domenica 28 febbraio 2021

The Dissident. La recensione del film di Bryan Fogel

The Dissident

di Bryan Fogel

USA, 2021

genere, documentario

durata, 119'



Destinato a far parlare di se prima ancora di essere visto The Dissident di Bryan Fogel non smentisce la sua fama e alla pari del suo protagonista si ritrova dissidente,  costretto a restare fuori dalla sua terra d’elezione se è vero che sia Netflix che Prime Video le due piattaforme più importanti del pianeta hanno rinunciato a programmarne le visione per paura (così si dice)  di dispiacere i potenti della terra.

Non nuova a operazioni del genere per fortuna ci ha pensato MioCinema ad acquistarne i diritti per distribuirlo in esclusiva a partire dal 12 febbraio. Il motivo di questa anomalia e’ in parte da attribuire  alle stesse ragioni per cui davanti all’evidenza delle prove dell’assassinio di Jamal Khashoggi, avvenuto nel 2018 all’interno del consolato saudita a Istanbul, nessuna nazione ha pensato di schierarsi apertamente contro le istituzioni del paese arabo, preferendo voltarsi dall’altra parte piuttosto che fare i conti con l’ipotesi più che provabile e cioè che quello di Khashoggi è stato un omicidio di stato, volto a eliminare non solo uno degli oppositori del regime più in vista di altri ma anche colui che un tempo era stato parte integrante del sistema e dunque a conoscenza della politica di quel governo fino al momento in cui non ha deciso di tagliarsene fuori trasferendosi negli Stati Uniti.

Se il cuore del documentario è costituito dalle ultime immagini di Khashoggi, ripreso dalle telecamere a circuito chiuso mentre entra nel comprensorio diplomatico lasciando la fidanzata ad attenderlo di fronte all’edificio, The Dissident amplia il discorso relativo alla scena del delitto con una ricostruzione dei fatti volta a delineare tanto i motivi del conflitto tra le parti, quanto le conseguenze generate nel mondo politico e diplomatico internazionale dall’evidenza dei fatti, e cioè dalle accuse nei confronti dei mandanti.

Boyle non si limita a svuotare il potere della sua ambigua fascinazione al fine di mostrane il suo vero volto – come si evince dalla sovrapposizione tra l’immagine distesa e sorridente  del principe Mohamed bin Salmane e  le parole della voce narrante che ci informa delle nefandezze  compiute dai suoi presunti emissari.

In un continuo confronto tra personalità opposte il montaggio di The Dissident costruisce infatti una sorta di storia alternativa in cui la vittima anche da morto, attraverso la testimonianza del suo vissuto, non smette di interrogare i carnefici sull’iniquità dei loro misfatti, tratteggiando un quadro generale impermeabile a qualsiasi tentativo di manipolazione.

In effetti l’importanza della posta in gioco e di quella dei temi che da essa scaturiscono non deve far dimenticare l’efficacia del dispositivo allestito dall’autore. In questo senso a venirci in aiuto nel ragionamento e’ il paragone con le sequenze della morte del presidente John Fitzgerald Kennedy filmate da Abraham Zapruder in occasione del tragico attentato.


Come il Zapruder Film anche quello relativo alla scomparsa di Khashoggi assume le forma di un lungometraggio, con inizio, sviluppo e fine frutto di un montaggio di scene girate ex novo e/o tratte da filmati d’archivio che nel loro insieme forniscono alle immagini degli ultimi istanti di vita del protagonista un’aggiunta di significati senza scalfire di un millimetro quella resilienza di cui parla Nicolò Gallo in Framing Death (edito da Bonomia University Press) a proposito dell’omicidio del Presidente americano. Come quelli, di Zapruder anche i fotogrammi di The Dissident sono sottoposti a destabilizzazioni di segno opposto, a secondo del punto di vista di chi li osserva. e ciononostante riescono a non far venire meno l’oggettività di una perdita ancora in cerca di un colpevole. In tal senso The Dissident offre allo spettatore l’opportunità di farsi un’idea che lascia pochi dubbi al reale svolgimento dei fatti e al perché del loro verificarsi. La conoscenza va di pari passo con l’incredulità su come neanche la morte sia più materia di scandalo.

Carlo Cerofolini

(pubblicata su taxidrivers.it)

Nomadland. La recensione del film di Chloè Zhao

Nomadland

di Chloè Zhao

con  Frances McDormand

USA, 2021

genere, drammatico

durata, 108


L’ascesa di Chloé Zhao


Nomadland di Chloé Zhao è innanzitutto la conferma di una poetica che in soli tre film (Song my Brother Taught Me e The Rider – Il sogno di un cowboy, gli altri due) ha piantato le sue radici nell’immaginario del cinema americano contemporaneo  al punto di imporsi forse anche al di sopra delle aspettative della stessa regista. Abituata a lavorare in regime di indipendenza con budget e troupe ridotte all’osso e con largo uso di attori non  professionisti, la Zhao ha infatti appena finito di girare un blockbuster, Marvel (Gli Eterni) pieno zeppo di star ed effetti speciali, e questo la dice lunga sulla suggestione esercitata delle sue direzioni presso i gestori della grande macchina hollywoodiane.


La capacità di conciliare spinte opposte 


Provare a immaginare per quale ragione i Mogul degli Studios se ne siano innamorati equivale a chiedersi  che tipo di storia sia Nomadland e in quale rapporto si ponga con le istanze del proprio tempo. E qui veniamo a uno dei nodi centrali del film, perché nel raccontare la scelta di Fran (Frances McDormand), decisa a vivere una esistenza nomade, perennemente in viaggio di stato in stato sulle strade di un Paesaggio da western americano, Nomadland approda a una sintesi capace di conciliare pulsioni opposte: da una parte il desiderio di intimita’ e di raccoglimento e nel complesso di vita minuta che per la donna e’ esigenza caratteriale ma anche necessità contingente (dettata dalla volontà di metabolizzare un recente lutto); dall’altra il senso di infinito e la voglia di libertà che in Nomadland scaturiscono dal contatto con la natura e di conseguenza dal rifiuto delle pratiche urbane. 



Blockbuster dell’anima 


A suo modo, dunque, Nomadland e’ un film epico perché attraverso l’ esperienza individuale della sua protagonista si confronta con uno dei miti del grande paese e cioè con una frontiera – geografica ma anche simbolica –  la cui novità non consiste  più nell’essere un territorio estraneo ma al contrario quasi familiare, quello in cui meglio di altri ci si può riconoscere e sentire a proprio agio.





Da Into The Wild a Nomadland


A differenza dell’Alex Supertramp di Into The Wild che all’inizio del millennio si faceva antesignano dei nuovi ribelli in aperta critica con il modello di società borghese, la fuga dal mondo di Nomadland ha perso lo slancio eversivo non discriminando il sistema ma venendoci a patti (ad esempio, Amazon in cui saltuariamente lavora Fran) in  un quadro generale di rassegnazione che però non fa venire meno lo spirito indomito con cui la protagonista asseconda là proprie attitudine. Afflato non dissimile dalle figure raminghe ma sempre solidali e avvertite tipiche del cinema, ad esempio, di una come Kelly Reichardt, vedasi tra gli altri Wendy e Lucy o il recente First Cow.


Così vicino, così lontano


In continua dialettica tra vicino e lontano, tra primi piani esistenziali e prospettive illimitate, tra interni ed esterni, Nomadland mette insieme la capacità di raccontare l’uomo e il suo spazio spingendosi agli estremi delle sue possibilità, dunque stupisce fino a un certo punto trovare Chloe Zhao a capo di una storia – quella realizzata per conto della casa delle idee – che a occhio e croce mette in campo le stesse dinamiche traslate su un piano cosmico e fantascientifico. Ai posteri L’ardua sentenza: per adesso godiamoci Nomadland, sicuro protagonista della prossima notte degli Oscar.




Ps. L’arte di Frances McDormand 


Guardare la faccia di Frances McDormand in Nomadland e riconoscervi la vita di una persona. E’ una sensazione questa  che si rinnova ad ogni nuovo incontro, il che,  in generale, fa  pensare che per un attrice come lei  stare davanti alla mdp con così tanta credibilità non sia solo una questione di talento ma dipenda anche dalla coerenza delle sue scelte, a cominciare da quelle relative ai ruoli da interpretare e soprattutto a quelli da rifiutare. A ben vedere la Fern di Nomaland potrebbe essere parente stretta della  Mildred Hayes di Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri, il che è tutt’altro che casuale.


Tratto dall’omonimo libro di Jessica Bruder,  Nomadland ha vinto il Leone d’Oro alla 77a Mostra del cinema di Venezia; ha ottenuto 4 candidature al Golden Globes e tra gli altre 5 candidature agli Spirit Awards.  


Carlo Cerofolini

(pubblicato su taxidrivers.it)



domenica 14 febbraio 2021

TUA PER SEMPRE

mercoledì 10 febbraio 2021

Malcom & Marie

Malcom & Marie

regia di Sam Levinson

con Zendaya, John David Washington

genere, drammatico

durata, 105'


Il merito più grande di Malcom & Marie è quello di farti dimenticare ciò che stai guardando. In fondo si tratta di un film in bianco e nero, girato in unico ambiente, con due soli attori in scena alle prese con una trama costruita sul confronto dialettico tra i loro personaggi. Insomma, parliamo della quintessenza di come non dovrebbe essere un copione appetibile dagli studios. La magia del cinema invece sta proprio lì e cioè nella capacità di trasformare un’opera da camera in un’esperienza glamour totalizzante e immersiva come quelle sperimentate durante la visione di un blockbuster.
Anche in questo caso al centro della scena c’è un conflitto e di conseguenza la messinscena di uno scontro solo che al posto dei corpi a confrontarsi sono le psicologie e le parole della coppia in questione.
Pur non toccandosi le parti in causa se le danno di santa ragione e mentre lo fanno la mdp di Sam Levinson ci porta nel bel mezzo della battaglia, tra fendenti lessicali e rivelazioni esistenziali che lasciano il segno. Il tutto arricchito da attori - David Washington e Zendaya - che nel diventare altro da se alimentano consapevolmente il proprio status symbol: un paradosso questo del tutto coerente con un contenitore fatto apposta per esaltare il divismo e la mitologia del cinema hollywoodiano, omaggiato anche laddove - e Mank ne è esempio - se ne mettono in evidenza le manchevolezze.
Volendo lo si potrebbe etichettare come un divertissment d’autore se non fosse che in Malcom & Marie c’è davvero poco da ridere.

Carlo Cerofolini


sabato 6 febbraio 2021

L'ULTIMO PARADISO