Light of my life
di, Casey Affleck
con, Casey Affleck, Anna Pniowsky, Elisabeth Moss, Tom Bower
genere, drammatico
USA 2019
durata,119
La desuetudine a intessere e consolidare rapporti umani autentici è talmente invalsa nella contemporaneità da avere accelerato negli anni la proliferazione (e relativa seppur limitata redditività) di un sottogenere centrato proprio sulla latitanza - o sul penoso impaccio - della corrispondenza emotiva tra individui, sullo sfondo di una marginalità quasi orgogliosamente rivendicata (“Leave no trace”, della Granik, 2018, per dire) o della stenta sopravvivenza in un mondo ridotto a disincarnato simulacro di sé stesso (“The road”, di Hillcoat, 2009, da McCarthy).
Nel solco di questa ancor pubere tradizione delle passioni tristi si inserisce il quasi esordiente (alla regia) Affleck, con una storia a lungo meditata e in costante equilibrio tra resistenza sfinita e guardinga apertura. Sull’abbrivio fornito da un intreccio come accennato in tempi recenti piuttosto frequentato - qui, causa una singolare epidemia selettiva la popolazione femminile del pianeta subisce una drastica decimazione - un giovane padre/Affleck stesso, nei panni cirenei di un uomo autoinvestitosi di una responsabilità enorme, vaga per gli Stati Uniti prossimi venturi in cerca di un luogo sicuro dove far crescere la figlia Rag/Pniowsky, ragazzina immune precocemente edotta alle durezze della vita adulta e potenziale preda per coercitivi progetti di ripopolamento da parte di comunità sterili oltreché residuali, prive altresì di qualunque futuro. Se la scrematura di gesti e parole e la collocazione geografica rimandano senza equivoci a quel vincolo peculiare che racchiude in un connubio al tempo travagliato e pregnante un certo modo di essere americano, la sua proiezione metaforica, e l’ambiente naturale/wilderness (nel caso, gli scenari arcaici e monumentali della Columbia Britannica, luogo delle riprese - i suoi boschi silenziosi e occhieggianti, i suoi cieli severi, i fiumi, le montagne -), la trama sottile, non necessariamente evidente, delle trasformazioni interiori, degli stati d’animo in bilico tra l’apprensione alimentata da una tragedia sempre incombente e l’umana aspirazione a un domani stabile e rassicurante, si attarda a disegnare un quadro il più possibile aderente a una verità di fondo che dei legami, in specie quelli affettivi, è l’essenza, il senso e il lato oscuro, a dire quel substrato ineliminabile di abnegazione, timore della perdita, proiezione, desiderio di affrancamento che da ogni gioco a due fa capolino. Così il padre, volta per volta, istruisce e addestra la figlia - sovente e per ovvi motivi fatta passare per un ragazzo - alle innumerevoli incognite nascoste nelle pieghe di una vita appartata e raminga (ideazione e memorizzazione della via di fuga al momento di fissare una nuova dimora; ricerca, approvvigionamento e conservazione di fonti di cibo, utensili e materiali; disbrigo quotidiano di un certo numero di inderogabili incombenze manuali: l’igiene, la cura dei rari oggetti personali, lo studio del territorio, la lettura come irrinunciabile esercizio dello spirito, et.), esortandola al tempo a non trascurare la sforzo di dare forma alla propria identità cementandola attorno a una consapevolezza di sé chiara e definita all’interno di un mondo per contro irrimediabilmente mutato, stravolto nella gerarchia dei suoi pur labili e illusori valori ma, più di tutto, retrocesso a un cupo groviglio di pulsioni prevaricatrici (e sembra di sentire l’eco dell’ironia amara di Edward Abbey: “La violenza è americana quanto la torta di mele”). Di rimando, la figlia lenisce la disperazione del padre per una normalità distrutta al suo nascere (la madre/Moss, in rapidi flashback focalizzati su un recente passato e sovrapposti alla desolazione del presente per rimarcarne la dolorosa assenza, consola e incoraggia il marito affidandogli, poco prima di morire, una creatura da crescere) sostituendovi la disciplinata irruenza di una giovinezza che le circostanze hanno reso speciale e l’unicità di una passione femminile che nel mondo vede, comunque, la meraviglia di una opportunità, di un’altra luce, in grado di sovvertire tanto aspettative ridotte al minimo quanto ruoli vieppiù irrigiditi dalla necessità.
Anche per tale motivo risulta coerente e appropriato sia il registro letterario che quello espressivo adottato da Affleck per dare risonanza a un dialogo in apparenza limitato a due voci, in realtà aperto alle più varie sfumature evocative. Del resto, il primo accosta la materia rinnovando la fiducia nelle proprietà maieutiche insite nell’ostinazione a raccontare storie allo scopo di ancorare una coscienza ancora in formazione all’esigenza di misurarsi e quindi di apprezzare nella sua cangiante complessità l’enigma sfuggente delle cose (il film si apre su una lunga fiaba narrata dal padre a Rag alla luce di una torcia durante una delle tante tappe del loro itinerario di salvezza, per tornare nei frangenti di apprensione o di sconforto, a ribadire l’importanza di una tensione immaginifica che non deve andare perduta, pena la condanna all’irrilevanza - il padre ripete più volte alla figlia che, qualunque cosa accada, lei prevarrà perché è “tosta, sensibile e preparata” -); il secondo privilegia la bruciante epifania dell’attimo come istante di crescita da isolare per mezzo di una serie ininterrotta di inquadrature le quali, tranne nel caso di contati movimenti laterali della mdp, vanno a formare l’intero corpus dell’opera, armonico e assorto incastro di concatenazioni progressive in cui la dinamica dei corpi, il tono e la cadenza delle frasi, gli sguardi, le esitazioni, gli scampoli di brutale autoconservazione, fissano la scansione di una sorta di incedere spontaneo, di fatalità implicita (e già siamo dalle parti di Van Sant), di approssimazione alla luce, luce che Arkapaw cattura meravigliosamente radente per i campi medi e lunghi nel gelo immoto di brevi mattini invernali e concentra piena o di poco sfumata nei toni pastello per i piani ravvicinati e per gli interni.
TFK
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