lunedì 30 agosto 2021
martedì 24 agosto 2021
sabato 21 agosto 2021
mercoledì 18 agosto 2021
Invisibili: Tilt
Tilt
di, Kasra Farahani
con. Joseph Cross, Jessy Hodges, Elijah Collins, Billy Khoury, Christian Calloway, Kyle Koromaldi
USA 2017
durata, 100’
I’ve been thinking for days
about the means and the ways
— Filastrocca —
TFK
martedì 10 agosto 2021
FIRST COW
'Rehana Maryam Noor'
'Rehana Maryam Noor'
Abdullah Mohammad Saad
con Kazi Sami Hassan, Afia Jahin Jaima, Azmeri Haque Badhon
genere, drammatico
Bangladesh, Singapore, Qatar
durata, 107’
Presentato fuori concorso a Cannes 74 nella sezione Un Certain Regard. Capita sempre così, ovvero che nei grandi festival internazionali le sorprese non riguardano il concorso principale, di solito riservato ai nomi appartenenti al gotha internazionale (in quello di quest’anno i pronostici sono a favore di Nanni Moretti e di altre vecchie conoscenze), bensì le cosiddette sezioni collaterali, quelle che costituiscono il trampolino di lancio per giovani virgulti. E’ il caso di Abdullah Mohammad Saad, autore del Bangladesh, issatosi fin qui grazie a un primo film, "Live from Dhaka", carico di premi e di stima ottenuti in festival rigorosi come Rotterdam e Locarno. "Rehana" sembra essere figlio di quelle esperienze, non facendo nulla per apparire diverso da quello che è, ovvero un film in cerca di fortuna presso spettatori cinefili aperti a storie provenienti da altre culture, di cui il film del regista si fa portavoce in maniera critica e conflittuale.
Come si capisce dalla trama "Rehana" ha tutto per figurare come un film di denuncia, di quelli che a queste latitudini sono destinati a conquistare la critica desiderosa - non a torto - di spendersi per una giusta causa come quella raccontata dal film. Sola contro tutti e in una condizione come quella femminile che ne mette in discussione per principio la giustezza del suo fare, Rehana appare fin da subito una figura eroica, disposta com’è a battersi contro una realtà più grande di lei. Personaggio fuori dal comune che il regista pedina all’interno nel suo ambiente, alimentando una tensione scatenata dalla contrapposizione tra le certezze della protagonista e la reticenza dei suoi interlocutori; quest'ultima presente anche tra le fila di coloro (la studentessa concupita dal professore, la figlioletta accusata di aver picchiato un compagno di scuola) di cui la donna prende le difese.
Ed è proprio il clima di incertezza in cui si muove la storia a fare la differenza, con i fatti non supportati da una visione oggettiva, ma presentati allo spettatore in maniera indiretta, attraverso il racconto dei presunti testimoni. Senza venire meno alla realtà dei fatti e ai motivi della sua istanza, "Rehana" con il passare dei minuti si scrolla di dosso l’etichetta del film politicamente corretto, arrivando a cambiare pelle in una maniera che dal punto di vista cinematografico ricorda il cinema di Asgard Farhadi (peraltro presente a Cannes nel concorso principale con "Un Heros"). Come quello, infatti, "Rehanna" ha la capacità di operare scarti psicologici impercettibili che nella loro totalità sono però in grado di diminuire la distanza tra le parti, avvicinandosi alla vita vera perché come in quella è difficile essere sempre al di sopra delle parti. Come capita a Rehana, di cui a un certo punto è difficile capire dove finisce il senso di giustizia e dove invece incomincia lo sfogo delle proprie ossessioni personali. In quest’ottica "Rehana" mette in secondo piano le sollecitazioni progressiste per diventare il lucido referto della condizione umana e delle sue contraddizioni. Così facendo il regista imprigiona i caratteri in una sorta di laboratorio comportamentale, simile a un limbo esistenziale in cui il confronto tra forze opposte e il pathos che ne deriva sono raggelati dalla geometrica linearità delle inquadrature, oggettivate dalla presenza di una fotografia monocromatica la cui patina sembra voler materializzare il velo di ipocrisia che impedisce a chi guarda di conoscere fino in fondo le persone e il loro animo. Ad Abdullah Mohammad Saad il plauso di essere riuscito a raccontare una figura femminile capace di dialogare con il cinema del dopo #METOO con una complessità che è il contrario della retorica insita in molta narrativa contemporanea.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
Frammenti di visione: a proposito di 'Lamb'
Lamb
di, Ross Partridge
con Ross Partridge, Oona Laurence, Tom Bower, Jess Weixler, Scott McNairy, Lindsay Pulsipher
- USA 2015 -
97’
Little Lamb who made thee?
Dost thou know who made thee
gave thee life, and bid thee feed
by the stream and o'er the mead
— W. Blake —
Quando due solitudini si dedicano al funambolismo sullo stesso filo blu, accade che l’equilibrio – già di per sé precario – diventi una faccenda quasi aleatoria, a meno che non ci si trovi di fronte al miracolo del bilanciamento reciproco. Sembrerebbe questo il caso dei due protagonisti di “Lamb”: un uomo di mezz’età mandato in frantumi dal matrimonio fallito e dalla morte del padre, da una parte; una ragazzina – circa undici anni – fin troppo sveglia ma vittima della disattenzione di una normalissima famiglia disfunzionale, dall’altra.
In questo contesto l’incontro iper-casuale tra i due non è semplicemente il motore dell’azione dal punto di vista drammaturgico ma soprattutto una necessità naturale, ovvero l’ennesimo tentativo di non morire. Non è un caso che la conseguenza più o meno diretta di questa strana combinazione di esseri umani sia un viaggio con cui ci si lascia alle spalle le vite fagocitate dall’orrore urbano per dirigersi verso campi dorati e montagne rocciose. Anche se a onor del vero ci si poteva spremere di più per tirare fuori dal comparto visivo delle immagini se non più suggestive almeno più aderenti al profilo – ognuno a proprio modo – misterioso dei personaggi, dal punto di vista del rapporto schermo-voyeur l’opera mantiene un livello di ambiguità tale da creare in chi guarda l’idea di una possibile degenerazione del rapporto – mi si perdoni l’autoconcessione di utilizzare questo inciso per una battuta, ma qui è proprio il caso di dire che la pedofilia è negli occhi di chi guarda – mantenendo dunque uno stato d’angoscia sottile e duraturo lungo l’intera visione.
L’epilogo più normale possibile è dunque laconico e conferma, come se ce ne fosse ancora bisogno, che se non si può separare la tristezza dal cuore si può perlomeno lanciare il cuore nel vuoto.
Antonio Romagnoli