domenica 5 aprile 2020

INVISIBILI: GUY AND MADELINE ON A PARK BENCH

Guy and Madeline on a Park Bench
di Damien Chazelle
con Jason Palmer, Desiree Garcia: Madeline, Sandha Khin
USA, 2009
genere, drammatico, musical
durata, 82'


Se è vero che Damien Chazelle avrebbe scritto la sceneggiatura di "La La Land" nel 2010, riuscendone a realizzare un film sei anni più tardi, grazie alla stima conquistatasi presso gli Studios hollywoodiani per il successo ottenuto con "Whiplash", non c’è dubbio che "Guy and Madeline on the Park Bench" costituisca una sorta di prova generale del pluripremiato lungometraggio. Girato nel 2009 sviluppando quella che all’inizio doveva essere la tesi di laurea, ciò che fa di "Guy and Madeline on a Park Bench" il prototipo della filmografia di Chazelle non è certo una semplice questione di contiguità cronologica. A tal proposito il regista americano gioca fin da subito a carte scoperte dichiarando l’amore per un cinema - quello hollywoodiano di epoca classica - concretizzatosi nell'allestimento di una storia realizzata secondo i dettami  del genere americano per eccellenza e cioè di quel musical anni 50 (in particolare quelli della Metro Goldwin Meyer) a cui il Chazelle tornerà a guardare per concepire il suo progetto più ambizioso.


Più che il romance insito nella vicenda dei protagonisti, la cui unione è destinata a durare il tempo necessario allo scorrere dei titoli di testa, a caratterizzare "Guy and Madeline on a Park Bench" è soprattutto la musica: quella Jazz suonata da Guy (Jason Palmer, noto trombettista americano) e l’altra, del fido Justin  Hurwitz (compagno di scuola di Chazelle e sodale nei suoi lavori successivi) incaricata di dare il là ai tip tap in cui Madeline e gli altri personaggi si cimenteranno nel corso della storia: una priorità, questa, resa evidente nella funzione assunta dal collage visivo che introduce la vicenda. I fotogrammi iniziali, quelli designati a riassumere la parabola amorosa di Guy e Madeline, servono di fatto al regista per innescare la suspence narrativa legata alla curiosità dello spettatore di conoscere la sorte dei protagonisti e cioè per sapere se le vicende a cui sta per assistere saranno o meno la premessa di un incontro successivo. Quesito, quello appena ipotizzato, in grado di mantenere vivo un principio d’azione altrimenti messo in discussione dalla struttura centrifuga della trama, al pari della musica Jazz che ne accompagna le scansioni, impostata a procedere con andatura sincopata e per variazioni successive intorno al tema centrale (da sempre caro al regista), rappresentato dall’impossibilità di conciliare gli egoismi dell’ispirazione creativa con le vicissitudini della materia amorosa. Tenute insieme da queste premesse e in attesa che l’epilogo possa avere seguito, il regista fa si che le divagazioni narrative e le performance musicali siano in qualche modo coerenti con le esistenze dei personaggi - separati nella vita ma uniti dalla volontà di trovare il proprio posto nel mondo -, essendone in qualche modo il riflesso dello stato d’animo.



Dalla presenza di aspetti autobiografici (l’amore per la musica e il tentativo di farne lo scopo della propria carriera, come pure i trascorsi universitari coincidenti negli studi effettuati da Guy presso  l’Università di Princeton), alle caratteristiche ricorrenti come quella di trattare i sentimenti alla pari di uno spartito musicale, ovvero variandone di continuo toni e frequenze, per non dire del dazio pagato dall’amore, costretto ogni volta a lasciare il passo alle ambizioni personali e infine il perseguimento ossessivo della performance (rintracciabile anche in "First Man - Il primo uomo"), tutto in "Guy and Madeline on a Park Bench" anticipa il cinema che verrà. Eccezion fatta per la forma, costretta da risorse limitate a una messinscena lontana delle estetiche dei modelli di riferimento (i film di Stanley Donen, citato in apertura dalla signorina con l’ombrello, a ricordare forse "Cantando sotto la pioggia") e perciò votata a un cinema veritè che fa della mancanza di mezzi il principio della propria verosimiglianza. I primi piani avvicendati da zoom improvvisi e  campi lunghi, le riprese rubate alla strada e alla libertà di movimento degli attori, l’uso del bianco e nero e soprattutto la percezione di una trama organizzata a tempo di musica e mediante il pedinamento dei personaggi ripresi mentre vanno a "zonzo" per la città, ricordano certo cinema della nouvelle vogue ma anche il Cassavetes di "Ombre", capostipite di quel cinema indie della cui lezione il primo Chazelle ha di certo fatto tesoro. Presentato in anteprima al Tribeca Film Festival del 2009, "Guy and Madeline on a Park Bench" si fa guardare più per il suo valore filologico che per   la straordinarietà dei risultati, costituendo di per sé una versione ancora grezza del talentuoso autore.
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)

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