venerdì 24 gennaio 2020

1917

1917
di Sam Mendes
con George MacKay, Dean-Charles Chapman e Mark Strong
Gran Bretagna, USA, 2019
genere, drammatico, guerra
durata, 100'


In uno delle scene finali di 1917 il personaggio interpretato da Benedict Cumberbacht afferma che in guerra vince solo chi sopravvive. Senza possederne la radicalità ma mantenendone lo spirito Sam Mendes fa tesoro della lezione di Andreij Tarkovskij che a proposito de L’infanzia di Ivan  sottolineava come in guerra la sconfitta non distinguesse tra vincitori e vittime. In questo senso la lettura del regista inglese si dimostra coerente all’assunto svuotando la messinscena dei segni distintivi che di norma servono a rendere la contrapposizione degli schieramenti. Alla pari del Christopher Nolan di Dunkirk anche il Mendes di 1917 fa del nemico la proiezione delle paure dei combattenti  impedendo agli occhi di George MacKay e Dean-Charles Chapman, così come a quelli degli spettatori la possibilità di riconoscere le tracce di quella diversità che in guerra legittima la soppressione dell’altro (condizione questa mai ricercata dai due “maratoneti” ma messa in pratica per “cause di forza maggiore”). 

D’altro canto, rispondendo ai dettami tipici del cinema mainstream 1917 (come Dunkirk) ripropone sotto mentite spoglie - quelle del primo conflitto bellico - scenari e strategie peculiari  della guerre contemporanee come lo sono la parcellizzazione e il decentramento del campo di battaglia oppure la mancata demarcazione degli opposti schieramenti (in virtù di contrapposizioni esistenti ma non ufficialmente dichiarate) per non dire della rappresentazione delle fonti di fuoco, nella ricerca ed eliminazione del target più simile all’impercettibile ma letale azione dei droni moderni  piuttosto che alle vetuste e ingombranti artiglierie dell’epoca.

Avendo come obiettivo quello di raccontare la dimensione della guerra e non la sua cronaca Mendes sceglie un punto di vista immersivo che fa dell’insistito uso del piano sequenza il mezzo per far “entrare" lo spettatore dentro lo “spazio” della storia, stabilendo un livello di empatia che risulta tanto più alto quando  lo è l’illusione di condividere il tempo dell’azione con i due militari. Sostituendo il movimento alla stasi (Dunkirk raccontava un’attesa, 1917 uno spostamento fisico) Mendes ha modo di articolare la storia - e perciò diversificarla - attraverso una serie di quadri a cui assegna un preciso valore retorico e una riconoscibilità che a seconda dei casi dipende da scelte estetiche che vanno dal segnalare il passaggio nel punto nevralgico delle linee tedesche rifacendosi alle ombre di una notte degna del miglior cinema espressionista, alla celebrazione del sacrificio delle Lost Generation - nella scena in cui il caporale Schofield viene a contatto con i commilitoni che sta cercando di salvare da morte sicura. - reso attraverso i volti imberbi di un battaglione di soldati bambino.

L’effetto complessivo è più spettacolare che straniante, più manierato che creativo, più popolare che ricercato, senza contare che alla stregua di altri lavori del regista inglese la levigata correttezza della confezione finisce per sottrarre anima al film.  Da questo punto di vista 1917 ha i requisiti che servono per ben figurare nella notte degli Oscar.
Carlo Cerofolini

giovedì 23 gennaio 2020

JOJO RABBIT

Jojo Rabbit
di Taika Waititi 
con Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie
USA, 2019
genere, drammatico
durata, 108'




Della fantasia e dell’irriverenza di Taika Waititi si aveva avuto contezza all’uscita di "Thor: Ragnarok", nel quale con la sfrontatezza tipica del neofita (in materia di supereroi) aveva osato l’inimmaginabile, facendo del figlio di Odino e dei suoi compari le vittime di una divertente quanto fracassona parodia dell’universo Marvel. Con “Jojo Rabbit” Waititi alza le proprie ambizioni confrontandosi con la Storia e trovando nella tragedia della Shoah e nella Germania nazista del 1945 elementi capaci di stimolarne l’affabulazione cinematografica. Il che, se da una parte gli consentiva di lavorare su un immaginario consolidato e sempre attuale sul versante emotivo e della cronaca dei nostri giorni, dall’altra lo metteva in una posizione non comoda per il fatto di  doversi confrontare con un modello narrativo “costretto” all’interno di un unico canovaccio e quindi aperto al rischio della ripetizione. Un'opzione  non contemplata nel vocabolario del nostro autore, se è vero che nel riprendere in mano temi e situazioni già note, “Jojo Rabbit” ne stravolge le coordinate a partire dalla trovata di presentare il “diavolo” sotto mentite spoglie e cioè di fare di Adolf Hitler (cui presta il volto lo stesso regista) l’amico immaginario di Johannes Betzler detto Jojo (lo strepitoso Roman Griffin Davis), un bambino di dieci anni rimasto a vivere con la madre dopo la morte della sorella e la perdita del padre, ufficiale dell’esercito tedesco spedito al fronte e dato per disperso.

Ma questo non basta, perché Waititi, ispirandosi al romanzo “Come semi d’autunno" (Caging Skies) di Christine Leunens, costruisce una film che utilizza iperboli e paradossi per raccontare con i toni della favola nera l’incontro tra Jojo, sposato anima e corpo con la gioventù hitleriana, ed Elsa (la brava Thomasin McKenzie) adolescente ebrea che Rose/Johansson, la madre del bambino, ha nascosto a sua insaputa nella loro casa. Esemplare a tal proposito è l’associazione tra le note di “Komm, gib mir deine Hand", versione in lingua  tedesca di “I Want To Hold Your Hand” cantata dai Beatles, e gli inserti d’archivio in cui assieme ai sottotitoli vediamo il Kaiser idolatrato dalla folle come una star del rock. Un’apertura che fa il paio con ciò che segue, ovvero il rovesciamento di quella baldanzosa e onnipotente rappresentazione, smontata pezzo dopo pezzo dalla versione ridicola e caricaturale che del leader nazista ne fa la proiezione mentale del protagonista.


Una caratteristica, quella appena descritta, presente anche nella forma dialogica, scandita da allusioni e giochi di parole in cui gli stereotipi antisemiti propagandati dal Terzo Reich invece di essere omessi vengono sovraccaricati di significato al punto tale di depotenziarne i contenuti per farne lo strumento di un’eversione comica e surreale, capace di vincere la morte (comunque presente a vario titolo nel corso della storia), e almeno nel film, di prendersi  la rivincita sul Golem nazista.

Senza tradire i fatti della Storia ma ricostruendola con l’inventiva del piccolo protagonista, Waititi compie un'operazione poetica simile a quella de “La vita è bella” di Roberto Benigni (peraltro citato nella scena in cui Rose per sviare i sospetti del figlio inizia a muoversi come faceva Benigni, simulando i gesti di una marionetta), trasformando l’orrore in un’avventura ludica e la tragedia in un romanzo di formazione. In questo senso “Jojo Rabbit” è anche il prodotto di una passione cinefila ad ampio raggio, capace di pescare dal Wes Anderson di "Moonrise Kingdom - Una fuga d’amore", presente nel gusto coreografico delle sequenze campestri inerenti al raduno della gioventù hitleriana come pure nelle “miniature” con cui Waititi dà vita ai ruoli di contorno, dal capitano Captain Klenzendorf (Sam Rockwell), eccentrico e idealista quanto basta per farne un personaggio tipico del regista, agli strampalati membri della Gestapo incaricati di ispezionare la casa di Jojo. E ancora, pensando al buio dell’antro attraversato carponi dal bambino nella scena in cui Jojo vede per la prima volta Elsa e poi alla mano sulla cornice della porta dietro la quale si palesa un poco alla volta la sagoma della ragazza, la mente corre ad “Alien”, citazione che allude anche al condizionamento della dottrina di regime impartita al protagonista in virtù della quale Elsa, in quanto ebrea, è un’aliena inquietante e minacciosa.

Certo è che Waitiki si esprime con il linguaggio tipico del mainstream americano e dunque con la necessità di rendersi riconoscibile al grande pubblico attraverso una retorica per cui alla poesia dei sentimenti messi in campo bisogna aggiungere la cosiddetta “morale della favola”; il che, in termini tecnici, si traduce in una narrazione orizzontale, sviluppata sulla superficie dell’immagine, con quest'ultima incaricata di rendere esplicita l’immaginazione, di spiegarla con sequenze - le più deboli del film -  in cui in qualche modo la guerra, lasciata fuori campo  (e a ragione) per la maggior parte del tempo, viene infine mostrata per fare la conta di buoni e cattivi. Quasi dimenticando che quella di “Jojo Rabbit” è prima di tutto la storia di una disintegrazione familiare e della ricerca di figure putative da parte del bambino, come testimonia il movimento di macchina che collega la foto della sorella di Jojo alla linea del pavimento che di lì a poco condurrà il protagonista al cospetto di Elsa, chiamata a colmare le mancanze affettive del piccolo patriota. Ben venga dunque la scena finale, perfetta nel ristabilire il tono e lo stile del film, ancora una volta affidata al “non detto” della musica - “Heroes" di David Bowie - questa volta liberatoria e colma di speranza e corredata dal ballo a due con cui Jojo ed Elsa si congedano dallo spettatore.

Candidato a sei premi Oscar, tra cui quello per miglior film, non si fatica a pronosticare la meritata vittoria di Scarlett Johansson nella categoria di migliore attrice non protagonista.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica 19 gennaio 2020

LA FOTO DELLA SETTIMANA



Roman Griffin Davis (Jojo Rabbit/Taika Waititi, 2019)

THE LODGE


The Lodge
di Veronica Franz e Severin Fiala
con  Riley Keough, Alicia Silverstone, Lia McHugh, Jaeden Martell
USA, GB, 2019
genere, thriller, horror
durata, 100'





"The Lodge" di Veronica Franz e Severin Fiala ("Goodnight Mommy") si presentava con le carte in regola per fare breccia non solo tra gli appassionati del genere ma anche sugli amanti del cinema d'autore. Alla componente horror relativa all'ambiguità dei personaggi e alla claustrofobia dell'ambientazione, "The Lodge" dispone di un apparato formale ed espressivo rigoroso, in grado di alimentare la follia in seno alla storia con immagini capaci di rendere il deragliamento psicologico dei protagonisti e di mettere in discussione il livello di percezione dello spettatore, il più delle volte in difficoltà nel distinguere il vero dal falso.

Nel raccontare le conseguenze di una convivenza forzata, quella di Grace (Riley Keough, alle prese con lo stesso tipo di situazione nell’inquietante "It Comes at Night" di Trey Edward Shults), con  Mia e Aiden, i figli del suo nuovo compagno, isolati dal resto del mondo e costretti dal maltempo all'interno di uno chalet di montagna, la regia esaspera la corrispondenza tra la dimensione del reale, rappresentata per lo più dallp spazio interno dell'abitazione e quella immaginifica, costituita dalle stanze della casa giocattolo in cui la raggelata rappresentazione della vita domestica, comprensiva di bambole e accessori, sembra la premonizione di quello che potrebbe accadere all'inquieto sodalizio. 


Un collegamento, quello appena descritto, che "The Lodge" ribadisce lungo tutto il film con profondità di campo e soffitti a spiovente che fanno dell'inquadratura la cornice di un habitat artificiale, le cui alterazioni prospettiche, rimandando alle architetture dalla miniatura, generano il sospetto di altrettanta finzione di cui il mondo dei personaggi potrebbe essere depositario. Una strategia  che ricorda da vicino "Hereditary - Le radici del male" (l'apertura sembra quasi una citazione del lungometraggio di Ari Aster) del quale Franz e Fiala ricalcano anche la predisposizione a girare con uno sguardo autoriale, interessato a sviluppare il cursus esistenziale dei personaggi e non solo a lavorare sulla degenerazione delle loro nevrosi.

Attraversato da un sottotesto evocativo della versione più peccaminosa e colpevolista (qui a essere punita con indicibile senso di colpa è la natura fedifraga delle relazioni sentimentali) della morale puritana, il film è bravo a destabilizzare le certezze del pubblico cosi come nella creazione del paesaggio metafisico anche quando si tratta di estenderlo alla landa desolata che circonda la dimora. Lo è meno nel momento in cui si tratta di tirare le somme  e svelare l'arcano che si nasconde dietro l'irragionevolezza degli avvenimenti con accorgimenti e sviluppi dell'azione non sempre atti a rafforzare la coerenza interna alla storia. Preferibile quando lascia parlare i non detti, "The Lodge" perde quota laddove decide di riempirli forzando la mano con svolte e spiegazioni talvolta poco plausibili. Come dimostra l'incertezza dell'ultima sequenza, chiusa con una sospensione narrativa destinata a interrompe una sequenza a cui per ragioni di logica non si doveva arrivare e che invece suggella un'operazione non del tutto riuscita.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinena.it)


DICKINSON

Dickinson
di, AA.VV.
a cura di Alena Smith
con, Hailee Stainfeld, Adrian Enscoe, Anna Baryshnikov, Jane Krakowski, Toby Huss, Ella Hunt, Samuel Farnsworth, Chinaza Uche, Darlene Hunt, Amanda Warren, Matt Lauria, Wiz Khalifa
USA, 2019 
stag. I, ep. I-X
durata: 25’-30’/ep.



Non mi sono mai sentita a casa - quaggiù -
né mi sentirò a casa - lo so -
nei cieli luminosi
Il Paradiso non mi piace

- E. Dickinson -


Magari persino per chi campa per lo più di immagini era arrivato il momento (al di là dell’opportunismo spicciolo e dell’oramai cronica mancanza di idee) in cui chiedersi se e quanto la Poesia - e, a inglobare, il poeta - avesse ancora qualcosa da dire in un mondo, il nostro, che di poetico non ha niente, persuaso com’è o, meglio, illuso di aver conseguito soddisfazione e armonia grazie alle alchimie di una sorta di ortopedia sociale volta a calcificare l’esistenza entro un’accozzaglia di sensazioni superficiali di rigido stampo materialistico. Nulla esclude, cioè, che sia stato un rovello simile a sobillare l’immaginazione di Alena Smith - già autrice di, ad esempio, “The newsroom” e “The affair” - al momento di metter mano, estraendolo di peso dal sempre mesto circolo chiuso dell’accademia come dall’impotenza divulgativa degli sparuti appassionati, a un personaggio del calibro e del fascino di Emily Dickinson, strepitosa singolarità a base di ingegno lucidissimo e passionalità febbrile quanto dissimulata vissuta nel cuore del XIX secolo in un piccolo centro del New England - Amherst, Mass. - estensore di quasi un paio di migliaia di concrezioni liriche pressoché mai pubblicate in vita e quindi rinvenute nel cassettone della camera ove aveva trascorso buona parte del suo tempo, volontariamente discosta dal caos della realtà eppure partecipe delle contraddittorie vibrazioni che da essa riverberano, a testimoniare la necessità e il senso di un percorso interiore intrapreso e mai abbandonato, la cui perseveranza si è interrotta un giorno di Maggio del 1886.

Si può discutere a lungo e, si spera, con argomenti, circa la decisione della succitata Smith di imprimere alla psicologia del personaggio principale di quest’opera e, di conseguenza, al suo modo di interagire col paesaggio costruitole attorno, il cosiddetto e per molti versi già trito canone pop (prendendo come riferimento, mettiamo, il “Romeo + Giulietta” di Luhrmann - 1996 - parliamo di una prassi, tarata sull’oceano mai pacifico dell’adolescenza, al lavoro da più o meno un quarto di secolo), a dire: linguaggio esplicito, sessualità proteiforme, una certa sicumera assertiva, consapevoli perché insistiti piccoli anacronismi, cromie spesso vistose, presenza costante e non di rado invadente di una colonna sonora ad altezza dei neuroni e delle pulsioni chiamate in causa, assenza di prospettiva storica e ribadite licenze di carattere sociologico, culturale, ambientale, et. Ciò che però dovrebbe essere comunque tenuto presente, ovvero messo nelle condizioni di risaltare, è il nesso teorico e metaforico che eventualmente si fosse creato tra l’essenza più autentica di una figura chiamata a incarnare a mo’ di emblema della stessa una qualsivoglia condizione - distintiva di un periodo, depositaria di capacità non comuni, et. - e la struttura che volta per volta le viene cucita addosso tipo abito nuovo

Ebbene: ribadite le riserve del caso, in un prodotto come “Dickinson” (che si avvale per la direzione dei primi due episodi della mano di D. Gordon Green e che Apple Tv +, patrocinatrice del progetto, ha già rinnovato almeno per un’altra stagione), la ricontestualizzazione della vicenda operata secondo la progressione narrativa, l’estetica e il tono tardo moderno della teen comedy e del teen drama, di certo lungi, per dire, tanto dall’accuratezza filologico-psicologica di “A quiet passion”, 2016, di T. Davies, che dalle rifondazioni e riletture integrali comuni a tanta cinematografia recente, trova a tratti - e sono i momenti più felici dell’intera operazione - nella sottolineatura degli atteggiamenti e dei crucci della giovane Emily/Stainfeld - ragazzina ambiziosa e spesso saccente, femmina arguta incline alla solitudine degli ingegni rari, intuitiva, ciclotimica, latrice di un suo goffo ma genuino erotismo, incapace di adattarsi alle convenzioni, di rimando desiderosa di aprirsi a orizzonti più vasti di quelli che le prospettano gli agi - e le trappole - domestiche (“Non voglio sbrigare faccende ventiquattro ore al giorno !”, intima alla madre/Krakowski, di contro quintessenza della massaia realizzata, cioè iper-frustrata, in grado di ribattere solo col più scontato degli “E che vorresti fare invece, signorina ?”, su cui cade, a troncare, un sibillino e straniante “Vorrei solo… pensare”) - una curiosa affinità con il volto più intimo di una esperienza umana e letteraria talmente povera di eventi (dell’autentico quotidiano della poetessa di Amherst si sa poco o nulla, ragion per cui le congetture sul suo conto hanno negli anni potuto svariare tra l’edificazione di un mito virginale e mistico, tutto ripiegato sulla contemplazione della propria tormentata rinuncia alla vita e il manifestarsi periodico ma non meno leggendario di un carattere antitetico, scientemente eccentrico, brillante e caustico, capace di intessere, attorno al segreto di una consuetudine sfuggente, relazioni personali profonde sebbene di - esclusiva ? - natura epistolare: Tra i miei giochi più patetici/quello di credere che tu mi scriva -/la finzione dura finché, quasi/ci crede anche il mio cuore), da aver conservato intatto, concentrato e costante, un fraseggio lirico tagliente, risoluto, elegantemente impudico, non di rado auto-ironico (sulla sua formazione, la Dickinson annota, perplimendo i suoi coevi: Sono andata a scuola ma non mi hanno insegnato niente. Da piccola avevo un amico che mi aveva insegnato l’Immortalità ma, essendoci andato troppo vicino, non è più tornato. E anche: Mio padre mi compra tanti libri ma mi supplica di non leggerli, perché ha paura che mi scuotano la mente), di continuo attraversato da squarci di una sconcertante modernità, affacciati come sono su tempi evocati in una dimensione inquieta, tra aspettazione e preveggenza (Era come se le strade precipitassero/poi - fu l’immobilità -/Eclisse: tutto ciò che era dato di vedere alla finestra/Terrore: tutto ciò che provavamo/A poco a poco - i più coraggiosi uscirono piano/ allo scoperto, per vedere se il Tempo c’era ancora -/La Natura indossava un grembiule d’opale/e impastava aria pura), fiducia e un quasi beffardo disincanto, tale, per costituzione, da risuonare alla stessa frequenza dell’esistente e quindi, a conti fatti, non stridere con l’azzardo di una riproposizione che da par suo ne altera la generale fisionomia: nei lineamenti (sfumati e incerti, avvolti da un candido pallore, quelli della Dickinson; scuri e più marcati quelli della Emily della finzione); nella mentalità di base; nelle abitudini, adombrandone persino la concorde sostanziale a-moralità (Notti selvagge - Notti selvagge !/Fossi io con te/notti selvagge sarebbero/la nostra passione, al tempo abbrivio di una celebre composizione della Dickinson e titolo di uno degli episodi della serie).

In altre parole, riesce, talvolta, come accennato - e quanto volontariamente perseguito o no, poi, a questo punto, interessa poco - l’inedito travaso, in forma di via di fuga spirituale da un conformismo che non ha epoca, da una mediocrità che non ha vergogna, da un’idiozia che non ha confini, dell’enigma, dell’elusività, della durezza anche, di una voce ritrosa, inappagata, in perenne ricerca di un altrove (Nella Storia le streghe le hanno impiccate/ma io e la Storia/troviamo gli incantesimi/di cui abbiamo bisogno, ogni giorno), in un tessuto adolescenziale ai giorni nostri programmaticamente saturo di sollecitazioni (si balla, ci si traveste, si festeggia con l’oppio, in “Dickinson”; come pure ci si intrattiene con la Morte/Khalifa - unico contraltare degno di considerazione - acconciata con le fogge di un rapper steam-punk); di esperienze visive (coloratissimi i costumi, in un trionfo di crinoline a sostenere intrecci e arabeschi delle tonalità più varie); di scoperte intime (il sesso è sì pudico ma fluido: Emily vi indulge in saffici approcci con il “vero amore della mia vita”, Sue Gilbert/Ella Hunt, promessa sposa dello scialbo fratello Austin/Enscoe ma non disdegnerebbe le attenzioni del gentile Ben/Lauria a sua volta intrigato da Austin, se la tbc - da cui Ben è affetto - non spezzasse sul nascere ogni possibile sviluppo); di grottesche o tragiche agnizioni (la delusione per le grandi intelligenze del suo tempo, tipo Thoreau o Emerson - che la vera Emily non frequentò mai - o il progressivo dischiudersi di un destino di isolamento in un contesto sempre più vissuto come un vacuo succedersi di rituali omologanti entro cui il dettato deterministico scandisce i ritmi di un’atroce ripetizione). Ogni aspetto come se le istanze nascoste, le insoddisfazioni allusive, gli abbandoni inermi ma precisi di una donna estranea alla sua contemporaneità, assunta la forma della tregua poetica, svelassero finalmente la meraviglia della propria duttile universalità, ovvero la prerogativa speciale di arricchire ogni suo interlocutore, in ogni tempo, qualunque maschera esso indossi - ecco la vera dote e l’unico riscatto della superficie, paradigma dei nostri giorni: la sua intrinseca capacità di assorbimento - dalla citazione al paradosso, dalla provocazione, passando per il sarcasmo, giù fino al cinismo, alla parodia e al cattivo gusto: perché Emily che apostrofa con un “Lei è un coglione” un Thoreau compiaciuto della propria meschina scaltrezza non è solo una battuta di raccordo ma è davvero la Poesia che mette in riga tutti i coglioni di questo mondo.
TFK


mercoledì 15 gennaio 2020

RICHARD JEWELL

Richard Jewell
di Clint Eastwood
con Paul Walter Hauser, Sam Rockwell, Kathy Bates, Olivia Wilde
USA, 2020
genere, drammatico
durata, 129'
Prima che il film entri nel vivo, raccontando di “Richard Jewell" e della cospirazione orchestrata nei suoi confronti da media e autorità c’è una scena che più di altre aiuta a capire il senso della storia. In essa l’avvocato interpretato da Sam Rockwell congeda il protagonista augurandogli di restare se stesso senza fare  dell’autorità che gli darà il prossimo incarico strumento di abuso e prevaricazione. L’intimità di quel colloquio, sottolineata dall’isolamento ambientale e dalla scarsa illuminazione degli interni in cui si svolge l’azione è destinata a essere il cuore della riflessione eastwoodiana, sulla scia di “Sully”, impegnato a ragionare sul concetto di eroismo e sulle sue implicazioni rispetto alle vite del singolo così come dell’intera collettività, alla luce delle manipolazioni operata dai detentori del potere. 
Se, da li in poi, quello che segue è la cronaca dell’attentato terroristico e della battaglia legale volta a dimostrare l’innocenza del protagonista rispetto all’accusa di aver piazzato il pacco bomba esploso durante un evento collaterale alle Olimpiadi di Atlanta, Eastwood non perde l’occasione per costruire il ritratto di uomini - del protagonista così come dei suoi interlocutori - travolti dalle contraddizioni della proprie fragilità e per questo destinati a un’esistenza senza gloria ne successo, anche nel momento in cui le condizioni sembrerebbero favorevoli a un inversione di tendenza.

In questa ottica e più di altre occasioni Eastwood destabilizza la centralità del personaggio, così come intesa dagli espedienti formali del cinema classico del quale è diventato ultimo alfiere, depotenziandola non solo nei contenuti, attraverso scene tese a evidenziarne l’immaturità emotiva e la dipendenza dalla figura materna ma, più in generale, togliendole quelle caratteristiche fisiche e fattuali che di norma spingono lo spettatore ad identificarsi  con i protagonisti dei film hollywoodiani. Senza contare che nel mettere in scena l’incostituzionalità della macchina investigativa, determinata a fare del protagonista il capro espiatorio necessario a coprire le inefficienze del sistema, Eastwood fa di “Richard Jewell” una esemplare trasfigurazione della politica e della retorica trumpiana. A sottolineare il primato dell’umano - sulle ideologie e sugli interessi di parte - che del cinema di Eastwood costituisce uno dei marchi di fabbrica.
Carlo Cerofolini

martedì 14 gennaio 2020

LA RAGAZZA D'AUTUNNO


La ragazza d'autunno
di Kantemir Balagov
con Viktorija Mirošničenko, Vasilisa Perelygina, Andrej Bykov
Russia, 2019
genere, drammatico
durata, 130'



Nei film di Kantemir Balagov la dimensione del conflitto è così forte da informare lo stile dei suoi film. Così se in Tesnota la discontinuità del montaggio, l’intermittenza ambientale e le inquadrature rubate alla realtà riproducevano la schizofrenia della narrazione bellica contemporanea, al contrario ne La ragazza d’autunno l’estensione temporale delle singole sequenze, la contrazione dello spazio intorno ai personaggi e il peso della messinscena corrispondono sul piano delle immagini al senso di accerchiamento, alla resistenza psicofisica e all’immobilismo sperimentate dalle protagoniste durante l’assedio di Leningrado.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers 3000)


domenica 12 gennaio 2020

HAMMAMET

Hammamet
di Gianni Amelio
con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Alberto Paradossi
Italia, 2020
genere, biografico, drammatico
durata, 126’



“Hammamet” non è solo una città della Tunisia, ma anche il titolo del nuovo film di Gianni Amelio che vede uno straordinario Pierfrancesco Favino nel ruolo tutt’altro che semplice di Bettino Craxi.
Il film ripercorre gli ultimi mesi di vita del leader socialista, divenuto anche presidente del consiglio e poi accusato, a seguito del processo Mani Pulite e costretto a fuggire. Craxi, fatta eccezione per la prima sequenza, coincidente con un comizio, è ad Hammamet con la famiglia, come indica la didascalia. Grazie alla lontananza dall’Italia e all’ormai mancato impegno politico, l’ex leader socialista può dedicarsi alla famiglia e agli affetti. Ed è proprio in questa direzione che la regia e il racconto di Gianni Amelio intendono andare. Il regista calabrese riesce a realizzare un film che esula quasi del tutto dalla figura politica e da ciò che essa ha significato per chiunque, concentrandosi, invece, sulla figura dell’essere umano. Non si parla più di presidente (anche se sono in molti ad appellarsi a lui in questo modo nel corso della narrazione), non si parla più di leader, non si parla più di politico. Adesso c’è solo l’uomo, il marito, il padre, il nonno. Nonostante sia impossibile, sia dal punto di vista tecnico del film, sia da quello del personaggio stesso che non può mai scindersi completamente, il risultato dell’opera di Amelio è quello di aver cercato di umanizzare una figura quasi agli antipodi di questo stesso termine.
Odiato praticamente da tutti (aspetto che si evince dai dialoghi con alcuni personaggi che non risparmiano battute al leader politico), è, però, amato e anche idolatrato fino quasi al limite dell’assurdo dalla figlia che continua impassibilmente a giustificare l’operato del padre, qualsiasi esso sia e accetta anche brontolate da parte del genitore seppur insensato.


Al di là dell’aspetto tecnico e della geniale costruzione quasi circolare del racconto, un aspetto interessante è la paradossale e totale assenza del nome del protagonista. Chiaramente deducibile dalle azioni e dalle situazioni descritte e mostrate sullo schermo, il nome Bettino Craxi non viene mai fatto, né attraverso uno pseudonimo, né attraverso un’abbreviazione. Il protagonista, costantemente presente in scena, non viene mai nominato, un po’ per paura, un po’ per la situazione in cui vive, quasi si volesse mantenere una sorta di anonimato. Ma la versione più accreditata è probabilmente quella legata all’umanizzazione del personaggio. Volendo uscire dalla sfera politico e concentrandosi solamente sull’essere umano, non avrebbe avuto senso fornire nome e cognome. Un eccellente Pierfrancesco Favino, truccatissimo e praticamente identico all’originale, fornisce l’ennesima prova attoriale di tutto rispetto che funge da vero e proprio perno della pellicola. Spicca, oltre a Favino, Livia Rossi, interprete della figlia di Craxi che regge bene la parte non sempre semplice. Però, al di là del personaggio e dell’ottima performance, non rimane molto di più della storia, un po’ spenta nei momenti di assenza del protagonista.
Veronica Ranocchi

LA FOTO DELLA SETTIMANA


Under the Silver Lake di David Robert Mitchell (USA, 2018)

mercoledì 8 gennaio 2020

TOLO TOLO



Tolo Tolo
di Checco Zalone
con Checco Zalone, Nicola Nocella, Souleymane Silla, Manda Tourè
Italia, 2020
genere, commedia
durata, 90'



Per capire la portata di un film come "Tolo Tolo" non è sufficiente rifarsi alle usuali categorie di giudizio, necessitando il film di Checco Zalone di una lettura ulteriore che, per forza di cose, deve tenere conto dei cosiddetti numeri del botteghino. I dati rilevati da Cinetel sono a dir poco impressionanti perché,  a fronte di un incasso complessivo attestato sui 23.994.163 di euro in soli quattro giorni di programmazione (distaccando di oltre 5 milioni di euro "Frozen II - Il segreto di Arendelle", classificato al secondo posto e uscito settimane prima); il divario diventa ancora più evidente se rilevato nella singola giornata in cui, a un ammontare parziale di circa 767.006 ottenuto dal nostro fanno da contraltare gli 80.108 di "Jumanii: The Next Level" e, sempre per rimanere ai lungometraggi di casa nostra, i 66.798 di "Pinocchio". Questo per dire che "Tolo Tolo" è innanzitutto un fenomeno popolar-commerciale decifrabile solo se si tiene conto del consenso che il protagonista si è costruito attraverso un'oculata gestione della propria immagine, presenzialista solo sul grande schermo e pronta a sparire dalla circolazione quando si tratta di frequentare talk show e rotocalchi.


Non è dunque un caso se anche nella finzione a fare da premessa alla nuova avventura del Checco nazionale, indebitato fino al collo e perciò costretto a rifugiarsi in Africa, sia per l'appunto la sua assenza. Una caratteristica peraltro confermata dalla proposta del suo personaggio, a differenza dei modelli interpretati da altri colleghi (per esempio Christian De Sica), pronto a svuotare di segno la propria immagine, tanto incorporea e intangibile di fronte alle complicazioni del reale quanto coerente nel giustificare la leggerezza/inconsapevolezza del protagonista di fronte al pericolo. Atteggiamento, questo, estraneo al mondo che conosciamo ma appropriata alla versione "sognata" dal nostro Mr. Magoo, come ci rivela il finale in cui la finzione del set cinematografico e l'immaginazione del cartone animato prevalgono su qualsiasi ipotesi di realismo. Un requisito che "Tolo Tolo" conferma anche nello stile della recitazione, surreale e mai naturalistica, sempre sotto le righe e mai sopra, sempre in controtendenza - nella sostanziale staticità/rigidità fisica -, rispetto al perpetuo movimento dei fondali, stimolato dalla natura on the road della storia. 

Che poi "Tolo Tolo" altro non sia se non il nuovo capitolo delle avventure del personaggio conosciuto a partire da "Cado dalle nubi", già sognatore e per questo obbligato a emigrare dalla sua terra d'origine (leitmotiv ribadito nel corso delle varie puntate) è evidente. Così come - lasciando stare il precursore Alberto Sordi de "Riusciranno i nostri eroi...", peraltro citato da Zalone in un passaggio che ne ripropone l'andatura da simpatico "lestofante" -, non è possibile ignorare la somiglianza del progetto (e delle situazioni) ad altri prodotti. Anche "Contromano" di e con Antonio Albanese e "Scappo da casa" di Enrico Lando, con Aldo Baglio, facevano della fuga e del viaggio un espediente per mettere i protagonisti al posto delle migliaia di diseredati che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste. Il confronto con questi film è però rivelatore perché, se Albanese raccontava l’alterità come un soggetto a sé stante, a suo modo capace di fare la storia in concomitanza e alla pari del protagonista, Zalone si rivolge al continente africano e alla sua popolazione in maniera egotista (e non razzista), pura e semplice estensione del proprio ombelico, in um'equipollenza di status che è pronta a condividere fino a quando la vicinanza al  prossimo è utile a soddisfare la domande di riso e divertimento.   


La novità però esiste e sta laddove non si aspetterebbe perché l'esordio alla regia dello stesso Zalone in concomitanza con la presenza di Paolo Virzì in sede di sceneggiatura diventano il viatico di una piccola ma importante svolta che riguarda tanto i contenuti che la loro messinscena. Questo perché, a differenza delle passate occasioni, la composizione dell'inquadratura smette di essere semplice fondale ma contribuisce a lavorare sull'immaginario dello spettatore, stratificando la rete dei significati e moltiplicando quella delle informazioni. In questo modo "Tolo Tolo" diventa a suo modo in viaggio nell'inconscio italico, ripercorrendone da par suo miserie (molte) e nobiltà (poche) degli anni più recenti (e anche meno, se a ricordarci chi siamo e da dove veniamo compare anche il "fantasma" di Benito Mussolini), facendo del deserto subsahariano e del camion stipato di migranti una versione contemporanea del mar Mediterraneo come pure del cargo ugualmente stipato de "Lamerica" di Gianni Amelio (a ribadire il sorpasso effettuato dalla commedia sul cinema drammatico, "derubato" del primato  di interprete principe della realtà). Il modo di mettere in scena la violenza, nascondendone vittime e mandanti ma facendone sentire il clima e il rumore delle sue conseguenze, e ancora il tramutarsi del naufragio di Checco e dei suoi compagni di viaggio in un balletto acquatico, simile a quelli presenti nei film con Esther Williams, colorano la storia di un'astrattezza poetica e insieme universale, non per forza bisognosa di battute e commenti per poter figurare nel testo di una commedia. Se poi consideriamo la complicità di Virzì, pronta ad arricchire il sottotesto visivo con un dizionario cinematografico in cui oltre al neorealismo e a Pasolini, compaiono qua e là il già citato Scola e persino lo Stranamore kubrickiano, replicato nel meccanismo oltreché nella satira con cui si articola la possessione che fa di Zalone una replica macchiettista del Duce, la nobiltà dello spettacolo è in qualche modo assicurata. Per il resto, il mondo alla rovescia immaginato (e suggerito dalla scena in cui vediamo l'isola capovolgersi su se stessa e riapparire nella forma "sognata") dal regista e formulato dal suo alter-ego continuano a lasciare tracce di sorrisi e simpatie capaci di riempire le sale e di far felici autori ed esercenti.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)


martedì 7 gennaio 2020

LE CLASSIFICHE DE ICINEMANIACI 2019






1 Parasite (Bong Joon-ho)/Storia di un matrimonio (Noah Baumbach)
3. Burning (Lee Chang-dong)
4.John McEnroe - L'impero della perfezione (Julien Faraut)/L’ufficiale e la spia (Roman Polanski).
6.Joker (Todd Philips)
7.Ritratto della giovane in fiamme (Céline Sciamma)
8.The Rider (Chloé Zhao)
9.Vice (Adam McKay)
10. Beautiful things (Giorgio Ferrero e Federico Biasin)



Carlo Cerofolini




1. Storia di un matrimonio (Noah Baumbach)
2. John McEnroe - L'impero della perfezione (Julien Faraut)
3. Tramonto (László Nemes)
4. L'ufficiale e la Spia (Roman Polański)
5. Parasite (Bong Joon-ho)
6. Il corpo della sposa - Flesh Out (Michela Occhipinti)
7. Che fare quando il mondo va in fiamme? (Roberto Minervini)
8. The Rider - Il sogno di un cowboy (Chloé Zhao)
9. La vita invisibile di Euridíce Gusmão (Karim Aïnouz)
10. Beautiful Things (Giorgio Ferrero, Federico Biasin)

Miglior regia: László Nemes (Tramonto)
Miglior attore: Jean Dujardin (L'ufficiale e la spia)
Miglior attrice: Scarlett Johansson (Storia di un matrimonio)
Miglior sceneggiatura: Bong Joon-ho (Parasite)
Miglior fotografia: Mátyás Erdély (Tramonto)
Miglior montaggio: Aline Hervé, Fabrizio Federico (Martin Eden)
Miglior colonna sonora: Andrea Koch (Normal)
Miglior film italiano: Il corpo della sposa - Flesh Out (Michela Occhipinti)
Migliori inediti: Maternal (Laura Delpero); Waves (Trey Edward Shults); Buio (Emanuela Rossi)
Miglior serie tv: You


TFK


1.   Oro verde  (Ciro Guerra e Cristina Gallego)
2.   The house that Jack built (Lars von Trier)
3.   Burning (Lee Chang-dong)
4.   Ad astra (James Gray)
5.   John McEnroe - L'impero della perfezione (Julien Faraut)
6.   The rider (Chloé Zhao)
7.  Vice (Adam McKay)
8.  Beautiful things (Giorgio Ferrero e Federico Biasin)
9.  Peterloo (Mike Leigh)
10.  I figli del fiume giallo (Jia Zhangke)

Miglior film: Oro verde (Ciro Guerra e Cristina Gallego)
Miglior regista: Lee Chang-dong (Burning)
Miglior attore: Brad Pitt (C’era una volta a... Hollywood);
Miglior attrice: Scarlett Johansson/"Marriage story";
Migliore sceneggiatura: Jacques Audiard e Thomas Bidegain (I fratelli Sisters) 
Migliore fotografia: Hong Yeong-pyo (Burning)
Migliore colonna sonora: Rolling thunder revue.  A Bob Dylan history (AAVV)
Miglior inedito: Zombi child (Bertrand Bonello) Mid 90 (Jonah Hill); The beach bum  (Harmony Korine)
Migliore opera di animazione: Weathering with you (Makoto Shinkai)
Migliore serie TV: Too old to die young; Euphoria.



Veronica Ranocchi



1.Parasite (Bong Joon-ho)
2.The irishman (Martin Scorsese)
3.L’ufficiale e la spia (Roman Polanski)
4.Storia di un matrimonio (Noah Baumbach)
5.Joker (Todd Philips)
6.C’era una volta a…Hollywood (Quentin Tarantino)
7.Ritratto della giovane in fiamme (Celine Sciamma)
8.Il traditore (Marco Bellocchio)
9.The Farewell - Una bugia buona (Lulu Wang)
10.Cafarnao - Caos e miracoli (Nadine Labaki) 

Miglior regia: Martin Scorsese (The Irishman)
Miglior attore: Joaquin Phoenix (Joker)
Miglior attrice: Scarlett Johansson (Storia di un matrimonio)
Miglior sceneggiatura: Parasite/Storia di un matrimonio
Miglior fotografia: L’ufficiale e la spia
Miglior montaggio: Ritratto della giovane in fiamme
Miglior colonna sonora: Joker
Miglior film italiano: Il traditore (Marco Bellocchio)
Miglior inedito: Babyteeth
Miglior serie tv: I Medici
Miglior film d’animazione: Weathering with you (Makoto Shinkai)



Antonio Pettierre


1.Burning – L’amore brucia (Lee Chang-dong) 
2. Parasite (Bong Joon-ho)
3. Storia di un matrimonio (Noah Baumbach)
4. Joker (Todd Phillips)
5. Ritratto della giovane in fiamme (Céline Sciamma)
6. Mademoiselle (Park Chan-wook)
7. Martin Eden (Pietro Marcello)
8. Vice – L’uomo nell’ombra (Adam McKay)
9. Captive State (Rupert Wyatt)
10.I fratelli Sisters (Jacques Audiard)

Miglior regista: Bong Joon-ho per “Parasite”
Miglior attore: Joaquin Phoenix
Miglior attrice: Scarlett Johansson                                                                     
Migliore sceneggiatura (ex aequo): Noah Baumbach (“Storia di un matrimonio”) – Lee Chang-dong (“Burning”)
Migliore fotografia: Chung Chung-hoon per “Mademoiselle”
Migliore colonna sonora: Alexandre Desplat per “I fratelli Sisters”
Miglior film italiano: Martin Eden di Pietro Marcello
Miglior film inedito: La Gomera di Corneliu Porumboiu