God bless America
di: Bobcat Goldthwait
con: Joel Murray, Tara Lynne Barr, Melinda Page Hamilton, Rich McDonald, Mackenzie Brooke Smith, Maddie Hasson
- USA 2011 -
105’
- USA 2011 -
105’
Esiste una sconfitta
pari al venire corroso
che non ho scelto io
ma è dell'epoca in cui vivo
— CCCP —
Magari qualcuno ricorda ancora o - e sarebbe un mezzo miracolo - di recente si è imbattuto in quel misto di rabbia e disgusto mano mano e testardamente assurto a rango di anatema distintivo non solo di un preciso periodo storico (l’imporsi definitivo del materialismo nella sua declinazione edonistico-reazionaria a cavallo degli anni ’80 dell’altro secolo), ma di quanto la iniqua lungimiranza dell’intrecciarsi delle circostanze sia capace di trasformarsi quasi senza colpo ferire, in questo caso, in stigma indelebile dello stesso stare al mondo nella dimensione di agonia protratta di quella che abbiamo imparato a conoscere - e a subire - col nome di modernità e post-modernità, pronunciato e ripetuto allo sfinimento da G.L.Ferretti nel brano dei CCCP “Morire”, ossia nel a suo modo celebre produci, consuma, crepa. Se tale affermazione, infatti, caustica (perché stanca delle menzogne consolatorie), eppure per nulla autocompiaciuta; feroce (perché certa della concretezza di una china suicida) ma non priva di un suo esausto sconcerto, non ci fosse appartenuta così nel profondo da far sorgere la necessità di rievocarla ogniqualvolta il tessuto della nostra normalità addomesticata patisce l’ennesimo strappo in direzione di quel collasso collettivo il cui incombere persino l’ipnosi propagandistica oramai stenta a dissimulare, l’avremmo abbandonata a sé stessa o, probabilmente, menzionata di sfuggita a mo’ di lascito di una personalità sguaiatamente provocatoria. Al contrario, lei è ancora tra noi e alla luce di un’opera come “God bless America” di Goldthwait, non possiamo esimerci dall’interrogarci sulle valenze, se possibile, ancora più drammatiche, acquisite nel frattempo (parliamo di oltre trent’anni) da una affermazione in grado di far risuonare sulle sue frequenze acide lo spartito del comune e immemore quotidiano di esseri umani del terzo millennio. Chiaro: bisognerebbe interrogarsi, ad esempio una volta per tutte, circa il momento esatto - e la scarsa resistenza opposta al loro inverarsi - in cui, mettiamo, abbiamo barattato la libertà e l’indipendenza di pensiero con la soddisfazione illusoria del benessere; o la facilità con cui abbiamo sepolto ogni dilemma morale sotto l’insindacabile urgenza presunta di un determinismo cieco a ogni istanza che non sia qui e ora redditizia: ma ciò - come è ovvio e anche giusto - esula dai compiti di questa minuscola rubrica e rimanda sia ad altri ambiti che allo specifico di una teorica riflessione individuale.
Ciò che comunque è fuori di dubbio è che un tarlo non dissimile a quello evocato dall’invettiva ferrettiana (benché a sua volta distorta dalla contestuale progressione beffarda dell’eterogenesi dei fini) si sia insinuato, con lentezza ma inesorabilmente, nel già mesto andirivieni che costituisce il corpo molle dell’esistenza di Frank Murdock/Murray, pingue uomo-massa a stelle e strisce incastrato in una routine senza apparenti vie d’uscita; tipo privo di particolari talenti però consapevole e stufo sia della propria mediocrità quanto soprattutto di quella di un panorama - l’attuale - che non solo è persuaso di esserne immune ma ha preso persino a vantarsene senza vergogna, tanto da raggiungere, al volgere di un giorno qualunque, il fatidico punto di non ritorno oltre il quale, a suo parere, all’opzione drastica e violenta non si oppone, come alternativa, che la beffa dell’assurdo. Del resto, cosa fare se tua figlia, ragazzina capricciosa e petulante, si rifiuta di passare del tempo insieme, riuscendo solo a sbraitare al telefono, complice una madre/ex moglie superficiale e permissiva, “Voglio un I-phone, voglio un I-phone, voglio un I-phone !” ? Cosa pensare se i tuoi colleghi di lavoro - pagliacci abbondantemente rincoglioniti da intere giornate spese all’interno di un loculo 2x2 a rimorchio di mansioni da scimmia digitale, eppure sempre lì a mettere in fila commenti causidici sulle prurigini delle celebrità - appaiono addirittura sollevati quando il Capo ti licenzia su due piedi con una motivazione difficile dire se più prevaricatrice o demenziale ? Come regolarsi se i tuoi vicini passano gran parte del tempo incollati al televisore deliziandoti, grazie a pareti divisorie spesse un dito, con i loro liquami catodici impreziositi dagli strepiti del pupo di casa che sembra non esaurire mai le lacrime conseguenti alla sua fresca venuta ? Vasto programma, avrebbe detto quello. Certo è che Frank attacca a rimuginare, aiutato nell’impresa da elementari constatazioni di fatto. Estromesso tra derisione e biasimo dalla produzione, assottigliatasi la capacità di accedere ai consumi, non resta, conclude, in un contesto come quello (nello specifico) americano contemporaneo, dominato dal chiacchiericcio deprimente dei mass-media, dall’idiozia come unica moneta di scambio e dalla volgarità umiliante del denaro e degli oggetti, che crepare. Eventualità che invero lui non esclude, anzi, prova anche a mettere in atto, non fosse che una certa irresolutezza intrisa di nostalgia da un lato e in generale quella comica accozzaglia di imprevisti che chiamiamo vita, dall’altro, si scoprono capaci di brigare insieme affinché prenda piede un’altra opzione: far sparire dalla faccia della terra tutti quelli che rendono la permanenza sulla medesima uno strazio insopportabile e/o un inferno scemo. E’ pure vero, però, che una follia del genere non sarebbe praticabile ma più di tutto non avrebbe lo stesso sapore se a condirne la sgangherata inerzia non ci piombasse sopra a piedi pari qualcosa di altrettanto stravagante e fuori controllo, a dire un micro uragano femmina con i connotati di Roxanne Harmon/Barr, olim vocata Roxy, teenager scappata dal caramello rivoltante di genitori a misura delle famigliole-modello della pubblicità, nichilista, ciclotimica, pasticciona ma arguta e decisa, pronta con la sua stramba effervescenza a scuotere il disilluso Frank indirizzandone l’hybris verso una sorta di percorso di eliminazione tanto impietoso quanto umorale e arrivando a sgrossare per sé e per il nuovo strampalato compare, di puro estro adolescenziale e vitalismo deviato, la fisionomia grottesco-criminale pari a quella dei più inverosimili Bonnie e Clyde.
In tal senso, appare già chiara l’inconsistenza di un prevedibile riflesso condizionato teso a creare un nesso diretto tra la parabola di Frank e Roxy e quella, per dire, del William Foster/Douglas in “Un giorno di ordinaria follia” o, meno ancora, quella degli sciroccati natural born killers dell’omonimo film di Stone. Se per un verso, appunto, la vicenda dello spostato di Schumacher somma al suo interno revanscismi da sempre latenti nell’inconscio della cosiddetta maggioranza silenziosa (recriminazioni, tra l’altro, del tutto assenti nel carnevale sanguinolento allestito a favore di telecamera dai coniugi Knox/Harrelson-Lewis dell’opera stoniana) con un malessere psicologico inerente un vissuto segnato da traversie private utilizzando la rivolta plateale in guisa di extrema ratio contro una frustrazione non più incanalabile, senza in ogni caso sindacare mai troppo sul meccanismo di coercizione alla base di un fallimento collettivo in parte perseguito e in parte a forza compartimentato dal sistema ma accontentandosi, seppur paternalisticamente, di cullare ancora un’idea di ordine e coesione sociale possibili nonostante l’infierire di una prassi caotica e indifferente; per l’altro, il destino di caratteri come quelli rappresentati dal nostro curioso binomio si profila e va a compiersi entro una cornice emotiva e passionale scevra da ogni interdizione intellettualistica come da qualunque rivendicazione sociologica o genericamente brandita a titolo vendicativo. Il gesto inaudito dei due protagonisti, in altre parole, il loro stesso itinerario omicida - ed è uno degli assi calati dal lavoro di Goldthwait, assieme a un tono interpretativo che dosa con accortezza e divertita impertinenza la naturalezza di un nonsense giunto a impregnare di sé ogni atteggiamento e ogni circostanza al punto da proporsi come unico grimaldello efficace per forzare una realtà priva di logica oltreché di pietà umana, falsa per definizione, satura com’è di colori sgargianti e di un’arietta da svendita permanente, e lo stupore melanconico qua e là mostrato nei confronti del rivelarsi di tali mancanze, inconsolabili perché soppiantate o, peggio, barattate con la stupidità e il vuoto - vive e si sostanzia di una sovversione che è prima di tutto estetica - ossia gratuita e amorale, quindi per definizione giovane: il mondo è brutto, recita il teorico assunto. Noi, eliminando “chi non merita di vivere”, lo rendiamo bello - eppure non meno sarcastica e incline allo sberleffo, alla autoparodia, dal momento che è inutile prendersi troppo sul serio se quello che ti circonda della serietà non sa che farsene. Così, Frank e Roxy fanno delle rispettive esasperazioni un solo, bislacco pactum sceleris e, come detto, uccidono, ma senza autentica malvagità, fanciullescamente, verrebbe da dire, a insistere sulla linea del paradosso, ossia come il ragazzino che distrugge il suo castello di sabbia perché non conforme all’idea che se ne era fatto. Per tale motivo, le affinità distintive di un film altresì più dolente di ciò che la sua confezione ilare e rilassata lascia trasparire vanno cercate altrove: per esempio nella ferocia stralunata e nell’ironia impassibile - di preferenza virata al nero - tenute assieme dall’alchimia della strana coppia di liceali costituita da James e Alyssa nella serie britannica “The end of the fucking world”, al cui cuore non è estraneo tanto lo smarrimento a volte inerme di Frank quanto la spiccia risolutezza di Roxy; o persino, di sicuro per echi tenui ma non discordi, nel periplo inconcludente e tragico epperò circonfuso di una sua arresa dolcezza intrapreso da Kit e Holly ne “La rabbia giovane” di Malick. Ma chissà. Forse l’intento vero, tacito ma non meno pregnante, perseguito da Frank e Roxy è sempre stato quello celiniano di morire irreconciliati, ancora di più di fronte a un paesaggio umano e materiale divenuto tanto avvilente. Il rischio, di nuovo preconizzato da Ferretti (“Io sto bene”), è che, oggi come oggi, anche questa sia solo una formalità.
TFK
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