Dimension bomb
di, Morimoto Koji
genere, animazione
[in “Genius party beyond”, ep. IV]
Giappone, 2008
durata, 20’
She knows the rain
It brings her up and takes her down
It’s all the same
- Opal -
Quel qual alone di tristezza che da sempre avvolge l’Arte per i limiti intrinseci legati alla più generale inconsistenza della vicenda umana, trova nella forsennata consuetudine tardo moderna un perverso complice/carnefice in grado, al tempo, di vellicare la speranza circa la di lei capacità di incidere continuativamente anche in una prassi oramai ostaggio del più unanime materialismo e di frustrarne la medesima velleità diluendola in primis nel gorgo delle sollecitazioni infinite che assediano l’immaginario contemporaneo. Il risultato più banale ma anche più deprimente di questa contraddizione (perché evoca una perdita patita sotto forma di una assenza nemmeno più vissuta come tale) è la relativa facilità con cui un’opera degna quantomeno di essere sottoposta alla curiosità di ipotetiche vaste platee passa bensì sotto silenzio o - e per certi aspetti è anche peggio - resta confinata nei ghetti specialistici e/o nei solipsismi devozionali.
Da tale deriva è persino impellente riscattare (ed è in questi casi più che in altri che ci si riscopre critici, ovvero orrendamente mediocri) un lavoro come il presente “Dimension bomb” di Morimoto, contenuto a mo’ di episodio nell’animazione collettiva dal titolo “Genius party beyond”, del 2008. In genere, la tentazione prevalente di fronte a creature dell’ingegno e della passione restie, come questa, a concedersi tanto all’indagine razionale quanto all’immedesimazione distratta, è quella di liquidarle, nel migliore dei casi, come esercizi di stile: attitudine, a volte, non dissimile dalla carica mistificatoria attribuita a un pensiero di cui si intuisce - e si teme - una certa carica eversiva. Eventualità in ogni caso tutt’altro che peregrina, la predetta - per carità - risulta però spesso insufficiente a smontare per intero la legittimità di taluni sforzi formali qualora si convenga su un paio di considerazioni. Innanzitutto - ed è molto meno ovvio di quello che si è disposti ad ammettere - per esercitarcisi, su uno stile, bisogna averlo. E già qui la faccenda si complica. Inoltre, il particolare ambito preso in considerazione, quello più ampio delle immagini con nel suo grembo l’altro, più specifico, del disegno (animato), per sua natura risulta dotato di un’arma di eccezionale efficacia: l’ascendente visivo. Ossia, di base, il potenziale pressoché infinito di tessere - a partire da un insieme di segni organizzati per il tramite di un determinato bagaglio tecnico da una variante individuale dell’estro, del senso estetico e della fantasia - trame, rimandi, associazioni ulteriori, cortocircuiti linguistici, senza che ciò necessariamente chiami in causa una premessa e una soluzione logica o, meno ancora, il conforto di una spiegazione. In tal senso, proprio il minifilm dell’autore nipponico si presta - suo malgrado, ovviamente - a indossare le vesti di parziale ma indispensabile abbecedario sullo stato di avanzamento del costante processo di approssimazione, sovrapposizione e rielaborazione di procedimenti, schemi e modelli al servizio dell’esuberanza creativa.
All’interno di un orizzonte siffatto, allora, diviene oltreché congrua anche necessaria la corte di giustapposizioni, di alternanze nervose di tonalità e cesure narrative, di stasi premonitrici di una prepotente dimensione alternativa che brulica a un niente dalla superficie del reale. Lo stesso per angosce sommesse entro sghembe accelerazioni e rallentamenti stupiti che insieme si inseguono, si accavallano e si alternano lungo le traiettorie di un racconto che abdica da subito ai criteri di linearità e consequenzialità puntando su figure umane affidate a un tradizionale tratto continuo però quasi stilizzato, i cui dettagli vengono tenuti in tensione ariosa e geometrica più dalle variazioni cromatiche che dagli interventi sui volumi (talvolta si fa persino ricorso a una bidimensionalità tanto ricercata quanto icastica), chiamando poi quelle e questi a integrarsi con un ambiente - volta per volta agreste, metropolitano, industriale - al quale è la CGI a dettare le direttrici di sviluppo e a conferire consistenza, in un doppio registro espressivo che alla fluidità e alla freschezza del gesto e dell’atteggiamento associa, certo per contrasto tuttavia secondo i percorsi inediti di uno strambo ma a suo modo febbrile incanto - ecco il primo e più seducente dei pregi del tentativo di Morimoto - la staticità minacciosa della materia e la languida opalescenza del paesaggio, a corroborare l’evenienza di una dilatazione lisergica dell’impeto spirituale dell’ukiyo-e. Tutto ciò a partire da un compatto cielo blu oltremare su cui in lontananza procede orizzontalmente una sorta di velivolo (un’astronave in manovra di atterraggio ?), mentre una ragazzina in tunica, sneakers e grosso nastro a intrappolarle i capelli improvvisa in un sotterraneo una danza sotto una lampada oscillante al centro di un suo personale cerchio magico il quale, più avanti, diventa semplice sfondo bianco a cui regalare eleganti movenze da circassa impreziosite qua e là da intarsi e schizzi di colore degni di una lama di Masamune o delle celebri schegge grafiche kandinskijane. Indi, la sospensione iniziale si tramuta, sulla scia di un tappeto sonoro elettronico, in un essere antropomorfo con cui la protagonista non ha la minima relazione ? Che ha forse solo immaginato ? O che con la forza del desiderio ha in qualche misterioso modo concorso a evocare ? Quesiti oziosi: lo scarto di qualche fotogramma ed è già tempo di cominciare comunque a interagire privilegiando il linguaggio simbolico dei segni e dell’ironia fanciullesca (“Cheese !”) a esorcizzare, forse, una istintiva aptofobia, per poi inseguire insieme una farfalla accompagnati dal commento meditabondo di un fraseggio di piano: “Non è facile come pensi” (questa come le altre sparute linee di dialogo sono recitate da una infantile voce femminile tanto vivace quanto interrogativa, orchestrata su brevi risolini, lallazioni, nonsense), “Se ci fosse una farfalla in un campo credo che la prenderei” (qui di nuovo il tratteggio si fa essenziale, la prevalenza delle sfumature tenui accompagna l’incanto delle prime volte con le sue esitazioni e i suoi stupori). Ma il desiderio è tale anche e soprattutto perché recalcitra davanti alla stabilità e alla ripetizione e con la stessa disinvoltura con cui elegge l’oggetto preferito della sua indagine così lo respinge (“Uffa, ti odio !”), invitandolo a suo modo a incarnarsi, a prendere una foggia quantomeno riconoscibile, processo che di solito assume i connotati di un trauma violento, nel caso tanto in parte indotto quanto in sostanza registrato passivamente, a dire senza che si faccia nulla per evitarlo, fino a quando lo strazio per la avvenuta separazione (che, a questo stadio, è già una separazione da una parte di sé stessi) è troppo lancinante da essere sopportato ed esige una ammenda…
Se il Passato è il regno dell’inevitabile, il Futuro si costruisce a partire dall’istante, ovvero dalla possibilità che a esso si concede di dispiegarsi in reiterate porzioni di Tempo al fine di accoglierne e sostenerne l’affacciarsi alla percezione. Ed è l’istante in cui l’alieno - così lo definisce la voce-bambina - dopo un processo assimilabile a un parto durante il quale si vede strappare di dosso (o viene costretto a separarsi, come sacrificio per accedere a un mondo nuovo) la propria forma astrale (l’anima ?) lasciata a una inerzia invisibile che la conduce (muta, a testa in giù, in un dolce collasso dilatato all’infinito) tra vicoli in penombra, edifici fatiscenti, grattacieli sbriciolati, raffinerie/acciaierie/ futuribili laboratori abbandonati, condomini immensi e silenziosi, lungo litoranee e prospettive desertiche o montuose (parliamo dell’inserto più arreso e metafisico del film), sutura la lacerazione della sua diversità e rinasce come promessa, come ipotesi di armonia tra razze a tutta prima incompatibili, riannodando le trame di quello stesso desiderio che il sospetto, l’impazienza, l’ignoranza avevano - come accennato - interrotto: “Se sparissi dal mondo, saresti triste ? “, domanda ora sussurrando la voce-bambina. “Io lo sarei di sicuro”. Così, la oculata spensieratezza compositiva - quelle cromie sinterizzate sui gialli impalpabili, gli arancio pieni e decisi, i rossi e gli ocra più lievi, gli scuri e i neri impenetrabili, tipo occhi senza fondo; quelle sagome severe e come intente delle architetture e degli scorci, la fissità mai inerte degli scenari naturali - si raccoglie in una parentesi ai confini dell’avventura sensoriale, verso cui confluiscono anche il dettato della volontà (sfidare l’evidenza) e la disposizione sentimentale (ambire a un ordine rigenerato e giusto): qualcosa di maestoso e di intimo, di crudele e di beato (“Sembra agrodolce”), pulsione verso l’inesistente (“Shin, fagli una foto”) di due mondi complementari divisi dalla dicotomia simmetrica inverno-primavera (metà di quel cielo ordinario adesso si è indurito in una oscurità nevosa; l’altra persiste placida in una calma turchese. Al centro un sole splendente fa baluginare gli estremi angelico-demoniaci delle sue ipotetiche evoluzioni) eppure sorretti dalla sofferenza che la progressione circolare di quel desiderio originario implica, nella speranza illusoria ma incoercibile di un suo superamento (“Ecco perché mi piace il gelato fritto”), prima di scoprirsi solidali e vulnerabili davanti alla contemplazione di un tramonto, accettando, cioè, di una condizione di confidente vicinanza tanto l’esemplarità che la pena.
Indipendentemente dai giudizi, esiste l’eventualità che la collocazione migliore per un singolare oggetto come “Dimension bomb” si trovi in quella impertinente gratuità grazie alla quale azzardo, sperimentazione, destrezza e sguardo ludico si incontrano per il solo piacere di ricombinarsi liberamente comportandosi come elementi primari di una suggestione ingenua (che, si badi, non vuol dire credulona e, men che meno, stupida, come per lo più intende la contemporaneità ottusa, ma pronta ancora a scommettere - e quindi, certo, anche a perdere - sulla meraviglia nascosta delle cose) in grado di prendere corpo e trasformarsi mano mano in una configurazione aperta, curiosa, se così si può dire, a testimonianza ulteriore di come l’Arte, per quanto imperfetta e sempre più marginale, insista a voler funzionare a più livelli e in direzioni diverse. A questo proposito, potrà risultare interessante e/o sorprendente, a seconda delle sensibilità personali, affiancare alle tavole in movimento di Morimoto, ad esempio, la prima parte di “In a silent way” di Davis o, magari, “Voice of the turtle” di Fahey.
“Cheese !”.
TFK
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