e per questo chiamato a parteciparvi raffreddandone la tensione dall’alto della con la sua posizione super partes.
Infanzie rubate
In effetti, una delle qualità che colpisce in Honey Boy risiede nel paradosso con cui la Har’el mette in scena la storia riuscendo a raccontare con (raro) equilibrio formale una vicenda che fa dello scompenso emotivo e dell’eccesso comportamentale il “virus” di cui sono infetti narrazione e personaggi. Meno lirico e più concreto di Quando eravamo fratelli, altro lungometraggio dedicato al tema dell’infanzia rubata, simile per intenti, progettualità e disperazione a Niente per Bocca di Gary Oldman, il film della Har’el è pervaso da una sincerità così struggente da risultare a tratti insopportabile. Premio speciale della giuria allo scorso Sundance Film Festival.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)
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