giovedì 26 novembre 2020
lunedì 9 novembre 2020
lunedì 2 novembre 2020
domenica 1 novembre 2020
CON LA VERITA' DELL'ALLIGATORE DANIELE VICARI PORTA SULLO SCHERMO DI MASSIMO CARLOTTO
IlL MIO CORPO. CONVERSAZIONE CON MICHELE PENNETTA
Nel raccontare l’incontro di due solitudini, Il Mio Corpo di Michele Pennetta narra il senso di rifiuto vissuto da Oscar e Stanley, protagonisti di una storia di quotidiana emarginazione. Vincitore del premio Rosetta ad Alice nella Città
In realtà, come dici tu, sono due persone che per quanto lontane, anche dal punto di vista geografico, si ritrovano a vivere nello stesso territorio La cosa che fin da subito mi ha affascinato, e per la quale ho deciso di mettere in risonanza i loro destini, è che entrambi hanno lo stesso sentimento di rifiuto – inteso nel senso più ampio del temine – impresso nei loro volti. Un sentimento derivato dalla consapevolezza di vivere una vita già decisa da altri. Nel caso di Oscar, dai genitori; in quello di Stanley dallo Stato, nella veste dei funzionari che lo rappresentano. Come dice la nonna al bambino, è un destino che si replica da sempre, comune a quello dei migranti, anche loro destinati a reiterate il viaggio che li vede lasciare i loro paesi per venire in Italia, luogo da cui verranno rigettati e costretti a errare senza una meta. Parliamo di una condizione e di un concetto che si ripete all’infinito.
Parli di significati e dunque ne approfitto per agganciarmi a quello espresso dal titolo. In senso marxista, Oscar e Stanley sono spogliati da tutto tranne che del loro corpo, attraverso il quale passa la ragione della stessa esistenze. La loro condizione lavorativa non gli permette di emanciparsi dal punto di vista economico e dunque sono l’esempio dell’uomo concepito da Karl Marx. Il mio corpo torna a questa parte del suo pensiero per mostrarne l’attualità.
Certo, sono completamente d’accordo con te. Quello è stato il concetto del marxismo nella visione del corpo come strumento ed è la cosa che mi ha veramente colpito rispetto alle esistenze di Oscar e Stanley, nel senso che ho ritrovato dei concetti letti solo nei libri di storia. Il titolo in parte deriva da lì e cioè dal corpo inteso come strumento di sopravvivenza. C’è poi un lato più religioso e sacro per cui il corpo è inteso come sacrificio della persona.
Rispetto alle immagini, privilegi quelle in cui i protagonisti sono in continuo movimento. Questo da una parte rimanda alla precarietà della loro condizione e all’irrequietezza che ne deriva, dall’altra alla spinta nel ricercare l’altro.
Esatto. I personaggi sono in continuo movimento e questo ribadisce anche il concetto sulla ciclicità del destino umano. Attraverso il fatto che le vite di Oscar e Stanley sono entrambe in perenne movimento, cerco di annullare il concetto dell’altro, nel senso che l’altro sono loro e gli altri siamo noi. Mettendo in relazione i mondi dei due personaggi, ho la speranza di far capire per primo a me e poi gli altri che viviamo nello stesso suolo e camminiamo sulla stessa terra.
Il mio corpo narra l’incontro di due solitudini. I campi lunghi a cui spesso ricorri le restituiscono, attraverso un paesaggio isolato, deserto e spoglio.
A livello formale, il film è frutto di dieci anni di ricerca e di riflessione, rispetto a cos’è per me un documentario; su quale sia il limite tra realtà e finzione e su come utilizzare gli strumenti del cinema per arrivare al documentario, cercando di trasmettere il mio punto di vista attraverso la forma. Nei film precedenti ho capito di cosa avevo bisogno per poter tradurre quello che vedevo e per capire come volevo che fosse. Con Il mio corpo ho cercato di fare un documentario in cinemascope, un formato che di solito non gli appartiene.
Non a caso, dal punto di visto del paesaggio, sembra di guardare un western.
Proprio così, l’intenzione era quella di trasmette allo spettatore di trovarsi di fronte a un western contemporaneo.
La prima parte del film è più narrativa, la seconda privilegia un andamento più’ contemplativo. Partendo da qui, volevo chiederti: come regista, in che misura intervieni sulla realtà e quanto invece lasci che si manifesti davanti alla mdp.
Prima di girare, come sempre succede, ho fatto un grande lavoro con i personaggi, nel senso che ho passato del tempo con loro per farli abituare alla mia presenza e per capire io quali situazioni da loro vissute mi piacerebbe seguire e quale drammaturgia potrebbero avere.
La stessa cosa si ripete all’arrivo della troupe, in questo caso formata da sei persone. Con loro abbiamo trascorso un mese senza girare, in cui passavamo solo del tempo con Oscar e Stanley. Tale vicinanza ha fatto sì che certi momenti, che sembrano messi in scena, in realtà non lo erano. Come nella scena del risveglio. Noi siamo entrati alle cinque di mattina e il fatto che Oscar fosse abituato a noi ha fatto sì che quando apre gli occhi guardi dietro e non verso la mdp.
INVISIBILI: VAN DIEMEN'S LAND
van Diemen’s land
di, Jonathan auf der Heide
con, Oscar Redding, Thomas R. Wright, Paul Ashcroft, Arthur Angel, Mark Leonard Winter, Greg Stone, John Francis Howard, Torquil Neilson
genere, drammatico
Australia 2009
105’
… alle prepotenti realtà di quel prodigioso mondo di piante,
di acque, di silenzio. Ma quell’immobile vita non aveva proprio
nulla di pacifico. Era l’immobilità di una forza implacabile che
stia covando qualche imperscrutabile disegno
— J. Conrad —
La storia, più o meno ricalcata dall’esordiente auf der Heide con la collaborazione di Oscar Redding alla sceneggiatura su fatti realmente accaduti, si dipana attorno alle figure di otto detenuti - Alexander Pearce/di nuovo Redding, Robert Greenhill/Angel, Alexander Dalton/Winter, Thomas Bodenham/Wright, John Mather/Neilson, Matthew Travers/Ashcroft, William Kennerly/Stone ed Edward Little Brown/Howard - di origine inglese, scozzese, irlandese i quali, in ossequio alla scaltrezza tipica degli imperi, nel caso quello britannico al suo apogeo, contribuiscono obtorto collo, in veste di avanguardie reiette spedite oltremare a scontare in regime di lavori forzati le pene più varie e recidive (“Sono qui per sei paia di scarpe”, sillaba inerte Pearce), al consolidamento delle colonie nuovissime avocate alla Corona nemmeno un sessantennio prima a seguito delle esplorazioni del comandante Cook. L’idea della fuga è perciò un assillo, e tanto più allettante quanto più in apparenza semplice da concretizzare, non esistendo di fatto particolari sistemi di sorveglianza che non siano riconducibili alla monumentalità di un ambiente lussureggiante, vasto e primitivo che ricopre l’avamposto a nome Sarah Island, a mollo nelle acque interne del Pacifico Australe, teatro del racconto. Ecco, dunque, migliaia di alberi poderosi avvinti in strambi amplessi su un letto di smeraldo imbronciato a base di felci, arbusti e muschi, a impedire allo sguardo di aprirsi una strada verso il cielo. A variare il colpo d’occhio intervengono erte ripide che si innalzano all’improvviso su fiumi dal corso spesso impetuoso. E, ancora, vette a cui non sono estranee precipitazioni nevose si alternano a rilievi più dolci ma ingombri di vegetazione; chiazze di terreno piatto, agevoli in lontananza, nascondono acquitrini e recessi melmosi. Ogni centimetro di spazio uniformemente impregnato di una pellicola di umidità assicurata da piogge cicliche e persistenti. Per tutta evidenza, sono il clima e la conformazione dei luoghi, allora, più che la costanza repressiva dell’Autorità, a fissare le condizioni di una sopravvivenza ogni giorno da conquistare e, per contro, di una dipartita sempre un passo dietro le spalle. Consegue che, sin da subito, l’evasione messa a punto dal lacero gruppo di disgraziati (consistente nel sopraffare il custode dell’imbarcazione che di solito li traghetta in una zona di macchia vergine dove l’abbattimento continuativo di tronchi alimenta la nascente industria del legno e puntare verso Est, sede dei meno remoti insediamenti, anche se “There’s nothing out there”, li ammonisce il malcapitato) somigli più a una specie di stranito élan mortel che a un indomito desiderio di libertà (quest’ultimo in effetti più volte negato durante il sovrapporsi delle peripezie da una istanza a più voci finalizzata a un paradossale “tornare indietro”), azzardo temerario che non implicherebbe alcun lascito se il lugubre commento - in gaelico - di Pearce, pronunciato di quando in quando nei toni di una crescente e allucinata incredulità, non si incaricasse di renderne testimonianza: “Io sono un uomo tranquillo… Un uomo tranquillo che non vuole altro che un po’ di whisky nel sangue, una canzone nelle orecchie e una donna nel letto… Avevi dunque il Diavolo dentro quando mi hai portato qui ?… La pioggia sta arrivando”, annota in apertura su un lento movimento avvolgente della mdp a scrutare l’imperturbabilità della foresta aprirsi sul silenzio della baia e delle sue acque grigie come lame rotto solo dalle incombenze schiavili dei galeotti.
[Nota: Alexander Pearce, unico sopravvissuto allo svolgersi dei fatti, venne al fine catturato e ricondotto a Macquarie Harbour. Da qui fuggì una seconda volta assieme a un altro detenuto, Thomas Cox, il cui corpo mutilato venne rinvenuto non lontano dalla Colonia Penale. Pierce, di nuovo preso e confinato, venne trasferito a Hobart Town Goal e ivi impiccato il 19 Luglio 1824].
TFK