giovedì 30 aprile 2020
domenica 26 aprile 2020
venerdì 24 aprile 2020
MILES DAVIS: BIRTH OF THE COOL
07:22
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Miles Davis: birth of the cool
di, Stanley Nelson
genere: documentario
U.S.A. 2019
durata:, 113’
Il più grande limite delle autobiografie
è non poter raccontare la propria morte
Sarebbe dannatamente divertente
Se è vero che nella storia, specie recente, esiste l'insensata corsa ad affibbiare pressoché a chiunque l'appellativo di genio - neanche a dirlo, nella stragrande maggioranza dei casi il presunto tale, nei fatti, è più inetto di chi lo ha elevato alla posizione di mente superiore - nel caso si dovesse, con bavaglio alla bocca e pistola puntata alla tempia, cercare qualcuno da titolare con l'epiteto di cui prima, quel qualcuno - specie perché emerso con una naturalezza tanto straordinaria quanto insensata dalle macerie del secolo a oggi più buio della storia dell’umanità, il ‘900, e non foss'altro perché ogni cosa aveva da un pezzo cessato di esistere - potrebbe tranquillamente essere Miles Davis.
In "Birth of the cool", documentario senza eccessive pretese cinematografiche dal punto di vista del linguaggio - fatta eccezione per il momento in cui prendono piede le immagini di "Ascensore per il patibolo" di Louis Malle, del quale il musicista ha composto, o meglio improvvisato, la colonna sonora - si alternano le voci narranti degli intervistati - tra parenti, amici e/o musicisti con cui Miles aveva in qualche modo avuto a che fare - e quella di repertorio dello stesso Davis che, proprio grazie a essa, nel giro era stato affettuosamente insignito del titolo di Signore delle Tenebre. Particolarmente apprezzabile, poi, è l'onestà con cui procede il racconto biografico del nostro, del quale vengono sì esaltate le doti ma parallelamente messi in evidenza - senza toni né assolutori né inquisitori - i lati più oscuri della vita, tra cui i problemi di droga e la violenza domestica di cui si è reso più volte tristemente protagonista.
La piacevolezza della visione è data anche dal sarcasmo con cui Davis, in maniera sia diretta - la sua oscura voce pronuncia frasi esilaranti come "Frances è stata la miglior moglie che abbia mai avuto" - che indiretta - dopo i sette anni di assenza dal palco e di separazione del suo corno (così viene denominata la tromba nel corso del film) acquista una Ferrari giusto per l'occasione - propone il racconto delle situazioni che si è trovato ad affrontare. Per dirne una: dopo la consacrazione definitiva avvenuta con "Kind of blue", dando una rapida occhiata al panorama musicale in cui il rock aveva spopolato e riempiva gli stadi, semplicemente ebbe a dire: "... molti musicisti rock hanno successo senza saper suonare, quindi ho pensato che se loro arrivano a così tanta gente senza aver idea di quel che fanno, potrei farlo anche io, però meglio". E l'ha fatto, dando vita a una sperimentazione di suoni che ancora oggi sembrano venire da un'epoca troppo futura per poter prendere forma.
Non è un caso, allora, se "Birth of the cool" si apre con Davis che, sulle note di "So what", esordisce dicendo "la musica è sempre stata la mia maledizione” e se, proprio per questo, trasformare la sua maledizione nella nostra benedizione è il più appagante dei miracoli.
Antonio Romagnoli
mercoledì 15 aprile 2020
giovedì 9 aprile 2020
martedì 7 aprile 2020
INVISIBILI: CHEER
03:54
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Cheer
di, Greg Whiteley
con, Monica Aldama, Lexi Brumback, Morgan Simianer, Gabi Butler, Mackenzie ‘Sherbs’ Sherburn, La’Darius Marshall, Jerry Harris, Shannon Woolsey
USA 2020
genere, documentario
stag. I, ep. I-VI
durata media: 59’ ca./ep.
Mentre i figli del nostro mondo combattono per sviluppare la loro nuova individualità,
la loro irriverenza quasi scorbutica per le verità che noi adoriamo, diventano per noi
– e con ‘noi’ intendo la classe dirigente – una fonte di problemi. Non mi riferisco
necessariamente ai giovani politicamente attivi, quelli che si organizzano in associazioni,
con slogan e bandiere, anche perché per me quello è un ritorno al passato, per quanto
quegli slogan possano essere rivoluzionari. Mi riferisco a ciascun ragazzo
nella sua individualità, mentre si occupa di quelle che definiamo ‘le sue cose’.
- Philip K. Dick -
Come accennato altrove - per esempio in “The kings of summer” - non è possibile farsi un’idea convincente del modo di essere americano se non si getta un occhio al microcosmo giovanile che di quello rappresenta tanto il brodo di coltura quanto lo strumento in grado di assicurargli continuità nel tempo. In altre parole: partendo dall’assunto per cui l’immaginario di una nazione, ossia la sua capacità di autorappresentarsi allo scopo di sgrossare e irrobustire la propria identità - specie al giorno d’oggi, a dire al tramonto della modernità - passa attraverso una serie di rituali e di simboli di immediata fruizione che ne forgiano lo specifico, è al laboratorio delle generazioni che bisogna guardare al momento di tentare di isolarne e comprenderne i caratteri ricorrenti e gli elementi di discontinuità/originalità.
Un tentativo in tale direzione viene compiuto da “Cheer”, docuserie Netflix in sei episodi e alla prima stagione focalizzata sulle esperienze vissute da un gruppo di ragazze e di ragazzi del biennio universitario raccolti attorno a una squadra di cheerleading presso il Navarro College di Corsicana, Tx - cittadina tranquilla sottratta al deserto, qua e là tradizionali villette a schiera con staccionata bianca, fiorente la produzione di fruit cakes note in tutti gli Stati Uniti - una novantina di chilometri da Dallas - a Nord-Ovest - e quasi altrettanti dalla famigerata Waco - a Sud-Ovest - Nulla di più ovvio e di più tipicamente a stelle-e-strisce, tale contesto, se non fosse che l’occhio della mdp, mimetico e pedinatore, discreto e partecipe, da subito sceglie di rovistare oltre lo strato più appariscente di questa ennesima decalcomania (conservatrice) dell’american way of life composta da un amalgama di sorrisi da pubblicità del dentifricio, ormoni in agitazione costante, polsini, cavigliere, bendaggi, cotonature e glitter, ristabilendo, in scia, le giuste proporzioni raggiunte da un fenomeno passato in un cinquantennio abbondante da piacevole intermezzo sistemato tra un rifiato agonistico e l’altro (a codificare in prevalenza un certo tipo di immagine femminile - soave, rassicurante, convintamente accessoria - atta a legittimare una precisa idea di società e di valori - il paternalismo reazionario di stampo eisenhoweriano all’alba del consumismo di massa -), ad ambito autosufficiente in grado di generare contenuti, codici e gerghi propri - nonché prevedere l’introduzione in pianta stabile della componente maschile - ossia gli strumenti di base per l’edificazione di una autentica sottocultura la quale, come per inerzia accade a quelle latitudini, valicata la soglia dell’apprezzamento di nicchia e dotatasi di strutture e di competenze al passo coi tempi, proietta le proprie ambizioni verso la conquista di un posto al sole negli affollati territori del Mercato (il giro di affari legato al cheerleading, e non solo negli USA, è in costante crescita).
Testimonianza di quanto detto è stata, da un lato, la progressiva trasformazione delle esibizioni da siparietto canoro-declamatorio con pose plastiche e frammenti di esercizi a corpo libero a routine di intricate coreografie acrobatiche miste a passi di danza ed equilibrismi in sistematica lotta contro la gravita; dall’altro - e, a soffermarcisi, non poteva essere altrimenti - l’istituzione di un Campionato in piena regola che, ogni anno, al termine dei corsi, sul litorale di Daytona Beach in Florida, elegge la migliore formazione di cheerleading del paese (al momento delle riprese, il Navarro College detiene ben 13 titoli nazionali, un record assoluto). Tutto ciò mette già bene in luce, in trasparenza, l’importanza identitaria di una disciplina che, sebbene collaterale e ancora, a tutti gli effetti, “attività extracurricolare”, quindi non uno sport (difficile non considerare i giovani all’opera dei veri e propri ginnasti, ma tant’è) e nemmeno un ipotetico sbocco professionale, vista la sua limitazione alla consuetudine universitaria, da par suo dialoga fitto con un altro degli aspetti emblematici del vivere associato yankee, quello della competizione il quale, a sua volta, dal momento che lo scopo è, manco a dirlo, primeggiare, affida parte delle velleità di affermazione all’apparato tecnico, qui nelle fogge severe della specializzazione. Troviamo, così, oggi, riunite sotto l’egida della NCA - National Cheerleading Association, fondata nel 1948 dal pioniere Lawrence Herkie Herkimer - compagini di 20 elementi (11 ragazzi e 9 ragazze, quando agli albori di ciò che era più o meno considerato alla stregua di un espediente per riempire i momenti morti delle gare a cui faceva da contorno se ne contavano anche meno della metà), ognuno con un determinato ruolo e un particolare addestramento. Andiamo cioè dagli stunters/ragazzi, ossia gli incaricati di lanciare le ragazze in aria e riprenderle dopo le evoluzioni, passando per i tumblers/sia ragazzi che ragazze, esperti di capriole e volteggi sul tappeto, per trovare le flyers/ragazze, in genere piccole e leggere, a dire le più in teoria adatte a giravolte e avvitamenti, e arrivare alle top girls/ragazze, flyers particolarmente dotate dal punto di vista della scioltezza e dell’espressività (nel caso, tipo Mackenzie, detta Sherbs, elegante e polivalente, punto di forza della squadra - messa all’angolo da un infortunio all’avambraccio, eventualità, la predetta, a ben vedere non così remota per una esecuzione avvezza a convivere con le più varie patologie: stress tibiali, caviglie slogate, lesioni delle cartilagini della spalla, lussazioni acromion-claveari di terzo grado, incrinature di costole, danneggiamenti della cuffia dei rotatori, tendiniti patellari, traumi cranici, et. -), delegate alla composizione del numero finale - la piramide - quello più difficile e spettacolare di una prova che, norma vuole, concentra tutto il lavoro di un anno in 2’ e 15’’ (perché “una volta che la musica è iniziata, i giochi sono fatti. Non si può più tornare indietro”, anche se, appurata l’alea considerevole e la relativa pericolosità dell’insieme, la Giuria consente di riprendere il saggio da dove è stato eventualmente interrotto, dopo un breve intervallo, senza l’aggravio di penalità). A completare l’organico e a ribadire l’essenza del cheerleading moderno nel senso di miniatura di gruppo-familiare-allargato (e, come vedremo, mediamente disfunzionale), non può mancare l’incarnazione dell’auctoritas, l’ago della bilancia, il punto di convergenza di ogni aspettativa e di ogni attrito: l’allenatore, o head coach che dir si voglia, qui affidato ai lineamenti gentili ma determinati, alla preparazione meticolosa e alla scaltrezza di Monica Aldama, sorta di Sgt. Hartman in jeans, stivali e rossetto ma anche e prima di tutto madre vicaria e sorella maggiore di buona parte dei suoi allievi, chiamata a padroneggiare e comporre la pedagogia orizzontale del lavoro-ben-fatto, del rispetto di sé stessi e delle regole e quella verticale indirizzata alla ricerca di una comunione sentimentale posta un po’ più in là rispetto all’ottenimento del risultato perché votata alla scommessa di rendere possibile la tessitura di una trama di affetti sinceri e auspicabilmente duraturi.
Ed è proprio su tale serie di distinzioni, infatti, ovvero nel privilegiare l’osservazione e la descrizione delle dinamiche interne di una tipologia a parte quale è un ensemble di cheerleading, che il lavoro di Whiteley, con l’evocazione a mo’ di basso continuo delle ubbie dei singoli impastate di ansia, di frustrazione e, talvolta, di disperazione a un passo dal crollo (due o tre effettivi della squadra hanno ammesso o lasciato intendere di avere contemplato l’idea del suicidio), compie il suo decisivo scarto narrativo rispetto a un tutt’altro che improbabile e fondamentalmente innocuo taglio elogiativo-propagandistico o quand'anche perverso-caricaturale (vd., sempre col patrocinio di Netflix e per rimanere all’attualità, la serie “Dare me”, in cui il mondo del cheerleading è usato come pretesto per innescare la più o meno trita sarabanda di deviazioni modaiole, scazzi a orologeria, tradimenti, agnizioni, non solo adolescenziali), collocandosi in uno spazio chiaroscurato a cavallo tra teen comedy e teen drama all’interno del quale le sfumature emotive e caratteriali di alcuni ragazzi, i loro trascorsi complicati e/o infelici, i rapporti faticosi, quasi solo protocollari se non addirittura inesistenti con le famiglie naturali, le difficoltà a integrarsi in un ambiente altamente selettivo, a recuperare studi spesso trascurati, screziano piroette, salti, torsioni e moine di un parossismo nervoso e non di rado esausto assai più evidente e contundente della gioia ludica e della spensieratezza atletica che da essi dovrebbe trasparire, contribuendo a fare di “Cheer” più una sorta di vademecum della giovinezza problematica ai tempi dei giudizi sommari di Internet e della pressione psicologica correlata al raggiungimento del primato e della notorietà - buchi nell’acqua e rivelazioni deludenti incluse - che la compassata rappresentazione di una privilegiata età dell’oro incidentalmente ostacolata da qualche trascurabile asperità.
In tal senso, il cadenzato sovrapporsi - stilisticamente ordinario dal punto di vista del linguaggio cinematografico ma qualificante da quello della dimensione umana e privata che si vuole indagare al di sotto dell’inesausto andirivieni di muscolature toniche e frasi e atteggiamenti di mutuo incoraggiamento - tra sedute di allenamento tenute al CTA, Corsicana Tumbling Academy, (consistenti in infinite ripetizioni al fine di ottenere equilibrio, affiatamento e quella fluidità particolarissima che deriva dalla reiterazione quasi inconscia di gesti coordinati e pause ad hoc, secondo la regola per cui “si ripete finché non è perfetto e si continua finché non si sbaglia”, singolare esempio di pensiero magico applicato al funambolismo) e riflessioni personali di un nucleo ristretto di studenti/atleti, quelli più rappresentativi, al di là delle doti specifiche, per via di vicissitudini che paiono contraddire alla radice la stessa sostanza vitalistica e glamour di un intero modo di vivere, a dire quello che pone al centro della scena l’individuo chiamato a far emergere la sua eccezionalità a qualunque costo (estremizzando, quasi un prolungamento di quel darwinismo sociale da sempre di casa nelle comunità di matrice anglosassone), insinua all’interno dell’opera, paradossalmente ma inequivocabilmente, il presagio sinistro di ciò che forse è lo spauracchio per antonomasia della società capitalista, quella USA in primis: il fallimento. Fallimento che alligna ed è vistoso in specie nell’America proletaria e di provincia, ogni volta dimenticabile e dimenticata, che vegeta ai margini del grande sogno e di cui un certo numero di protagonisti del presente documento è allo stesso tempo summa, testimone e vittima. A partire da Morgan/flyer (poi top girl), da Osage, Wy, scricciolo di quaranta chili timido e giudizioso - eppure con una testardaggine tutta sua - presto affidata ai nonni per la dissoluzione progressiva del nucleo familiare, cresciuta nella solitudine, quindi nella certezza di non interessare nessuno perché, a suo dire, non meritevole di interesse. Proseguendo con Lexi/tumbler dai lunghi capelli color avorio, simil elfo tornito dagli occhi imploranti proveniente da Houston, Tx, atleta estrosa e ventenne irrequieta con precedenti per aggressione e possesso di sostanze illegali. Incontrando poi Gabi/flyer-tumbler, di contro reginetta indiscussa (centinaia di migliaia i suoi seguaci in Rete per un percorso che la vede cheerleader praticamente dall’età prescolare), imprenditrice di sé stessa e Megan Fox tascabile, nativa di Boca Raton, Fl, da dove i genitori controllano, con la solita sollecitudine opportunistica e lo sfinente blablabla a dar retta al quale “mia figlia è una ragazza come le altre”, la sua carriera di star predestinata, tra televisione, tournée e moda. Arrivando quindi a La’Darius/stunter-tumbler, da Fort Walton Beach, Fl, energico e ciclotimico, deciso a scrollarsi di dosso un passato di emarginazione e di abusi attraverso una condotta il più possibile orientata alla riaffermazione di sé per mezzo della ricerca della perfezione nella prestazione, slancio spesso smussato e reindirizzato dall’occhio vigile di Monica verso l’autocontrollo e lo spirito di corpo. E concludendo con Jeremiah, Jerry/stunter da Naperville, Il, piglio eccentrico e ottimista nonostante un’infanzia presto privata della presenza della madre per via di un tumore e vieppiù appesantita da un quotidiano intriso anche di bullismo e derisione.
Dall’insieme di tutti questi aspetti è facile desumere allora, come, per dire, i classici abracadabra della società dello spettacolo - perseveranza, abnegazione, ossequio nei confronti della gerarchia, peculiarità e insofferenze dell’ego incanalate verso l’armonia di gruppo, il talento come esempio e responsabilità, la sofferenza (innanzitutto fisica) a identificare l’itinerario obbligato per la realizzazione del desiderio, il privilegio di vedersi concedere la fatidica seconda possibilità - una volta calati nella mediocrità e nell’incertezza cronica dei (nostri) tempi - condannati, questi, a non poter nemmeno più reclamare 15’ di anonimato, altro che popolarità, che è e resta una trappola per gonzi - e più nello specifico su corpi e volti la cui sola spontanea esuberanza è oramai incapace di dissimulare un precoce disincanto quanto una dissonante serietà, il disagio di una perenne sensazione di inadeguatezza, tradiscono loro malgrado il limite di quell’equivoco interessato che, tipo un meccanismo ottuso ma inesorabile, a ogni giro di giostra traveste la felicità da soddisfazione materiale, l’emozione irripetibile di un momento speciale da stucco sentimentalistico, rimettendo ancora e ancora in circolo il bluff maldestro di un mondo in realtà devastato e muto, lui per primo restio a credere davvero al proprio trucco. Di fatto e in conclusione, dall’immagine della classe riunita attorno alla piscina del college, di certo rilassata ma sempre un po’ pensierosa - come i boys of summer di Henley o quelli ancor più elusivi di Ellis - resta difficile intuire, ed è un’altra freccia all’arco di “Cheer”, dove finisce l’appagamento per un percorso bene o male portato a conclusione e dove altresì comincia l’affanno in relazione a un futuro tutto da inventare per via dei suoi contorni incerti (a breve qualcuno ha abbandonato il Navarro College; qualcun altro lo ha momentaneamente lasciato per poi farvi ritorno). Nessuno sa, cioè, se Morgan e gli altri, come si augurava Dylan Thomas, riusciranno a pettinare i giardini delle contee per farne una ghirlanda. Di certo non lo sa l’Algoritmo, tantomeno il Denaro. E il bello è gia questo.
[Nota: La Varsity Spirit, colosso del settore, che oltre a detenere i diritti del Campionato organizza manifestazioni e raduni, vende divise e accessori, per un fatturato annuo che sfiora il paio di miliardi di dollari, ha negato alla troupe di Whiteley l’accesso alle finali di Daytona. Indi le riprese di quella giornata sono il risultato del montaggio del materiale girato (per lo più con gli smartphone) dai partecipanti stessi all’evento].
TFK
domenica 5 aprile 2020
INVISIBILI: GUY AND MADELINE ON A PARK BENCH
03:51
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Guy and Madeline on a Park Bench
di Damien Chazelle
con Jason Palmer, Desiree Garcia: Madeline, Sandha Khin
USA, 2009
genere, drammatico, musical
durata, 82'
USA, 2009
genere, drammatico, musical
durata, 82'
Se è vero che Damien Chazelle avrebbe scritto la sceneggiatura di "La La Land" nel 2010, riuscendone a realizzare un film sei anni più tardi, grazie alla stima conquistatasi presso gli Studios hollywoodiani per il successo ottenuto con "Whiplash", non c’è dubbio che "Guy and Madeline on the Park Bench" costituisca una sorta di prova generale del pluripremiato lungometraggio. Girato nel 2009 sviluppando quella che all’inizio doveva essere la tesi di laurea, ciò che fa di "Guy and Madeline on a Park Bench" il prototipo della filmografia di Chazelle non è certo una semplice questione di contiguità cronologica. A tal proposito il regista americano gioca fin da subito a carte scoperte dichiarando l’amore per un cinema - quello hollywoodiano di epoca classica - concretizzatosi nell'allestimento di una storia realizzata secondo i dettami del genere americano per eccellenza e cioè di quel musical anni 50 (in particolare quelli della Metro Goldwin Meyer) a cui il Chazelle tornerà a guardare per concepire il suo progetto più ambizioso.
Più che il romance insito nella vicenda dei protagonisti, la cui unione è destinata a durare il tempo necessario allo scorrere dei titoli di testa, a caratterizzare "Guy and Madeline on a Park Bench" è soprattutto la musica: quella Jazz suonata da Guy (Jason Palmer, noto trombettista americano) e l’altra, del fido Justin Hurwitz (compagno di scuola di Chazelle e sodale nei suoi lavori successivi) incaricata di dare il là ai tip tap in cui Madeline e gli altri personaggi si cimenteranno nel corso della storia: una priorità, questa, resa evidente nella funzione assunta dal collage visivo che introduce la vicenda. I fotogrammi iniziali, quelli designati a riassumere la parabola amorosa di Guy e Madeline, servono di fatto al regista per innescare la suspence narrativa legata alla curiosità dello spettatore di conoscere la sorte dei protagonisti e cioè per sapere se le vicende a cui sta per assistere saranno o meno la premessa di un incontro successivo. Quesito, quello appena ipotizzato, in grado di mantenere vivo un principio d’azione altrimenti messo in discussione dalla struttura centrifuga della trama, al pari della musica Jazz che ne accompagna le scansioni, impostata a procedere con andatura sincopata e per variazioni successive intorno al tema centrale (da sempre caro al regista), rappresentato dall’impossibilità di conciliare gli egoismi dell’ispirazione creativa con le vicissitudini della materia amorosa. Tenute insieme da queste premesse e in attesa che l’epilogo possa avere seguito, il regista fa si che le divagazioni narrative e le performance musicali siano in qualche modo coerenti con le esistenze dei personaggi - separati nella vita ma uniti dalla volontà di trovare il proprio posto nel mondo -, essendone in qualche modo il riflesso dello stato d’animo.
Dalla presenza di aspetti autobiografici (l’amore per la musica e il tentativo di farne lo scopo della propria carriera, come pure i trascorsi universitari coincidenti negli studi effettuati da Guy presso l’Università di Princeton), alle caratteristiche ricorrenti come quella di trattare i sentimenti alla pari di uno spartito musicale, ovvero variandone di continuo toni e frequenze, per non dire del dazio pagato dall’amore, costretto ogni volta a lasciare il passo alle ambizioni personali e infine il perseguimento ossessivo della performance (rintracciabile anche in "First Man - Il primo uomo"), tutto in "Guy and Madeline on a Park Bench" anticipa il cinema che verrà. Eccezion fatta per la forma, costretta da risorse limitate a una messinscena lontana delle estetiche dei modelli di riferimento (i film di Stanley Donen, citato in apertura dalla signorina con l’ombrello, a ricordare forse "Cantando sotto la pioggia") e perciò votata a un cinema veritè che fa della mancanza di mezzi il principio della propria verosimiglianza. I primi piani avvicendati da zoom improvvisi e campi lunghi, le riprese rubate alla strada e alla libertà di movimento degli attori, l’uso del bianco e nero e soprattutto la percezione di una trama organizzata a tempo di musica e mediante il pedinamento dei personaggi ripresi mentre vanno a "zonzo" per la città, ricordano certo cinema della nouvelle vogue ma anche il Cassavetes di "Ombre", capostipite di quel cinema indie della cui lezione il primo Chazelle ha di certo fatto tesoro. Presentato in anteprima al Tribeca Film Festival del 2009, "Guy and Madeline on a Park Bench" si fa guardare più per il suo valore filologico che per la straordinarietà dei risultati, costituendo di per sé una versione ancora grezza del talentuoso autore.
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)
venerdì 3 aprile 2020
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