domenica 9 agosto 2020

RESISTENZE ANIMATE



Questo è propriamente il mondo
in cui ci è dato tanto più da vedere
quanto meno ci è consentito
di mettere bocca
— G.Anders —


Dal momento che la sedicente modernità finirà, come tutto del resto ma, vista la china, finirà male, forse è il caso di cominciare a fare mente locale per cernere quel po’ di decente che è riuscita a generare durante la sua mesta oltranza. Delegata con ottimismo degno di miglior causa buona parte della primogenitura dei frutti dell’ingegno all’esuberanza tecnica, l’iniziativa umana ha via via ristretto i propri ambiti fino a rattrappirsi nel ruolo subalterno di esecutrice di norme standardizzate, di protocolli, di procedure da ripetere all’infinito, in una prassi anonima volta, per inerzia interna, a sovrapporre - lo scopo quello di diluirli in un conveniente indifferenziato - il fare all’agire. Di certo non immune, quanto sovente a riparo da tale deriva, l’arte dell’animazione, in specie quella laterale o genericamente indipendente (nel senso di lontana dalle strategie e dai numeri delle produzioni maggiori dal canto loro persuase/condannate, date le dimensioni e i relativi investimenti - e pensiamo alla Disney giusto perché è quella più conosciuta e meglio si presta, a onor di stazza da bersaglio grosso, al paragone - a una sorta di rimasticamento dei canoni del fantastico orientato in gran parte alla sterilizzazione delle sue spinte più audaci in favore di una prassi che, vellicando/manipolando il senso comune, traccheggia da anni in bilico tra l’edificazione più o meno palese e un anarchismo più di facciata che sostanziale), si è assunta l’onere o, se vogliamo, si è presa la libertà di riattraversare i vasti mari dell’immaginazione per elevarli, a mo’ di eustatismo virtuoso, mettendo mano a narrazioni meno inflazionate, a sviluppi e personaggi inconsueti, a snodi sempre intriganti - tratti ad esempio dalla tradizione, quindi svariando tra letteratura e leggenda, fiaba e folklore, passando per l’oralità e la musica - o dimenticati causa la necessità sospetta (almeno per un’ecumene assennata) di assecondare il nuovo come aprioristico grimaldello della conoscenza e dello stupore. Si è così sforzata di riportare in auge, facendo magari di necessità virtù, in ogni caso donando loro sfumature inedite, materiali poveri (la plastilina di “Wallace e Gromit”, per dirne una) e processi di lavorazione primitivi (il meticoloso passo uno, per dirne un’altra). Ha tentato cioè di essere allo stesso tempo spensierata e conflittuale, aperta e irriverente, a tutta prima risolta in una similmente smagliante apparenza ludica, in realtà depositaria di grumi problematici che abbracciano di volta in volta la crescita, l’apprendimento, l’affacciarsi della sessualità, l’ambizione personale e la ricerca di un proprio posto nel mondo, i momenti in cui la vita sembra funzionare, il ruolo della violenza, quello dell’amicizia, il valore dell’amore, l’ambiguità della verità, del reale e dei legami, il rapporto con la morte, ovverosia - ed è un paradosso difficilmente eludibile - ha scommesso sull’essere davvero moderna, se col predetto titolo intendiamo uno slancio espressivo in linea con le aspettative, i bisogni, le ansie e i timori di un sentire vieppiù articolato e complesso perché oramai sollecitato da spinte oltremodo contraddittorie, sfuggenti, non di rado al limite della comprensibilità. Anche per tale motivo, la selezione di lavori che abbiamo voluto raccogliere qui più che a una rigida volontà sistematica e catalogatrice, figlia di un rigore filologico di sicuro necessario eppure talvolta limitante, risponde a una logica, diciamo così, intuitiva, sentimentale - se il predetto termine non fosse stato espunto dal discorso pubblico dalla seduzione del cinismo, musmè oggi come oggi alla portata di qualunque tasca - per di più di proposito ancorata a questa nostra travagliata contemporaneità (le opere considerate sono recenti o recentissime) in modo da tenere viva la fascinazione - e gli eventuali stimoli che da essa scaturiscono - suscitata dalla prossimità di un rapporto ancora fresco ed emotivamente coinvolgente. Non si potrebbe spiegare altrimenti in maniera più esaustiva la persistenza negli occhi e nel cuore dell’impertinente malìa regalata dalle note dello shamisen del piccolo Kubo in “Kubo e la spada magica”, 2016, dell’americano Knight; l’avvertita bonomia e l’umorismo quieto di Gromit nel già citato “Wallace e Gromit - La maledizione del coniglio mannaro”, 2005, dei britannici Park e Box. Come pure dell’impronta del coraggio e della caparbietà a nutrire un preciso desiderio di avventura e di scoperta in “Sasha e il Polo Nord”, 2015, del transalpino Chayé o in “Coraline e la porta magica”, 2009, di Selick, da un racconto di Gaiman illustrato da McKean. Stesso discorso per il dolore della perdita precocemente subito e lo sforzo di comporlo in una dimensione di tollerabile malinconia attraverso il conforto della vicinanza o la saggezza derivante da un sapere ispirato in “La mia vita da zucchina”, 2016, di Barras e in “Il libro di Kells”, 2009, dell’irlandese Moore. O, ancora, rendere conto del passo lieve, quasi inerme eppure vigile e introspettivo, viatico per una prima e non necessariamente confortante disamina dell’umana condizione, della tregua precaria su cui essa fonda le sue azioni e intesse i suoi affetti, ne “La tartaruga rossa”, 2016, dell’olandese Dudok de Wit e in “Your name”, sempre del 2016, a cura di Shinkai Makoto; quanto osservare l’impronta unica di un destino che si compie ricongiungendosi alle linee imprecise dei ricordi e delle speranze, in “Ho perduto il mio corpo”, dell’esordiente Clapin, 2019, distribuito da Netflix.

D’altro canto, lealtà prescrive che si dia ragione di una apparente incongruenza - con ogni probabilità già notata da molti - vale a dire la presenza nella nostra lista (vedi immagine di copertina) di un nome come quello di Takahata Isao, autore di punta di una delle più importanti fucine di animazione esistenti, la giapponese Studio Ghibli. Ebbene: in un mondo che - a parole - sposa le regole ma per trito opportunismo non fa che andare a letto con le eccezioni, riteniamo di avere una scusa inattaccabile violando con la prepotenza di una minima infrazione il criterio di scelta che ci siamo imposti. Questo per dire che, a stringere, la spiegazione dell’inserimento di un’anomalia all’interno di un corpus più o meno compiuto è addirittura banale anche se, oggi come oggi, rischia di essere rivoluzionaria: “La storia della Principessa Splendente”, lungometraggio del 2013, ultimo di Takahata, è di una bellezza sconcertante. Tutto qui. In costante, magico e sinuoso equilibrio sul filo sottile dell’astrazione.

E’ sensato infine aggiungere che la presente antologia non ha intenzione di essere esaustiva, tantomeno latrice di chissà quale proposito pedagogico o, peggio ancora, edificante. Suo dispettoso vezzo è solo quello di richiamare negli animi inquieti (quindi giovani per definizione) quel senso di meraviglia a loro così familiare perché privilegio dei corpi alati, prima del definitivo inabissamento nella palude del pratico e dell’utile.
TFK

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