domenica 18 aprile 2021

Invisibili: Ham on Rye

Ham on rye

di, Tyler Taormina

con, Haley Bodell, Gabriella Herrera, Audrey Boos, Luke Darga, Adam Torres, Blake Borders, Sam Hernandez, Cole Divine, Grant McLellan, Gregory Falatek

genere, commedia, drammatico

USA 2019

durata, 85'


Scared to death, no reason why

Do whatever to get me by

Think about the things I said

Read the page, it's cold and dead

And take me home…

— Alice in Chains —



Dovesse prendere piede una usanza simile negli scopi a quella (leggendaria) attribuita agli Spartani di far volare giù dal Taigeto i difettosi di un corpo sociale costruito a misura di un assunto intriso, nel caso, di farneticazioni sulla purezza e la distinzione, una simulazione collettiva tipo l’attuale autoproclamatasi, con gran spiegamento di trombettieri, modernità, non indugerebbe un minuto a disfarsi delle proprie eccedenze, in specie quelle adolescenti e, nello specifico, dei suoi residui recalcitranti, di norma usi ad avvertire un inconfondibile puzzo di morte tra le pieghe di un mondo che li sfrutta (iscrivendoli d’ufficio, sin dalla più tenera età, nel miserando girone dei consumatori passivi) e li umilia (vellicandone l’inesperienza con promesse fatue e/o irrealistiche). Insomma, nessuno scampo per tutti quei seccanti elementi di disturbo purtuttavia interni a un’ennesima versione delle già patetiche sorti-e-progressive per mezzo delle quali erano state illuse innumeri generazioni precedenti. E ciò, si noti, senza bisogno di esporsi all’inconveniente rappresentato, mettiamo, dagli spargimenti di sangue, come si sa piuttosto vistosi, bensì operando attraverso quell’invalso meccanismo di marginalizzazione progressiva e in apparenza indolore con il compiersi del quale si finisce per riconoscersi estranei alla propria stessa esperienza esistenziale, giungendo a sparire dal consesso civile confinati in un qualche tipo di ridotta psichica o inghiottiti da una palude invisibile fatta di apatia, disincanto e impotente ribrezzo.



Su tali scivolose coordinate prova a orientarsi l’opera di esordio di Taylor Taormina, “Ham on rye”, anno di grazia 2019, (per fortuna niente a che spartire con Bukowski, anche se Eppure sapevo che quello che vedevo non era bello e semplice come sembrava. C’era un prezzo da pagare, per tutto questo, una ipocrisia generalizzata, alla quale era facile credere, e che costituiva il primo passo lungo una strada senza uscita, tratto dall’omonimo romanzo dell’outsider americano per eccellenza, lasci risuonare vibrazioni non così stridenti tra i due lavori), esperimento disadorno ma tutt’altro che corrivo, elegante nella forma e inquieto nei sottintesi, condotto attorno agli istanti disarmati, fluttuanti in una ambigua soavità, che separano la stagione acerba da una prima consapevolezza adulta, i quali istanti, in accordo ai fatti che si dipanano lungo il film, vanno a risolversi nel letterale dissolvimento di coloro che si trovano ad attraversarli. Ciò a cui assistiamo, per l’appunto, è il confluire alla spicciolata, al culmine di una giornata qualunque di inizio estate, di gruppetti sparsi di ragazzi e ragazze presso  un diner - il Monty’s (sulla piazza dal 1953, come ricorda l’effige sulla sua vetrina, lasciando d’incontro filtrare possibili echi di una passione d’autore di stampo malinconico-riepilogativo) - all’interno del quale, dopo avere consumato bibite e panini e provato a fraternizzare un po’ oltre la timidezza e la diffidenza indotte dai rispettivi imbarazzi, mettersi a inscenare una sorta di prom fuori dal protocollo scolastico, sorretti e accompagnati da una colonna sonora che rimanda invero proprio ai languori e alle nostalgie gentili dell’”American graffiti” di Lucas più che, ad esempio, alle distorsioni apprensive del “Singles” di Crowe, oltreché goffamente avviluppati in abiti che scimmiottano una età matura che mai raggiungeranno. E questo perché, al termine di danze impacciate e asserzioni speranzose risoltesi nello splendore di un globo di luce purissima che sancisce probabilmente l’approdo a uno stato di grazia irripetibile (“Sembra che tutto sia esattamente dove dovrebbe essere”, si lascia scappare uno di loro), man mano, sciamando nel caramellato crepuscolo incipiente, i sorridenti virgulti svaniscono senza lasciare traccia e senza che ciò inneschi alcuna significativa reazione. 



Partendo dal presupposto che esiste qualcosa di incomprensibile ma non necessariamente addomesticabile sotto la placida unanimità-del-mondo, rovello su cui già Sartre aveva apposto uno stigma orientato quantomeno a identificarne alcune eventuali implicazioni (Una specie di senso orribile poggiato pesantemente sulle cose e che ha l’aria di attendere) e disponendoci, così, a stare al gioco, la metafora di base aleggiante sopra un prodotto come “Ham on rye” si scopre addirittura didascalica ma pure, volendo, sfiziosa, percorsa com’è da indizi che ne svelano, almeno in parte, l’ipotetica intenzione di origine. Sparire-nel-nulla, infatti, mettendo tra parentesi le rigidità riconducibili alle asfissianti pretese del realismo e/o della verosimiglianza, dogmi indiscutibili su cui troneggia la presunta razionalità del reale, può avvicinarsi alternativamente tanto all’anomia congenita di un contesto (quello a stelle e strisce coevo e, per estensione, il modello planetario stesso di convivenza che al suddetto esempio va sempre più uniformandosi) tarato sulla indifferente intercambiabilità dei suoi membri, quanto alla non escludibile extrema ratio agognata dai medesimi per risparmiarsi una siffatta china, a dire la prospettiva di una vita la cui sostanziale inclemenza viene con metodo distorta per mezzo di uno spesso strato di diversivi, di succedanei, di pseudocompensazioni allucinatorie (il successo, il tempo soggettivo sagomato sui criteri dell’intrattenimento, la rimozione della morte et.). Mentre, d’altro canto, la sua messa in scena si incarica di testimoniare lo sforzo finalizzato a porsi di traverso rispetto a più o meno analoghe elaborazioni tentate altrove (pensiamo, per dire, all’inconcludenza omicida dei pari età di Sutton, in “Dark night”; alla astratta effervescenza degli stessi in - ancora di Sutton - “Pavilion”; o, per contro, all’indaffarata esuberanza delle matricole di Linklater, tra “Dazed and confused” e “Everybody wants some” o, ancora, all’anarchismo spensierato profuso in un altro esordio, quello di Vogt-Roberts, in “The kings of summer”. E per tacere del recente “Spontaneous”, di Duffield, durante il quale gli studenti di un liceo, da un giorno all’altro, prendono a esplodere nel significato primo della parola). Qui, i ragazzi, una filza di volti anonimi, in gran parte amichevoli eppure come prematuramente avveduti, oltre a fare ciò che di solito fanno i ragazzi quando stanno tra loro - annusarsi, dire scemenze, darsi un tono, riflettere su sé stessi a voce alta, et. - non mostrano un atteggiamento risoluto nei confronti di quello che gli sta intorno, non lamentano affanni insormontabili. Più di tutto, non sembrano covare chissà quale ribellione al di là di una generica - e di prammatica - voglia-di-essere-altrove, come non rivendicano la gestazione di particolari progetti (Haley/Bodell arriva anche a sottolinearla, tale predisposizione d’animo, scongiurando, forse, proprio grazie a questo stratagemma retorico, la personale scomparsa: “Non so dove voglio andare”, dice, lo sguardo assorto). La loro cancellazione dall’ordine delle cose, assecondando questa ipotesi, pare quindi rientrare, banalmente, nell’infinita lista degli slanci non contemplati, dei propositi irrilevanti, degli obiettivi variamente abortiti, che la succitata, sedicente razionalità-del-mondo assimila facendone a meno giorno dopo giorno in virtù di una contabilità al tempo irresistibile, esigente e cieca, in ogni caso immune da ripensamenti quanto priva di memoria. A questa stregua, i giovani, come sopra accennato, già tutto sommato superflui perché sempre più identificabili con una delle tante categorie merceologiche espressa dal Mercato, si fanno congetturali, anodino argomento di conversazione se non, sul serio e tristemente, irreali, ossia inesistenti. Del resto, sparire, oggi come oggi e ancora di più per un palcoscenico tipo quello americano che tale logica ha santificato e contribuito a diffondere, rappresenta una condizione non secondaria affinché l’ingranaggio materialista all’interno del quale si indica al singolo ogni esperibile dimensione di senso fluidifichi al meglio la circolazione di quello che, a tutti gli effetti, ha assunto i lineamenti e le proporzioni di un destino comune e irreversibile, giunto a compimento col binomio/atto di fede a nome costi/profitti. Taormina, in tal modo, fa suo il pendolo schopenhaueriano notoriamente oscillante fra dolore e noia innanzitutto rallentandone l’inerzia, smorzandone le asperità più urticanti ma anche più prevedibili (il denaro, il sesso, il turpiloquio come argot/passe-partout, i dissidi familiari, et., se esistono non fanno parte delle vicende che ci vengono presentate) in una quasi ritrosa successione di blande allusioni, di ellissi troncate sul nascere, di bislacchi entr’acte (le une e gli altri in grado di intrigare o indispettire - è ovvio - a seconda della disponibilità a lasciarsi coinvolgere degli apparati ricettivi di chi guarda), adeguandolo, cioè, ai tempi della sazietà e del decoro di facciata, dell’ebetudine irriflessa e delle paturnie senza oggetto, delle vaghezze pretestuose e dei futili entusiasmi, ciascun espediente proiettato sullo sfondo di un paesaggio umano e materiale retrocesso da decenni a mero parco a tema, e inanellando, al contempo e via via, ammicchi che, per pura accumulazione, si fanno però sempre più incongrui, cripticamente ominosi, come che sia latori di un malessere in evidente contraddizione con il susseguirsi persino svagato dei rari accadimenti che costituiscono il nucleo narrativo della storia, a loro volta poi tenuti in tensione più dal già menzionato commento musicale che da una vera e propria dinamica interna, al contrario e di fatto, pressoché assente. Di conseguenza, anche i frammenti di suggestione tessuti a margine della giovinezza come ultima Thule delle età dell’oro, nonostante il pallore sabbioso di una luce radente che volge il tono di fondo di tutta la prima parte di questo “Ham on rye” verso una arresa sebbene stranita elegia di suo affine, non fosse che per accostamento epidermico, allo strazio differito delle vergini suicide di Sofia Coppola, da Eugenides (le bouganvillea in fiore a richiamare i bouquet delle ragazze; le attività sonnolente lungo i viali dei quartieri suburbani tante volte descritti da Richard Yates nella loro duplice veste di rifugi dalle ansie metropolitane e incubatrici di ogni bassezza; lo strano tepore che si irradia da quella precoce stanchezza-di-vivere che a volte accomuna lo stremo e la resa inopinata al più piacevole degli abbandoni), paiono al fine non poter far altro che convergere verso un gemello deforme e tiranno che ambisce a piegarne ambizioni e desideri entro un calco malleabile dal quale far emergere l’unico risultato per lui accettabile, ossia il capitale umano di domani.


Coerentemente, allora, la solita, sottile ma ostinata sensazione di inconsistenza così a fondo avvinta al sentimento prevalente che viene naturale oramai sovrapporre alla questione giovanile contemporanea, vira con minimo attrito nella direzione di una mestizia più rassegnata che macabra al momento di isolare il vissuto di chi resta, uomini e donne dall’anagrafe appesantita non solo nei giorni (nulla vieta di pensare a loro, altresì e a questo punto, come alla versione invecchiata degli altri che, espunti da un meccanismo imponderabile, si sono evitati l’onta di un avvenire mediocre, stupido o insensato) ma ostaggio di un atroce falso movimento perpetuo fatto di cibo consumato meccanicamente durante la notte nel frattempo scesa insidiosa e muta, di birre tiepide e occhi vacui che cercano qualcosa di autentico e stabile su cui posarsi e non lo trovano, mentre ogni cosa insiste a ripetersi senza variazioni (“E’ tutto uno schifo”, mugugna tra sé uno dei ragazzi grandi escluso dall’enigmatico lavacro), in attesa di un irreparabile che già Eschilo aveva con inquietante lucidità preconizzato (Ciò che attende alle soglie del buio col tempo fiorisce. Gli altri li tiene in una notte impotente. Tornerà a prenderli più tardi), che ai giorni nostri Benasayag e Schmit hanno riassunto, parafrasando Spinoza, nell’espressione epoca delle passioni tristi, ovvero nel pietoso esito conseguito da una Civiltà intera consistente nel fallimento di una redenzione laica del mondo da conseguire per il tramite dell’utilitarismo parcellizzato su scala individuale, e che la solitaria e raminga Haley, incredula ma ignara, accoglie ancora una volta su di sé sotto forma di un nuovo, limpido giorno d’estate. I grew up and forgot what colour world was…

TFK

0 commenti:

Posta un commento