martedì 29 settembre 2020
sabato 19 settembre 2020
iNVISIBILI: KID THING
09:48
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Kid Thing
di Zellner
con, Sydney Aguirre, Nathan Zellner, Susan Tyrrell
genere, drammatico
USA 2012
durata, 82’
USA 2012
durata, 82’
I hope that
there’s a way
to breathe you
someday
— Idaho —
there’s a way
to breathe you
someday
— Idaho —
Intrappolati, oramai nessuno sa più da quanto, entro un incantesimo consolatorio che rappresenta l’infanzia e la prima giovinezza come la perfetta allegoria del paradiso in terra, e via via persuasi nel medesimo da decenni di allucinazioni propagandistico-pubblicitarie stentiamo o, sarebbe più onesto ammettere, sovente rifiutiamo di constatare - sistemandone per una volta nella giusta sequenza i rispettivi tasselli, senza pregiudizi e interessate precauzioni - le conseguenze di ciò che costituisce il nucleo autentico delle nostre attuali vicende personali al crepuscolo di una avventura collettiva, quella Occidentale (una poltiglia costituita per lo più di materialismo passivo, placida indifferenza, sottaciuta anedonia e, in perversa simbiosi, di ossessioni, rancore, grettezza et.), sulle generazioni che, una dopo l’altra, ci ostiniamo a mettere al mondo.
Per dire: Annie/Aguirre, dieci-undici anni, condivide lo stesso tetto insieme al padre Marvin/Zellner (un semi-inebetito a modo suo ipnotizzatore di galline e devoto del gratta-e-vinci, nonché capace di estrarsi un dente di fronte a lei) in uno spicchio di desolazione texana incistato tra zone approssimativamente inurbate, nello specifico all’interno dei confini rurali di una piccola proprietà tenuta insieme più dalla tassidermia di giorni tutti uguali che dalle attività minime connesse alla gestione di qualche capo di bestiame - quattro vacche, altrettante capre - Giocoforza solitaria, lunghi capelli giallo ananas e lentiggini di complemento, aria dolce/perfida da tesoruccio precocemente scoglionato (qualcosa di paragonabile, sebbene in versione aggressiva - ma utile per ribadire lo sprezzo consustanziale al modo moderno di maneggiare i rapporti - alle vicende narrate in un altro esordio alla regia, quello di Vasily Sigarev a nome “Volchok”, del 2009), di solito silenziosa ma al dunque indisponente, la ragazzina mena la propria giovane biologia collettizia secondo l’estro del momento ossia, tra una sorta di menefreghismo congenito e i primi assaggi di un tedio di cui - per lo meno - ignora vera ampiezza e profondità, non si tira indietro davanti a nulla: fa colazione con quello che trova; stacca le spine a una pianta con le pinze; mette a soqquadro un ripostiglio scovando una maschera antigas che indossa giusto per vedere l’effetto che fa; improvvisa uno scherzo telefonico a un meccanico. Di seguito esce e litiga con un gruppo di quasi coetanei in un parco giochi sgangherato, finendo per prenderli a sassate; ruba dolcetti e porcherie varie presso un minimarket: con quello che avanza bersaglia le automobili di passaggio allo svincolo di una tangenziale. Quindi si inoltra in un’area verde, trova uno specchio d’acqua e prova a farci rimbalzare dei ciottoli; a mani nude scorteccia un albero caduto per estrarne dai resti marci larve d’insetto che si premura di stritolare… Peregrinazioni circolari e insoddisfacenti che un giorno, mentre fa a pezzi un grosso lecca-lecca iridescente, si arricchiscono di un particolare inedito. Dalla boscaglia sembra giungere cioè un lamento o qualcosa del genere: in ogni caso, una variazione che spezza la monodia greve dei soliti pomeriggi. Annie si incammina e senza dannarsi troppo trova l’apertura quadrata di un pozzo da cui, una volta sollecitata, si leva la voce di una tal Esther/Tyrrell, ivi caduta di recente e bisognosa di aiuto. Cosa che però, lì per lì, la nostra piccola impunita, come perplessa e infastidita insieme, è tutt’altro che disposta a prestarle, preferendo mollare la faccenda e tornarsene a casa. Chiaro che a breve la curiosità connaturata all’anagrafe ha gioco facile sulla precauzione e sulla stessa iniziale riluttanza. Fatto sta che Annie torna di quando in quando sul luogo della scoperta offrendo alla misteriosa malcapitata (a questo punto stremata e implorante) un tipo di collaborazione sui generis la quale esclude la pura e semplice chiamata in causa di un soccorritore ma implica invece sia la periodica somministrazione di vettovaglie, preparate a casa o sottratte al già citato minimarket, tramite lancio a peso morto nel pozzo, sia la possibilità di improvvisare scampoli di conversazione (da notare: non di rado battibecchi) tramite un paio di walkie-talkie recuperati nel garage-magazzino del padre, con esiti alla lunga magari intuibili ma non per questo meno atroci.
Il sopra accennato equivoco sulla fanciullezza nelle mani dei fratelli Zellner (qui Nathan interpreta e co-produce, David dirige ma non è insolito che i due collaborino anche in sede di scrittura, come in “Kumiko, the treasure hunter”, del 2014, in cui gli autori, alternandosi ancora tra sceneggiatura, regia e recitazione tentano un ulteriore scarto allo scopo di screziare l’inesorabilità della disperazione contemporanea facendo leva sui chiaroscuri offerti da una inerme follia) diventa un non comune esempio di testimonianza indigesta (leggi: affatto conciliante, per certi versi chissà quanto suo malgrado ammonitrice), per la fredda puntualità e la disadorna disinvoltura con cui mantiene il piano della narrazione e le soluzioni visive escogitate - lenti indugi e accorte prolessi prospettiche sugli spostamenti della protagonista; primi piani della stessa da cui emerge la stolida fissità dell’animale inchiodato alla tagliola dell’istante da cui, per interminabili fotogrammi, sembra trapelare una abissale e incosciente frustrazione; ricorsività di un paesaggio in buona parte brullo e agonizzante, eppure talvolta come scoraggiato di fronte all’eventualità di dispensare le proprie residue sorprese a chi non è in grado di coglierne l’intrinseca natura duplice di promessa/responsabilità - in equilibrio sullo scivoloso crinale che separa la repertazione socio-antropologica dalla miniatura sovrapponibile alla dimensione mitica del racconto di formazione, qui entrambe ostaggio di un presagio di sventura eternamente incombente. In tal modo, sotto cieli spesso grigi, impassibili e muti, tra i simulacri sfiniti di una normalità orrenda proprio perché assimilata da sempre come finzione unica e immodificabile, l’agire al tempo sconclusionato e febbrile di Annie, un giorno dopo l’altro, una immemore rinuncia affettiva dopo l’altra, un gesto apatico o brutale dopo l’altro (ci si soffermi sul suo modo di dare il buon compleanno a una pari età costretta sulla sedia a rotelle), finisce per assumere i contorni paradossali di una - per quanto distorta, degradata e alla fin fine futile - fiabesca e autosufficiente atemporalità, i cui ritmi e le cui epifanie, le condizioni di sussistenza e la grammatica di base, le ingenuità e le perversioni (Annie sfida Esther a dimostrarle di non essere il Diavolo in persona o una strega pronti, una volta tratti d’impaccio, a portarla via con loro), in quel mistero mai del tutto penetrabile che lega l’incanto vergine di un bambino alla magia senza utilità del mondo, fluiscono e a loro volta sono generati dalle fantasie e dai raccapricci di una creatura umana incommensurabilmente sola. Di conseguenza, di fronte a un abbandono così radicale e indifferente, non può che perdere significato e sgretolarsi, nel disvelamento della sostanziale menzogna di taluni suoi assunti - i valori, le gerarchie, i sistemi educativi - lo stesso edificio sociale (la famiglia, la comunità) che a quell’abbandono dovrebbe opporre il primo e più resistente argine. Ad Annie che non soppesa, non discrimina, non resta allora che reagire, nell’equivalenza e nell’oblio di ogni cosa, dimentica degli uomini e da essi dimenticata, orfana persino di Dio (con buona pace, ad esempio, degli sciagurati ritratti dalla coppia Ewing/Grady nel documento “Jesus camp” del 2006, tutti intenti a plagiare attoniti marmocchi nel nome di Cristo). E assodato questo, davvero tutto può accadere, in ragione della triste necessità che avvolge i destini banali ma tragici. Destini che, come in questo caso, di fatto nemmeno ambiscono a compiersi, tanto tendono a esaurirsi in una inconsapevole quanto indotta dispersione, lusso ingannevole, quest’ultimo che, su scala più grande - una intera Civiltà - e per scopi tutt’altro che elevati, ci si è voluto permettere nell’illusione che non avrebbe implicato un prezzo da pagare, a dire la perdita di quella condizione aperta a un compromesso dignitoso tra purezza e raziocinio che ad Annie, come detto, non è stata concessa e a cui noi - per ampio demerito - non torneremo più.
TFK
domenica 13 settembre 2020
ARTU' WHERE ARE THOU? NOTE A MARGINE DI CURSED
04:48
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So at Candlemas many more great lords came thither for to have won the sword, but there might none prevail. And right as Arthur did at Christmas, he did at Candlemas, and pulled out the sword easily, whereof the barons were sore aggrieved and put it off in delay till the high feast of Easter. And as Arthur sped before, so did he at Easter; yet there were some of the great lords had indignation that Arthur should be king, and put it off in a delay till the feast of Pentecost.
- Sir Thomas Malory, da Le Morte d’Arthur -
Assisi come siamo su una montagna di più o meno lepide scipitezze (quando di non vere e proprie scemenze), tendiamo a sorvolare o, peggio ancora, ad assimilare passivi operazioni di calco e aggiornamento (verso cosa, poi, esattamente ? L’appiattimento irriflesso e definitivo di ogni differenza ?) proposte con sempre maggiore frequenza soprattutto dai colossi dello spettacolo domestico in ossequio al più banale circolo vizioso secondo cui, assecondando sempre e solo una logica ragionieristica, si riproduce oltre la nausea una formula rivelatasi remunerativa.
Caso di specie - ma è solo uno tra gli esempi possibili a portata di mano - la serie proposta dalla piattaforma Netflix (oramai quasi un paio di centinaia di milioni di abbonati in giro per il mondo; qualche decina di miliardi di dollari di capitalizzazione; dozzine di titoli, tra film e serie Tv, a copertura di, grossomodo, ogni genere cinematografico), nelle intenzioni (?) dedicata alle vicende che dovrebbero avere preceduto (e già la stessa prassi, a pensarci, sempre più diffusa e sempre più figlia della terminale mancanza di idee, di proporre ciò che potrebbe esserci stato prima per, nel frattempo, omogeneizzare quello che conosciamo adesso, allo scopo di preparare il terreno a ciò che potrebbe accadere, complice qualunque escamotage, dopo, esigerebbe lo sforzo di una riflessione) le gesta che siamo soliti associare al cosiddetto ciclo arturiano (canone letterario, estetico e morale - quindi, a suo modo, identitario - che ci è stato tramandato a partire dalle suggestioni in precario equilibrio sulla realtà storica collezionate dall’Historia Regum Britannie di Goffredo di Monmouth, all’incirca nel cuore del sec. XII, quasi a ridosso elevate a espressione poetica dal francese Chrétien de Troyes, infine cristallizzate nella forma ancora comunemente riconosciuta da Sir Thomas Malory, a cavallo della metà del sec. XV). Ci si riferisce alle, per ora, dieci puntate di “Cursed”, adattate a partire da un testo scritto da Tom Wheeler, poi addirittura illustrato dalle matite di Frank Miller e centrate sulla figura di Nimue - quella che, secondo il lascito originario, sarebbe diventata the Lady of the Lake/la Dama del Lago/Langford - giovane predestinata incaricata da un insieme di circostanze superiori di consegnare la spada-del-destino, la leggendaria Excalibur (fin qui mai menzionata come tale), nelle mani di Merlino il Mago/Skarsgård (figlio di Stellan e fratello di Alexander, noto ai più per la sua interpretazione dello sfuggente Floki in “Vikings”), al fine di un suo consono ultimo conferimento presso chi, tra i numerosi pretendenti in aperta e reciproca ostilità - un Uther Pendragon, cicisbeo regnante, vanesio e piagnone quanto, all’occorrenza, crudele; avide (sebbene un po’ in anticipo sui tempi: le prime testimonianze della loro presenza sul suolo britannico risalgono infatti alla fine del sec. VIII) orde il libera discesa dal Nord Europa; esaltati uomini di chiesa, i Paladini Rossi, intabarrati giustappunto in purpurei sai e accesi da una smania a metà tra furore iconoclasta e opportunismo di bottega, secondo gli ordini di tal Padre Carden/ Mullan - se ne fosse dimostrato davvero degno.
Come già si intuisce, lo spirito che sostiene il libero adattamento è tale - tra sovrapposizioni quantomeno dubbie (una spedizione di chierici in armi nella Britannia del, si suppone, V sec. ?); autentiche forzature storiche (Merlino sottolinea, durante uno dei suoi interludi alcolici, l’incostanza di carattere dei tanti sovrani che si sono avvalsi dei suoi servigi, annoverando tra questi Carlo Magno, Re e quindi Imperatore, bontà sua, vissuto tra i secoli VIII e IX, ossia un ingombrante numero di decenni dopo i fatti raccontati nella serie i quali, come accennato, dovrebbero essere collocati - e a maggior ragione per ciò che attiene a un Artù tratteggiato come sconosciuto ex mercenario di belle speranze - intorno al V sec.); pedaggi pagati a mo’ di sinecura ma senza fiatare al politicamente cretino (l’immancabile presenza, da un lato, di esponenti delle etnie più varie - per dire: Artù stesso è un ragazzo meticcio - dall’altro, di blande quanto esornative caratterizzazioni omosessuali che altro non aggiungono se non una scontata e paradossalmente retriva nota di colore) - da fagocitare quasi per intero il già citato canone da cui in teoria avrebbe preso le mosse l’intera faccenda, per restituirlo nelle fogge di guscio buono, perché doviziosamente svuotato, per qualunque esperimento, quindi alla fin fine pre-testo inutile perché, una volta sollecitato oltre i limiti naturali di tensione, ciò che si scopre - qui come altrove, sia chiaro - è un pigro annacquamento/svilimento (di temi, storie, passioni, proiezioni dell’immaginazione) con la scusa di un sincretismo tutto di superficie che deve tenere insieme, visti i veri interessi in gioco - l’inseguimento dei più alti indici di ascolto - e in ragione dell’ipocrita omologazione imperante che ancora si illude di comporre contraddizioni e attriti semplicemente mettendo ogni cosa sullo stesso piano (nel caso, ossia in ambito artistico, fraintendendo a scopo truffaldino la grandezza con la popolarità), il multiculturalismo fasullo da spot pubblicitario e da pseudo avant-garde social; il più che peloso ammiccamento alle sacrosante quanto sovente ambigue rivendicazioni emerse dal tumultuoso mondo femminile contemporaneo; la tolleranza magnanima ma al dunque pilatesca nei confronti delle istanze di genere, et.
Del resto, che il cimento in oggetto non fosse definito in relazione non si pretende alla fedele riproposizione degli ideali e delle imprese di ciò che avrebbe concorso a edificare il cosiddetto mondo cortese, quanto almeno a un coinvolgente succedersi di avventure sul filo di una ricostruzione un minimo puntuale dal punto di vista dei luoghi (qui quasi tutti come presi a noleggio alla fiera itinerante dei fondali che si avvicendano da un set genericamente fantasy all’altro) e così delle situazioni, dei volti e dei gesti, lo si evince dal tono medio di una scansione drammaturgica che indulge di preferenza in un anodino pragmatismo dialogico-esplicativo utile solo a trascinare il corpus della fabula (?) da un quadro al successivo (da una manciata di pop-corn all’altra, verrebbe da dire), senza un intermezzo accattivante (figuriamoci visionario), una stasi dubbiosa buona per ispessire di ambiguità, di non-detti, i profili psicologici dei personaggi; e che, d’altra parte, si pasce di una pienezza figurativa risolta pressoché esclusivamente nella prepotenza cromatica, nella magniloquenza inerte di talune inquadrature, cioè in una visibilità del tutto priva di opportune, stimolanti penombre, quelle che avvolgono, ad esempio, sul versante psicologico ed emotivo, rendendolo unico, lo stampo mercuriale delle donzelle e dei cavalieri della tradizione. A rimorchio di tali evidenze cercano così il proprio posto - spesso e volentieri non trovandolo - figure (leggi: attori) magari funzionali a un discorso vuoi orientato alla riconoscibilità immediata desumibile da altre esperienze televisive simili, vuoi indotto dalla già accennata e ingannevole inferenza per cui a una maggiore varietà di tipi umani corrisponde automaticamente una altrettale universalità di contenuti, che però, oltre a risultare poco credibili, sembrano addirittura impossibilitate per complessione, espressività, loquela a innervare quel piglio lirico - meditabondo/elegiaco - come anche ardimentoso/guerresco impresso sulle loro sembianze romanzesche dalla stratificazione dei secoli. Giusto restando ai ruoli principali, troviamo allora la Nimue della Langford (quella di “13 reasons why” e di “Tuo, Simon”) praticamente calata di peso - absit iniuria verbo - ma, più di tutto, spaesata in un contesto di eterna frenesia latente condito di ruvidezze assortite che poco si addice alla sua aria di ragazza borghese e di fondo ritrosa: non stupisce, di conseguenza, l’evidente goffaggine nel conciliare, mettiamo, aderenti mise in pelle con le presunte abilità di una consumata amazzone, per tacere del legnoso impaccio mostrato nel brandire la suprema spada durante i concitati certami. Di contro o, sarebbe meglio puntualizzare, in scia, l’Artù di Devon Terrell non si eleva mai, per atteggiamento e carisma, al di sopra delle aspettative e del rango di un volenteroso (quantunque a volte persino petulante) comprimario. Il panorama si movimenta un po’ al cospetto di Merlino - come detto, affidato alla longilinea fisionomia di Gustaf Skarsgård - uomo di magia solitario, sornione e doppiogiochista, incline alla depressione e all’alcol, come impone la vulgata recente che lo riguarda (pensiamo a una connotazione analoga proposta in “Transformers - L’ultimo cavaliere” da Bay). A lui si devono per l’appunto i rari momenti di sarcasmo e le sottigliezze argomentative (traccia unica di ambivalenza in una prospettiva retorica uniformata a una didascalica assertività declamatoria) utilizzate per restare a galla nel mare magno delle trame ordite al fine di entrare in possesso di Excalibur. Per il resto, ci si accomoda alla grassa tavola di “Game of Thrones” per rifocillarsi di estetica burina e ferocia enfatica, e per scimmiottare, aggrappandocisi malamente, la monumentalità paesaggistica del tardo archetipo jacksoniano.
Alla seconda stagione, dunque. E al prossimo miliardo di dollari.
TFK
lunedì 7 settembre 2020
sabato 5 settembre 2020
giovedì 3 settembre 2020
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