Regia di Emanuela Rossi
con Denise Tantucci, Valerio Binasco, Gaia Bocci, Olimpia Tosatto
Italia, 2019
genere, drammatico, thriller
durata, 98’
L'immagine della parete divelta e del fascio di luce che squarcia l'oscurità in cui sono immersi gli interni è il segno dominante di "Buio", il film di Emanuela Rossi che per l'esordio alla regia sceglie di raccontare una storia di ordinaria follia con le forme di un cinema che fa della paura e della sua mancanza lo strumento di crescita e di conoscenza. La trama del film è presto detta, con le tre sorelle segregate dal genitore all'interno della dimora che a suo dire le dovrebbe proteggere dall'ambiente esterno, reso invivibile dallo sconvolgimento climatico che impedisce alla popolazione femminile e solo a questa di uscire durante le ore diurne, pena la morte tra mille sofferenze.
Come il lettore può intuire, "Buio" non fa nulla per nascondere la sua affiliazione ad alcuni dei capolavori del cinema di genere quali "The Others" e "The Village", di cui riprende atmosfere e contesto narrativo, ma al tempo stesso non rinuncia a scriverne un nuovo capitolo, a cominciare dall'uso del fuori campo e, dunque, della dialettica tra ciò che si vede e ciò che riusciamo solo a immaginare, tra il conosciuto e lo sconosciuto, tra gli interni della casa - l'ambiente principale in cui si svolge la storia - e ciò che si cela al di fuori di essa. Se il claustrofobico inizio potrebbe far pensare il contrario, la rottura degli equilibri, a favore di una visione diretta del paesaggio circostante e la successiva esplorazione dello stesso da parte della sorella maggiore, conferma una diversità che incide sullo sviluppo narrativo nel momento in cui decide di togliere all'altra parte del mondo quelle caratteristiche fantasmatiche da sempre impegnate ad alimentare la cornice visiva fatta di desiderio e di paure. Ma non solo, poiché, venendo meno al rapporto dialettico di cui prima si parlava, "Buio" ne ricrea un altro di segno opposto, localizzato all'interno dell'abitazione dove vivono i protagonisti e sottolineato dalla presenza/assenza del genitore, quest'ultimo chiamato a essere depositario del significato ultimo della vicenda. Una svolta non da poco, quest’ultima, dal momento che, alla luce del divieto a uscire imposto alla componente femminile, la sottrazione di spazio subita dalle ragazze assume una valenza politica chenon sveliamo allo spettatore, per non rovinare il gusto della scoperta e riguardante l'ambiguo atteggiamento del padre nei confronti delle figlie, più o meno indirettamente connesso alla questione della violenza sulle donne alle quali neanche il gineceo assicura più l'incolumità fisica.
Se a "Buio" non mancano ambizione e coraggio dal punto di vista tematico, lo stesso si può dire per quanto riguarda la messinscena a cui spettava la scommessa di ricreare un mondo che esisteva solo nella mente dei personaggi. La sfida era dunque di allestire un universo coerente al contesto della vicenda e in maniera analoga capace di riflettere nelle scenografie, negli abiti, nelle acconciature e negli oggetti di scena le ossessioni di cui si nutre l'esistenza dei personaggi. Da questo punto di vista la Rossi costruisce un dispositivo ai limiti dello sperimentale, buono a trascendere la realtà per mostrarla nell'ottica deformata con cui la percepiscono le parti in causa. A questo si deve per esempio l'alternanza tra immagini piatte e frontali, volte a rappresentare la mancanza di vitalità dei personaggi, con altre oblique e sfuggenti che esasperano la profondità di campo degli interni per diventare il segno della devianza. Lo stesso principio informa la scelta registica relativa al fatto di associare immagini artificiali del paesaggio ogni volta che questo entra a far parte delle inquadrature girate all'interno della casa, a sottolineare la mancanza di naturalezza e la manipolazione dei rapporti famigliari. Ma a raccontare la vicenda è anche il contrasto musicale tra la melodia de "Il tempo delle mele", hit anni 80 scelta come emblema della stasi temporale e dello status quo del sodalizio familiare, e la musica elettronica che ne rappresenta l'improvvisa rottura; tra il look trasgressivo e modaiolo delle giornate libere, e i vestiti virginali degli obblighi e del dovere e, ancora, tra le composizioni compassate che rimandano all'ubbidienza e alla sottomissione, e quelle di matrice psichedelica con la prevalenza di colori al neon a sottolineare il momento della ribellione. E se tutto questo non bastasse, si potrebbe sottolineare la polemica anticapitalistica tipica del genere presente in una delle sequenze chiave, quella in cui Stella viene a conoscenza del mondo esterno e, invece di cercare il contatto umano, altro non fa che recarsi nel primo centro commerciale per riempire il carrello di prodotti, come se la regista, criticando il primato degli oggetti, volesse dare ragione al padre delle ragazze e al suo monito sull'irrimediabile malattia che affligge la società dei consumi. A conferire credibilità alle varie stazioni di cui si compone il film si rivela così decisiva la capacità mostrata dall'ottimo Valerio Binasco e da una ancor più convincente Denise Tantucci di filtrarne attraverso i propri volti le atmosfere, i drammi e le inquiete aperture.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it
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